di Salvatore Sfrecola
Nel ricco e variegato dibattito politico-storiografico sull’uccisione di Giovanni Gentile, avvenuta il 15 aprile 1944, a Firenze, dibattito incentrato prevalentemente sul tema della esecuzione e dei mandanti, si differenzia quest’opera di Alessandro Campi, “Una esecuzione memorabile – Giovanni Gentile, il Fascismo e la memoria della guerra civile” (Le Lettere, Firenze, 2025, pp. 242, € 19,00), che approfondisce aspetti, a volte poco noti, della personalità del filosofo siciliano nel contesto politico culturale nel quale è maturata la sua adesione al Fascismo, il suo straordinario contributo alla costruzione della sua architettura culturale fino agli anni tragici della guerra e alla successiva esperienza nella Repubblica Sociale Italiana (R.S.I.).
L’intento dell’Autore, Professore ordinario di Storia delle dottrine politiche nell’Università di Perugia, dove insegna anche Scienza politica e relazioni internazionali, Direttore dell’Istituto di Storia del Risorgimento Italiano, direttore della Rivista di politica, editorialista di punta de Il Messaggero e Il Mattino, oltre che autore di importanti lavori di scienza politica, è palesato nel Prologo. Ed è quello di “offrire una spiegazione di quella tragica vicenda, l’assassinio per ragioni politiche e ideologiche di un filosofo e intellettuale che era non solo il più celebrato del suo tempo ma anche quello che, tra i tanti che avevano aderito al fascismo, più aveva contribuito alla costruzione della sua architettura culturale – nel suo contesto specifico: quello di un conflitto intestino segnato, per definizione, da una logica distruttiva e di annientamento tra le fazioni in lotta”. Per cui il titolo, tratto da un noto passo di Machiavelli (Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, III, 3, 3) nel quale è detto che i cambiamenti radicali di regime – “da repubblica in tirannide o da tirannide in repubblica”- non solo comportano quasi sempre lutti e rovine materiali, dolorose ingiustizie ed esecrabili vendette private, “soprattutto necessitano di un atto paradigmatico, di un gesto o azione da Machiavelli definito appunto “memorabile” che funga da confine con spartiacque simbolico… L’uccisione di Gentile – precisa Campi – è stata un atto di questa natura: una morte esemplare, nella percezione che se ne ebbe già allora, nella lettura che possiamo darne ancora oggi”. Morti esemplari, come sono state altre, di figure pubbliche, politici intellettuali o servitori dello Stato, da Giacomo Matteotti ai fratelli Rosselli, da Antonio Gramsci a Enrico Mattei, da Aldo Moro a Carlo Alberto dalla Chiesa, a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, “vicende in alcuni casi rimaste effettivamente oscure e dunque inevitabilmente oggetto di speculazioni, polemiche, recriminazioni e talvolta ricostruzioni fantasiose, maturate ognuna in contingenze politiche e sociali particolarmente drammatiche o dirimenti, ovviamente specifiche e particolari se prese in sé, ma che tutt’insieme considerate ci dicono qualcosa – forse molto – sulla natura intrinsecamente brutale della lotta politica in Italia, su quanto quest’ultima anche come Stato-nazione unitario non sia mai riuscita né ad affrancarsi pienamente da influenze e condizionamenti esterni, premessa obbligata d’una piena sovranità, né a ricomporre le divisioni interne che ne hanno scandito nei secoli la storia e segnato l’autopercezione collettiva”.
Dopo anni di controversie politico storiografiche, “che – osserva il Professore Campi – hanno rischiato di far entrare anche l’assassinio di Gentile nel registro dei molteplici “misteri d’Italia”, destinati a restare insoluti sul piano storico-giudiziario e ad attizzare periodicamente polemiche e divisioni, possiamo dire che, in realtà, non c’è più alcun mistero intorno a esso, come invece si è ritenuto o sostenuto per decenni in buona fede ma spesso con l’intenzionale volontà di intorbidire le acque”.
Dal libro emerge la figura di un pensatore che aveva altissimo il senso di un dovere storico da compiere che, nascendo liberale e risorgimentale, considera tuttavia il Fascismo come una naturale evenienza dello sviluppo della storia, in una stagione, quella del primo dopoguerra che aveva accertato la fine del movimento liberale i cui esponenti maggiori, nonostante la notevole esperienza di governo, si dimostrarono incapaci di affrontare la grave crisi economica e sociale seguita alla Prima Guerra Mondiale, quando l’esigenza di riconversione dell’economia, da bellica in ordinaria, aveva creato gravi problemi all’occupazione e alle condizioni di vita delle persone. Gentile ritiene che nel disordine politico alimentato dalla crisi dell’industria e dalla conseguente disoccupazione di larghi strati della popolazione la proposta del Fascismo fosse adeguata al momento storico e cerca, con la sua influenza culturale, di dar vita ad una cultura politica capace di supportare il movimento fascista. Naturalmente Gentile è un uomo di cultura, un filosofo abituato a difendere le proprie idee che spesso accerterà non essere in sintonia con quelle di alcuni gerarchi, soprattutto dei più intransigenti, per cui il sospetto di un distacco dalla classe dirigente fascista nonostante lui, che pure aveva guardato con favore l’iniziativa del Re di destituire Mussolini in esecuzione della deliberazione del Gran Consiglio del Fascismo del 25 luglio 1943, avesse successivamente ritenuto di aderire alla Repubblica Sociale Italiana (R.S.I.).
Campi spiega come, all’indomani del 25 luglio 1843, dopo una scelta “oggettivamente filo-monarchica, potremmo definirla formalmente istituzionale e continuista, ma non per questo consapevolmente anti-fascista”, Gentile maturò la decisione di aderire alla Repubblica Sociale Italiana di cui è espressione l’accettazione della Presidenza della rinnovata Accademia d’Italia e della direzione di Nuova Antologia, una delle più antiche e prestigiose riviste italiane di cultura. Da tempo ormai lontano dall’impegno politico diretto, Gentile si era dedicato alla Scuola Normale Superiore di Pisa e all’Enciclopedia Italiana, teneva “nei confronti del regime e del fascismo ormai da tempo un atteggiamento del relativo distacco, per nulla apertamente critico, tale cioè da non sfociare mai in una qualche forma esplicita di dissenso, ma tale comunque da indurlo al silenzio anche in occasione di avvenimenti che, nell’evoluzione del regime, avevano segnato altrettanti punti di svolta, agli occhi di Gentile tutt’altro che positivi, forieri anzi, per l’Italia, di conseguenze che egli giudicava potenzialmente nefaste. Tale fu il caso dell’introduzione nel 1938 della legislazione razziale e antisemita e, due anni dopo, della decisione mussoliniana di scendere in guerra a fianco della Germania”. Una decisione estranea “ai motivi patriottici e nazionali, di rinascita civile e culturale, che avevano contraddistinto invece la guerra del ‘15 ‘18”.
Il libro si sofferma sullo scambio di lettere tra Gentile e Leonardo Severi, Ministro dell’educazione nazionale nel nuovo governo formato dal Maresciallo Pietro Badoglio, sul contenuto delle quali all’epoca molto si concentrò, da parte fascista, la critica al filosofo con l’evidente intento di screditarne l’immagine, lui che a Guariglia, Ministro degli Esteri, aveva manifestato l’impegno di collaborare “in perfetta disciplina col governo, in obbedienza agli ordini di S.M. il Re e al dovere di ogni italiano consapevole della gravità del momento”.
È successivamente, alla decisione di Mussolini di dar vita alla Repubblica Sociale Italiana che matura un diverso atteggiamento di Gentile, essenzialmente sulla base della considerazione che l’armistizio fosse stato frettolosamente stipulato e che le condizioni nelle quali il Paese si era venuto a trovare dopo il suo annuncio l’8 settembre lo avevano convinto che si dovesse continuare a operare a fianco dell’originario alleato per quel senso di lealtà che convinse molti di coloro che aderirono alla R.S.I.. Il tema è affrontato con attenzione nel libro e pone un problema che parte della storiografia ha forse sottovalutato. Che lo stesso Mussolini aveva manifestato l’intendimento di chiedere a Hitler di uscire dalla guerra che evidentemente l’Italia non era più in condizione di sostenere. È noto, infatti, che, recandosi a Feltre per incontrare il dittatore tedesco, il 19 luglio, il giorno dell’incursione di oltre 600 bombardieri alleati su Roma con gravissime distruzioni e morti nel quartiere di San Lorenzo, Mussolini sarebbe tornato ad avanzare con Hitler l’ipotesi di una pace separata con l’Unione Sovietica, secondo quanto riferito dall’Ammiraglio Malgeri che dopo il 25 luglio aveva raccolto alcune confidenze del Duce.
Non è chiaro se lo abbia poi fatto, se avendolo proposto abbia avuto una risposta negativa. E se abbia manifestato anche l’intendimento di uscire totalmente dal conflitto. Ciò che potrebbe giustificare l’atteggiamento tenuto da Mussolini nel corso del Gran Consiglio, apparso a molti dei presenti quasi rinunciatario, in presenza di un ordine del giorno – presentato dal Presidente della Camera, Dino Grandi, che aveva il senso di una sconfessione della direzione delle operazioni militari fino ad allora nella totale responsabilità del Capo del Fascismo. Sta di fatto che i tedeschi avevano immaginato che gli italiani, caduto il Fascismo, si sarebbero distaccati dall’alleato, come dimostra il fatto che, successivamente al 25 luglio, importanti contingenti militari tedeschi varcarono il Brennero per dispiegarsi lungo lo stivale. È un momento difficile per il Paese nel quale molti ancora una volta si sono dimostrati incapaci di assumersi le necessarie responsabilità che si fanno ricadere quasi esclusivamente sul Re. Lo stesso Campi, sempre molto equilibrato nelle valutazioni, parla di “fuga” del Re, qualificazione di un comportamento certamente necessitato dall’esigenza di mantenere una presenza dello Stato nell’Italia che stava per essere occupata dagli angloamericani dei quali le Forze Armate italiane sarebbero diventate cobelligeranti. Lo stesso Carlo Azeglio Ciampi ha riconosciuto il dovere del Sovrano di lasciare Roma, città assolutamente indifendibile dal punto di vista militare. Basta immaginare lo scenario possibile degli italiani che sparano sui tedeschi, i tedeschi sugli italiani, gli anglo-americani che bombardano i tedeschi con effetti distruttivi irreversibili della Città eterna. Lo stesso Papa Pio XII aveva consigliato il Re a lasciare la Capitale.
Non, dunque, “fuga”, che nessuno aveva attribuito ai sovrani del Belgio, dei Paesi Bassi e della Danimarca che avevano lasciato i loro paesi per continuare, dall’Inghilterra, a combattere i tedeschi invasori, per Re Vittorio Emanuele III che trasferisce la Corte e il Governo al Sud in modo a tutti visibile, con un lunghissimo corteo di macchine, in uniforme di Primo Maresciallo dell’Impero. In un contesto nel quale molti, effettivamente, fuggirono per salvare la pelle.
Le conclusioni del libro, che si rivelerà prezioso per una vasta gamma di studiosi per l’abbondanza di citazioni e di riflessioni, sono nel senso che “più che interrogarsi sul significato e le ragioni di quella morte, a suo modo necessaria e inevitabile, che egli stesso aveva sicuramente messo in conto, scegliendo di schierarsi con la RSI con l’intenzione di invocare un’impossibile conciliazione, ci si balocca con l’ipotesi di un Gentile che si sarebbe dovuto e potuto salvare. Poi, magari, lui che del Fascismo era stato il supremo esponente intellettuale, impossibilitato dunque a sopravvivergli esattamente come avvenne con Mussolini, sarebbe finito a riposo forzato tra i suoi libri o, peggio, davanti al tribunale dei vincitori come un gerarca qualsiasi o un qualunque professore di università in vena di redenzione o in cerca di perdono. In termini di impegno politico intellettuale e storico ideale, Gentile non è stato Gioacchino Volpe (pure, a suo modo, un gigante intellettuale e un maestro per generazioni di storici) e dunque non poteva seguirne i destini, che per quest’ultimo, nel dopoguerra, sono stati certamente più sereni, certo di duro isolamento umano e politico, ma senza aver dovuto subire vendette e violenze, semmai l’ordinaria ingratitudine che tocca a chi dalle vette del potere nel suo, nel suo caso soprattutto accademico, poi cade in disgrazia e viene messo ai margini”.
La morte violenta di Giovanni Gentile, sono le parole conclusive del libro, “non ha nulla dell’enigma o del giallo poliziesco. Rappresenta un episodio tragicamente rivelatore della complessità delle vicende – politiche, culturali, umane-che hanno caratterizzato lo sviluppo storico dell’Italia sino ai giorni nostri. Ed è il motivo per il quale, passati oltre ottant’anni dalla sua scomparsa, il nome di Giovanni Gentile continua a risuonare nel profondo della memoria pubblica nazionale”. Per la sua opera di filosofo, di profeta-pedagogo, promotore di istituti, centri di ricerca, accademie, cattedre, riviste e collane librarie. E per la riforma degli studi, soprattutto per aver delineato quel liceo “classico”, preziosa indicazione culturale, massacrato dalla moda sessantottina, al quale si guarda con fiducia che possa tornare ad essere un riferimento che, aggiornato, alimenti l’istruzione di una classe dirigente effettivamente a misura delle migliori scuole europee.