mercoledì, Novembre 12, 2025
HomeNEWSCavour, il grande riformatore, dell’amministrazione e della finanza*

Cavour, il grande riformatore, dell’amministrazione e della finanza*

di Salvatore Sfrecola

“Cavour viene sempre più assumendo, nella considerazione del mondo, quel posto preminente che gli spetta fra i maggiori uomini politici del secolo passato”, scrive Francesco Ruffini (è il 1926) nella Prefazione al libro di Domenico Zanichelli[1], biografia fra le più approfondire dello statista piemontese. Cavour, il più saggio e benemerito del suo secolo, “se non di ogni tempo”, per lo storico inglese George Trevelyan, come ricorda Denis Mack Smith, che lo definisce “il grande tessitore dell’Unità d’Italia”[2]. È l’immagine che danno biografie e saggi sul suo pensiero e sulla sua azione politica[3]. Infatti, “fra gli statisti e anche fra i pubblicisti del suo tempo, è uno di quelli che più hanno capito la complessità dei fenomeni sociali e l’importanza del fattore economico anche nelle questioni di carattere più propriamente politico”[4]. Ne dà prova, “giovane debuttante in una carriera nella quale gli inizi sono difficili”, come lui stesso scrive in una lettera a Cesare Balbo, in un “lavoretto”, l’Extrait du rapport sur l’état des pauvres en Angleterre, con il quale annota il Report del governo inglese sul sistema di pubblica assistenza e ne ricava “il principio della carità legale, che non deve sostituire, annullandolo, ma deve integrare il principio religioso e morale della carità privata”[5]. Scrive in francese, e Balbo lo critica per questo. “Il rimprovero”, ammette Cavour il 12 marzo 1835, “è fondato. Avrei dovuto stendere il mio lavoro in italiano. Era per me un dovere. Sento tutta la giustezza di queste osservazioni. Grazie al cielo, malgrado tutte le delusioni politiche… l’amore per la mia patria e la mia patria italiana non si è per nulla indebolito nel mio cuore. Amo l’Italia e la vorrei servire in qualche modo, vorrei contribuire al suo onore e alla sua gloria, non fosse che aggiungendo una sola pietruzza all’immenso edificio della sua letteratura e delle sue scienze”[6]. Cavour ha fin da allora chiarissima una visione “nazionale” della storia e dell’economia. “L’Italia considerata come un solo paese”, ne scriverà ancora, quando “non era allora frequente un discorso unitario italiano neppure a proposito dell’economia della penisola”[7].

Si forma sui libri, di storia, politica, economia. Ed al padre, al quale manifesta “il desiderio di uscire dalla carriera militare, confida che “pur continuando il servizio, consacravo il mio tempo libero allo studio di numerose discipline della scienza amministrativa”…  e “mi sforzerò di mettermi, se del caso, al servizio della mia patria”[8]. Ha un interesse crescente per l’economia (legge Smith, Ricardo, Say): “il mondo progredisce. Io spero di veder un giorno il nostro paese retto da una costituzione, e chi sa che io possa esserne ministro”[9]. È partecipe dei fermenti liberali del 1821. Si fa notare. E nel 1832 l’Austria, giudicandolo “uomo pericolosissimo”, gli chiude le frontiere del Lombardo-Veneto[10].

Molto importanti nella sua formazione le numerose visite all’estero, in Francia (“I due mesi trascorsi a Parigi furono occasione di un’inestimabile educazione politica”[11]) e in Inghilterra. È il 1835 quando parte per Parigi. Accolto nei migliori salotti parigini conosce l’ambasciatore degli Stati Uniti, Edward Livingston, il quale gli cede il suo permesso d’ingresso alla tribuna riservata ai diplomatici alla Camera dei deputati. Sentirà Guizot, del quale ammira la “haute éloquence”, e Thiers. Sarà sempre affascinato dai dibattiti parlamentari che “confermano ai suoi occhi l’altezza di quella missione e vocazione politica che trovava una così immediata rispondenza nelle sue inclinazioni più profonde”[12]. Anche a Londra, dove si reca subito dopo, seguirà i lavori della Camera dei comuni. Ascolta Robert Peel, esponente del torysmo, destinato a future responsabilità di governo, ed è affascinato dalle regole della democrazia parlamentare e dalla serietà dei dibattiti[13]. Londra e l’Inghilterra sono per il giovane piemontese desideroso di conoscere di industrie e commerci, una realtà alla quale si ispirerà per alcune importanti riforme quando assumerà incarichi di governo. Matura “un’ammirazione, non solo per le istituzioni inglesi, ma per il concetto inglese della libertà”[14].

Guidato dall’amico William Brockedon partecipa al pranzo annuale della Royal Geographical Society of London, visita gli Inns of Court, l’University College, la Harrow School. Conosce Nassau William Senior, che aveva tenuto la prima cattedra di economia politica ad Oxford. Con lui e con Alexis de Tocqueville discute di proprietà terriera, se fosse meglio la grande o la piccola[15]. Del francese aveva letto La democrazia in America e ne aveva apprezzato la tesi secondo cui la democrazia comporta inevitabilmente un abbassamento dei livelli culturali, ma si tratta di un prezzo che vale la pena pagare, poiché si accompagna a una conquista di dignità da parte dell’uomo comune[16].

Visita fabbriche, nel Galles, in Scozia, a Birmingham, a Liverpool, a Manchester. Ammira lo sviluppo della rete ferroviaria inglese, le grandi officine del gas che assicurano l’illuminazione di Londra. Viaggia in treno tra Liverpool e Manchester, 50 km percorsi in un’ora e mezza. Un viaggio che Santa Rosa definì senz’altro “straordinario”.

Le ferrovie voleva vederle nascere dappertutto: fra Torino e Genova, fra Torino e Chambery, fra Milano e Venezia. Non solo perché avrebbero favorito lo scambio delle merci, “ma perché erano destinate a cambiare, e questo gli sembrava più importante ancora, la mentalità della gente. I liberali, i mazziniani volevano unificare l’Italia con le armi, con le rivoluzioni? Lui proponeva i nuovi mezzi di trasporto, il progresso tecnico: secondo lui, di gran lunga la via migliore, anzi l’unica accettabile”[17]. Lo scrive il 1° maggio 1846, in un articolo per la parigina “Revue Nouvelle”, a commento della relazione di Ilarione Petitti di Roreto sullo sviluppo delle ferrovie nel Regno di Sardegna. “Le ferrovie in Italia” sono uno straordinario programma di infrastrutture viarie, ferroviarie e portuali, nell’ottica di una grande potenza economica “destinata a collegare l’Europa all’Africa”, nella prospettiva della “conquista dell’indipendenza nazionale”[18]. Insomma, per Cavour le ferrovie avrebbero unificato l’Italia e l’avrebbero resa prospera. Anche perché l’Italia si affaccia sul mare “come un immenso promontorio”[19]. Ministro della Marina, promosse il passaggio dalla vela al vapore sulle unità da guerra, e dalle pale all’elica. Si rese conto che il Golfo della Spezia sembrava fatto apposta per diventare una base navale che avrebbe sfollato il porto commerciale di Genova, e agevolato in tal modo i traffici. 

Aveva grande dimestichezza con i problemi della finanza internazionale. Fra i suoi migliori amici erano i banchieri de La Rüe. Aveva anche buoni rapporti coi Rothschild di Parigi. Cercava prestiti per il Piemonte, per finanziare, insieme ai privati, le grandi infrastrutture. Ne contrasse anche con il banchiere londinese Hambro. Voleva creare le condizioni per lo sviluppo di una borghesia destinata a cambiare la faccia del paese e fare dell’Italia un “grande Stato” con Roma capitale[20]. La sua è “una politica keynesiana ante litteram, con investimenti e misure per accelerare la crescita”[21]. Crede nell’iniziativa privata ma ritiene che senza solide imprese statali la libertà economica avrebbe incontrato serie difficoltà[22]. “Professa schiettamente il principio del libero scambio”, convinto che “in uno stato normale il Governo non abbia da proteggere con dazi protettori questa o quell’altra industria”[23]. Liberalizza i commerci e promuove numerosi accordi commerciali. 

Con questo vasto impegno riformatore è ovvio che Cavour prestasse attenzione, in primo luogo, alla funzionalità dell’amministrazione che avrebbe dovuto programmare, progettare, gestire e controllare la realizzazione di grandi opere pubbliche. Con la legge 23 Marzo 1853, n. 1483 (Riordinamento dell’amministrazione centrale e della contabilità generale dello Stato), raggiunge due obiettivi fondamentali: abbandonare il modello organizzativo “misto”, per aziende e per ministeri; “coordinare” l’attività amministrativa in modo da renderla non solo più rapida ma – soprattutto – interamente controllabile dal Governo. 

Per ammodernare il Regno Cavour deve disporre di un’amministrazione che operi con celerità, ma anche nel segno della legalità, dell’efficienza e dell’economicità, un’esigenza che compendia in una celebre frase: “è assoluta necessità di concentrare il controllo preventivo e consuntivo in un magistrato inamovibile”. Quelle parole sono scolpite nella pietra del basamento della statua a lui dedicata nel cortile della sede centrale della Magistratura contabile a Roma. 

Così immaginava la Corte dei conti che avrebbe sostituito l’antica Camera dei conti. Tuttavia, nella tornata del 1852 la proposta non passò per l’ostilità del relatore, l’On. Paolo Farina. Cavour finì per accettare, nell’intento di non rinviare l’attuazione della riforma amministrativa. Avrebbe presentato un nuovo disegno di legge per l’istituzione della Corte dei conti. E fu la legge 23 marzo 1853, n. 1483[24].

Singolare che sia il Governo ad insistere sulla necessità che la Corte, incaricata del controllo preventivo, sia assolutamente indipendente. Cavour, infatti, era contrario al controllo successivo, di derivazione francese, in quanto “un tale controllo colpisce solo indirettamente gli atti amministrativi quando sono consumati e nella pratica si mostra insufficiente ad impedire gli abusi, gli inconvenienti che si possono manifestare”.

La Corte, dunque, è chiamata ad esercitare il controllo sui decreti reali e sui decreti dei ministri che comportavano impegni di spesa a carico del bilancio statale e su tutti gli ordini di pagamento; a vigilare sulla riscossione delle entrate e sui conti degli agenti pubblici. Il “visto” della Corte condiziona l’efficacia degli atti. Il rifiuto ne impedisce l’attuazione.

In un ordinamento che lo Statuto Albertino proclama (art. 2) “retto da un Governo Monarchico Rappresentativo”, gli uomini di governo rimarcavano la funzione della Corte “longa manus” del Parlamento destinatario della relazione con la quale, al termine dell’anno finanziario, la Corte ancora oggi espone le sue osservazioni sul modo con il quale le varie Amministrazioni applicano le norme legislative e regolamentari e indica le riforme e le variazioni che ritiene opportune per il perfezionamento delle leggi e dei regolamenti sull’Amministrazione e sui conti del denaro pubblico. Strumento conoscitivo finalizzato al controllo sull’attività del governo e sul funzionamento di tutte le amministrazioni dello Stato. Ed oggi anche delle regioni.

Quando Cavour, nella sessione del 27 dicembre 1852, si propone di trasformare la Camera dei conti in Corte dei conti, cosa che, come abbiamo visto, riuscirà a fare l’anno successivo, sa bene che quella istituzione aveva ben meritato da secoli[25]. Almeno dal XIII, da quando in Francia la Chambre des comptes comincia ad operare quale articolazione della Curia Regis, con certezza dal momento in cui la Corte del sovrano cessa di essere itinerante e si stabilizza a Parigi. È qui che il re Luigi IX, eroico crociato e saggio governante, con ordinanza del 1256 ingiunge ai sindaci di venire “à nos Gens à Paris” per rendere il “primus computus” delle loro esazioni e spese. In quella data, dunque, la sede della Corte regia era Parigi.

La competenza della Camera dei conti si estende a tutti gli atti che avevano per effetto di modificare, in aumento o in diminuzione, le finanze del re. In questa fase dell’economia degli stati le attribuzioni della Camera riguardano prevalentemente la materia demaniale, per garantire innanzitutto la conservazione e la valorizzazione dei beni. Tuttavia, ben presto la frequenza delle crociate e delle guerre apporteranno modifiche sensibili all’amministrazione finanziaria che cominciò ad essere alimentata prevalentemente da imposte e tasse speciali percepite in tutto il regno[26].

Come è noto in quel periodo la Francia esercitava una diretta influenza sugli stati italiani. E così già nel secolo XIV nei territori della Casa di Savoia appare una Chambres des comptes, costituita di maitres des comptes detta anche latinamente magistri et auditores computorum domini. Sedeva a Chambery, capitale del Ducato.

Rinnovatore del Ducato di Savoia è Emanuele Filiberto, il generale vittorioso a San Quintino (10 agosto del 1557), straordinario successo militare in ragione del quale furono restituiti ai Savoia i loro territori. Il Duca, riposta la spada, s’impegna nella riforma del Ducato. Ne è, secondo Domenico Fisichella, il “costruttore sia perché modula la sua potestà secondo criteri nuovi, facendone perciò un autentico Stato, sia perché affranca Torino da un dominio straniero durato un venticinquennio… <sia perché il trasferimento della capitale del ducato sabaudo da Chambery a Torino apre l’orizzonte politico e civile verso l’Italia”[27]. Chambery rappresentava la tradizione degli avi, Torino apriva l’orizzonte verso l’Italia e sarebbe stata capitale dei Savoia per tre secoli, sino al 1864[28].

La Camera dei conti è “l’ufficio finanziario più importante del ducato”[29], afferma Alessandro Barbero che ne illustra le attribuzioni, in primo luogo il diritto di “interinazione”. La Camera doveva esaminare se l’atto fosse affetto da vizi di diritto. 

Con la costituzione dello Stato unitario, la legge 13 agosto 1862, n. 800 istituisce la Corte dei conti del Regno d’Italia, “il primo Magistrato civile che estende la sua giurisdizione a tutto il Regno”, sottolinea Quintino Sella, Ministro delle finanze che la inaugura a Torino il 1° ottobre 1862. E, rivolgendosi ai magistrati continua: “altissime sono le attribuzioni che la legge a voi confida. Della ricchezza dello Stato… voi siete creati tutori”[30].

Qualcuno potrà oggi ritenere enfatico il linguaggio di Quintino Sella, ingegnere idraulico, docente di geometria applicata, autorità internazionale nel settore della cristallografia, fondatore del Club Alpino Italiano (C.A.I.), che al Ministero delle finanze metterà in ordine i conti dello Stato gravati dai debiti delle guerre di indipendenza. Ma è un’enfasi che esprime un altissimo senso dello Stato. Uomini di governo che chiedono alla Corte di esercitare col massimo rigore la sua funzione di controllo non ne troveremo molti successivamente.

* Tratto dal libro “Camillo Benso di Cavour, il primo Ministro”, della Collana “L’Italia in eredità”, a cura di Alessandro Sacchi e Edoardo Pezzoni Mauri, Prefazione di Aimone di Savoia Aosta (Historica, Roma, 2021, pp. 234, € 17.00)


[1] Domenico Zanichelli, Cavour, G. Barbera Editore, Firenze, 1926, V.

[2] Cavour, Il Giornale, Biblioteca storica, Milano, 1985.

[3] Fondamentale l’opera, in tre volumi, di Rosario Romeo, Cavour e il suo tempo, Laterza, Bari, 1969-71.

[4] Domenico Zanichelli, op. cit., 57.

[5] Domenico Zanichelli, op. cit. 55.

[6] Camillo Benso di Cavour, Autoritratto, lettere, diari, scritti e discorsi, a cura di Adriano Viarengo, BUR, Milano, 2010, 68.

[7] Giuseppe Galasso, Il pensiero italiano di Cavour, Prefazione in Cavour, Autoritratto, cit. I.

[8] Lettera senza data del 1831, in op. ult. cit., 51. 

[9] Rosario Romeo, Cavour e il suo Tempo, Vol. I (1810-1842), Laterza, Bari, 1969, 189. 

[10] Francesco Lemmi, Cavour, in Enciclopedia Italiana (Treccani), IX, 581.

[11] Denis Mack Smith, op. cit., 25.

[12] Rosario Romeo, Cavour e il suo tempo, Vol. 1, cit., 429.

[13] Harry Hearder, Cavour, un europeo piemontese, Editori Laterza – Il Sole – 24 Ore, Milano, 1994, 29.

[14] Roggero Bonghi, Camillo Benso di Cavour, Messaggerie Pontremolesi, Milano, 1989, 10 (riproduce l’edizione del 1861).

[15] Adriano Viarengo, Cavour, Salerno Editrice, Roma, 2010, 78, che richiama la pagina del diario del 24 maggio 1835.

[16] Harry Hearder, Cavour, cit., 29.

[17] Piero Ottone, Cavour, Storia pubblica e privata di un politico spregiudicato, Longanesi, Milano, 2011, 93. 

[18] In Camillo Benso di Cavour, Autoritratto, cit. 500 e 505.

[19] Ivi, 500.

[20] Così nella seduta della Camera dei deputati del 25 marzo 1861, in Camillo di Cavour, Discorsi parlamentari, XV, a cura di Adolfo Omodeo, La Nuova Italia, Firenze, 1932, 479-85, 496-94, 496-97 e 500-01.

[21] Pietro Ottone, Op. cit., 93.

[22] Michele Ruggiero, Cavour e l’altra Italia, Rusconi, Milano, 1997, 155.

[23] Seduta della Camera del 14 aprile 851, in Camillo di Cavour, Discorsi parlamentari, III, 202-05 e 205-13.

[24] Rosario Romeo, Cavour e il suo tempo, Vol. 2, 1842-1854, Laterza, Bari, 1977, 71. Antonio Troccoli, Le riforme costituzionali in Piemonte e l’istituzione della Corte dei conti (1848-1859), in Studi in onore di Ferdinando Carbone, Giuffrè, Milano, 1970, 77-78.

[25] Carlo Ghisalberti, Corte dei conti (storia), in Enciclopedia del Diritto, vol. X, 853.

[26] Vincenzo Bartoli, Storia delle istituzioni di controllo della finanza pubblica – Sec XIII – XV, Edizione Mazzini, Roma, 1979, 59.

[27] Domenico Fisichella, Costruttori dello Stato – Sovrani di Casa Savoia, Pagine, Roma, 2016, 10.

[28] Francesco Cognasso, I Savoia, Corbaccio, Milano, 1999, 329.

[29] Alessandro Barbero, Il ducato di Savoia, Laterza, Bari, 2002, 41.

[30] In Celebrazione del primo centenario della Corte dei conti nell’unità d’Italia, Giuffrè, Milano, 1963, 41.

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui

Most Popular

Recent Comments

Aldo Ammendola on Trent’anni senza Babbo Italo
Marco Perletta on Vincenzo Cuoco (1770-1823)
Gianluigi Biagioni Gazzoli on Turiamoci il naso e andiamo a votare
Michele D'Elia on La Domenica del Direttore
Michele D'Elia on Se Calenda ha un piano B