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Sprechi di denaro pubblico? Inutile denunciarli alla Corte dei conti (la politica non vuole siano risarciti)

di Salvatore Sfrecola

Ricorre frequentemente nel dibattito politico l’annuncio di una segnalazione alla Corte dei conti per sprechi o altre inefficienze delle quali il cittadino si indigna. Spesso è l’opposizione politica che immagina l’intervento della magistratura contabile a fronte di quelli che ritiene sprechi di denaro pubblico, come in questi giorni per la vicenda della gestione delle strutture destinate, in Albania, all’accoglienza dei migranti che non hanno diritto ad essere accolti in Italia.

Al di là del merito, se si tratti o meno di spreco, è bene che la politica ed i cittadini sappiano che la Corte dei conti, magistratura istituita per controllare la spesa pubblica e per colpire, con l’obbligo di restituzione, chi ha causato un pregiudizio finanziario o patrimoniale allo stato a ad un ente pubblico non può più svolgere questo importante ruolo di garanzia in favore della Repubblica e del cittadino contribuente.

Infatti, con una disposizione del Governo Conte1, a carattere provvisorio, l’art. 21 del decreto legge n. 76 del 2020, ha previsto che lo Stato e per esso la Corte dei conti non possa perseguono i responsabili di danno erariale nonostante abbiano agito con colpa grave. Quella norma è stata confermata dal Conte2, dal Draghi1 e dal Meloni1, per cui la politica, tutta, ha fatto una scelta: chi fa un danno allo Stato, cioè alla comunità la fa franca. Non solo, una norma “a regime” è prevista nella delega fiscale. Di più, una proposta di legge di iniziativa del Presidente del Gruppo parlamentare della Camera di Fratelli d’Italia, Tommaso Foti, il cui esame è appena iniziato, propone di modificare il sistema della responsabilità prevedendo che la condanna del responsabile non possa, al massimo, essere superiore alla misura di due annualità di stipendio. La proposta prevede l’obbligo di un’assicurazione, scelta certamente da condividere, ed in ragione di questa scelta si sente dire che, per l’effetto, si avrà l’integrale ristoro del danno. Una solenne presa in giro. Infatti, non è il danno ad essere risarcito dall’assicurazione ma la somma corrispondente alla condotta che, come detto, qualunque sia l’ammontare del pregiudizio erariale non può superare l’importo di due annualità di stipendio.

Perché questa proposta di legge da parte di chi si qualifica “di destra”, che dovrebbe collocarsi sulla scia di quella destra liberale che ha unificato l’Italia ed ha stabilito regole rigide per la gestione del denaro pubblico attraverso controlli di legittimità e sulla gestione e la disciplina della responsabilità erariale? Tra l’altro – dovrebbe saperlo chi è al governo – le regole che adotta la Corrtte dei conti italiana sono vigenti ovunque a livello internazionale.

A giustificazione dell’iniziativa legislativa si portano due argomenti, entrambi palesemente inconsistenti. Il primo, e più spesso ricorrente, afferma che con il nuovo regime delle responsabilità si contrasta il cosiddetto “timore della firma”, una remora ad assumere responsabilità nel timore, appunto, di incorrere nella responsabilità erariale dinanzi alla Corte dei conti con condanna al risarcimento del danno prodotto . Come mai questo timore non emergeva in passato? Facile rispondere. Il pubblico funzionario di oggi si trova a fare i conti con una doppia realtà, spesso ignorata. Da un lato una congerie di norme spesso scritte male e, pertanto, oggetto di una giurisprudenza, soprattutto amministrativa, non univoca che non dà certezze all’operatore pubblico. Questa incertezza normativa e giurisprudenziale è tuttavia causa di giustificazione dell’eventuale errore fonte di danno, nel senso che, in presenza di una incertezza normativa e interpretativa, è difficile configurare il requisito psicologico della colpa grave. E questo è certamente rassicurante.

A diversa conclusione si perviene se prendiamo in considerazione un’altra realtà purtroppo sempre più sempre più spesso emergente, la scarsa preparazione professionale di molti dirigenti, soprattutto degli enti locali spesso assunti con criteri politici, in particolare quando “nominati” dalla politica ai sensi dell’art. 19, comma 6, del decreto legislativo n. 165 del 2001, senza concorso, senza alcuna selezione, quella che un tempo, neppure tanto lontano, assegnava alle pubbliche amministrazioni funzionari di elevata professionalità che si accresceva nel corso del tempo anche attraverso la collaborazione dei colleghi più anziani e corsi di formazione.

Questa essendo la realtà della pubblica amministrazione la politica, anch’essa composta da soggetti sempre più modesti, non è in condizione di immaginare una ripresa del livello della preparazione professionale degli addetti ai vari settori e di mantenere e migliorare i sistemi di garanzia della corretta gestione del denaro e dei beni pubblici.

Basti pensare che uno degli argomenti portati a giustificazione della riduzione dell’addebito in caso di danno è che, in alcuni casi, le amministrazioni non sono state in condizione di riscuotere le somme oggetto delle condanne comminate dalla Corte dei conti. Fingendo di non sapere che questo accade anche nella responsabilità civile quando il debitore non ha sufficienti risorse per pagare quanto dovuto.

È così che la politica protegge gli amministratori e i funzionari incapaci o disonesti in barba ai cittadini onesti che con imposte e tasse alimentano le risorse destinate ai bilanci pubblici che quelli di cui sopra gestiscono con tanta disinvoltura e trascuratezza.

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