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Ricordiamo Domenico Giglio, l’amico, il compagno di tante battaglie culturali e politiche

di Salvatore Sfrecola

Quattro anni, e ancora non possiamo rassegnarci al fatto che Domenico Giglio non è più tra noi dal 3 agosto 2021, Sgomenti i familiari, la carissima moglie, Maretta, le figlie, Elena, Ludovica e Stefania ed i nipoti, ma anche gli amici che gli sono stati vicini nel lavoro, nelle attività politiche e culturali e nel Lions.

Aveva iniziato giovanissimo ad occuparsi di politica, negli anni Cinquanta nel Partito Nazionale Monarchico (P.N.M.) svolgendo contemporaneamente funzioni di dirigente nazionale del Fronte Monarchico Giovanile, l’organizzazione dei “ragazzi” dell’Unione Monarchica Italiana (U.M.I.). Dal 1958 entrò a far parte della Direzione Nazionale del P.N.M. fino a quando, nel 1961, il partito si trasformò nel P.D.I.U.M. (Partito democratico italiano di unità monarchica). Passato all’opposizione del Segretario nazionale, Alfredo Covelli, nel 1972, in seguito alla confluenza del P.D.I.U.M. nel M.S.I., Domenico abbandonò il partito e fondò Alleanza Monarchica, un circolo culturale-politico che voleva mantenere vivo l’ideale monarchico. Nel ricordare quella sua decisione, di opposizione alla confluenza nel M.S.I., Andrea Ungari, Professore di Storia contemporanea nella UNIMarconi, ed amico di lunga data di Giglio, ne ha ricordato lo spirito profondamente liberale, la vasta cultura che lo portò ad impegnarsi nel corso degli anni sempre in iniziative culturali importanti, da ultimo con la presidenza del Circolo Rex, “il più antico circolo culturale della Capitale”, fondato nel 1948, come amava ricordare, che aveva seguito dal 1960, per divenirne prima Vicepresidente (1969) e poi Presidente (2009), ultimo di una serie di prestigiose personalità fedeli a Casa Savoia. Come Carlo d’Amelio che del Re Umberto II era stato l’avvocato, una personalità del Foro romano, già Governatore del distretto Rotary.

Un uomo colto, intelligenza vivace, Domenico Giglio non era un nostalgico della Monarchia. La sua passione politica si fondava su una ragionata adesione ad un assetto dei poteri dello Stato che vede nel vertice istituzionale un ruolo di garante imparziale del sistema politico che in repubblica è attenuato dall’appartenenza ad una maggioranza paritica. Ne abbiamo parlato più volte, lui ingegnere io giurista, entrambi preoccupati del buon funzionamento delle Istituzioni e della “macchina dello Stato”. Scriveva spesso del Re Vittorio Emanuele III e ne difendeva il ruolo straordinario, fin dai primi giorni dell’ascesa al trono insanguinato dall’uccisione del padre, Umberto I, quando volle avviare il rinnovamento dello Stato respingendo le proposte di quanti intendevano approfittare del regicidio per dar luogo ad una stretta sulle rivendicazioni popolari ed operaie. Quel Re che aveva guidato l’Italia nella Grande Guerra per completare l’unità con Trento e Trieste e le terre irredente dell’Istria, l’avrebbe salvata ancora nel 1917, a Peschiera, rivendicando, di fronte ai capi politici e militari delle potenze alleate, il valore del soldato italiano, sostenendo che avrebbe saputo riscattare Caporetto. Ed ancora il 25 luglio 1943, quando prese atto della fine del regime fascista per riassumere i poteri statutari dei quali la dittatura lo aveva privato, e riprendere in mano le sorti della Patria e salvarla l’8 settembre, pur tra le inevitabili tragedie dell’invasione tedesca, mantenendo alta la bandiera del Regno, unica autorità riconosciuta che aveva il dovere, come avrebbe sottolineato il Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, di lasciare Roma per garantire la continuità dello Stato. Non dimenticava, Giglio, questi passaggi cruciali della storia nazionale e difendeva, contro gli opportunisti e i bugiardi, il ruolo del “Suo Re”.

Ingegnere, amava i numeri e le statistiche con le quali contestava le versioni di fatti ed eventi spesso strumentalizzati dal politically correct, ai quali opponeva ragionate interpretazioni.

Ricordava spesso Dante e la storia di Roma, il faro della civiltà occidentale che portava ovunque nel mondo allora conosciuto le stesse condizioni di vita e civiltà che caratterizzavano la Repubblica e poi l’impero sulle rive del Tevere. Basti pensare agli acquedotti che ovunque assicuravano l’acqua, emblema della civiltà, le Terme che favorivano la socializzazione, come i teatri. E le strade, per unire popoli lontani e favorire i commerci e lo sviluppo dell’economia.

Era un oratore brillante Domenico. Sempre documentato parlava a braccio senza un appunto, senza interruzioni, neanche di quelle che accompagnano un attimo di riflessione, snocciolando citazioni, nomi e date.

È stato un campione dell’ideale risorgimentale della Monarchia Parlamentare che con lo Statuto Albertino ha introdotto nell’ordinamento dello Stato regole fondamentali della democrazia liberale, come i diritti politici delle persone, che oggi non si amano ricordare, soprattutto quando sono state pressoché integralmente riportate nella Costituzione repubblicana, a dimostrazione della lungimiranza del legislatore del 1848 che, farà dire al repubblicanissimo Pietro Calamandrei in Assemblea costituente dello Statuto Albertino “vedete come è chiaro e sobrio”.

Guai a negare storia e cultura del nostro Risorgimento, di quello straordinario periodo storico che giustamente Domenico Fisichella, che gli è stato amico e che spesso ha tenuto conferenze al circolo Rex, definiva un “miracolo”. E tale in realtà è stato, visto oggi nel contesto della politica italiana dove emergono mediocrità e interessi di parte, egoismi che vorrebbero con l’“autonomia differenziata”, di recente riconosciuta alle regioni con la legge c.d. Calderoli destinata ad aggravare antiche disuguaglianze in assenza di condizioni omogenee di partenza.

Del Risorgimento Domenico Giglio ricordava spesso la passione di persone di ogni ceto sociale sino a farne, riprendendo una famosa considerazione di Indro Montanelli, l’unico effettivo “collante” degli italiani, quando personalità illustri della politica e della cultura, pur schierati su posizioni diverse dal punto di vista istituzionale e politico, monarchici e repubblicani, hanno saputo trovare il modo di far convergere i loro sforzi perché, “prima di tutto”, bisognava fare l’Italia. Un’espressione che ricorre nelle parole del Re Umberto II nel momento in cui lascia Roma dopo un referendum dagli esiti contestati. Il Re che dice “l’Italia prima di tutto. Sempre” è stato costantemente nel cuore di Domenico Giglio che amava aprire le conferenze del Circolo Rex con la lettura di qualche frase di un documento del Re Umberto, messaggi, riflessioni sulla situazione politica italiana che il Sovrano da lontano, con struggente nostalgia, seguiva giorno dopo giorno. Vittima di quel crudele esilio, che sembra una vicenda d’altri tempi, che, invece, in Italia, e solo in Italia, è stato mantenuto fino alla morte, dopo la morte.

Giglio amava l’Italia liberale degli uomini probi, dei Cavour e dei Sella, che anteponevano l’impegno pubblico agli interessi personali. Grandi amministratori della finanza e dell’economia, impegnati a governare un Paese difficile, già allora a diverse velocità, con storie che nei secoli erano state condizionate dalla presenza ingombrante di potenze straniere, la Spagna, la Francia, l’Austria, pertanto da secoli “calpesti/ derisi”, come recita la Canzone degli Italiani, l’Inno di Mameli. Domenico Giglio era consapevole del ruolo unificante avuto dai sovrani di Casa Savoia che avevano saputo costituire un punto di riferimento perfino di chi era lontano dall’ideale monarchico, come il campione dei repubblicani, Giuseppe Mazzini, che scrive prima a Carlo Alberto, poi a Vittorio Emanuele II comprendendo che solo loro avrebbero potuto dar vita allo Stato nazionale.

Purtroppo, il Circolo Rex al quale fino all’ultimo ha dato tutto sé stesso, convinto che fosse, come effettivamente è stato, una voce importante nel dibattito politico che scade sempre di più, giorno dopo giorno, ha cessato la sua attività. È mancata la sua anima propositiva e coinvolgente che chiamava a dibattere personalità della cultura universitaria, delle professioni e delle istituzioni dello Stato impegnato a contribuire alla lotta al grave degrado della classe politica incapace di esprimere personalità idonee a rivestire i ruoli fondamentali nella guida nella comunità, la direzione del governo, la politica interna, l’economia, la giustizia, l’istruzione.

Ricorda il Prof. Ungari che Giglio, pochi mesi prima della morte, aveva deciso di donare il suo archivio personale alla Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice. Un archivio importante, che attesta la sua attività di dirigente del P.N.M. in un triennio cruciale come quello del 1958-61.

È stato negli ultimi anni un apprezzato collaboratore di questo giornale al quale riservava di frequente delle brevi considerazioni fra cronaca e storia, sempre puntualissime. Domenico Giglio mi è sempre presente, per il suo tono garbato, da Gran Signore, in tempi cafoni, un professionista di valore, un uomo culturalmente impegnato, con il quale ci si confrontava amabilmente.

Insomma, ci mancherà ancora, molto.

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