Mentre si discute di una “riforma” che non convince, docenti, famiglie e studenti
Scuola e cultura: le colpe della Destra e della Sinistra
di Salvatore Sfrecola
Desidero ricordare ancora una volta la frase, ascoltata a Roma, in viale delle Milizie, nei pressi di uno dei più noti licei romani (un tempo si diceva “prestigiosi”). L’aveva pronunciata una ragazza rivolgendosi agli amici con i quali si apprestava a varcare il cancello d’ingresso: “se non avessi il cellulare non saprei come passare il tempo a scuola”.
Si tratta di una persona evidentemente stupida, senza interessi e senza valori. Tuttavia non ce la possiamo cavare così. Diceva mio nonno, insegnante di italiano e latino in un prestigioso liceo (questo sì) che quando un ragazzo va male a scuola nella maggior parte dei casi la responsabilità è del docente. Nel senso che non ha saputo coinvolgere lo studente, interessarlo e stimolarlo all’apprendimento che, in un liceo, che offre una vasta gamma di discipline letterarie e scientifiche, da affrontare anche in forma critica nutrendosi di riflessioni e di dubbi, non è poi così difficile.
L’aneddoto ci dice qual è lo stato della nostra scuola. Senza generalizzare, sempre sbagliato, non c’è dubbio che per ognuno di noi che ha seguito i figli nel corso degli studi si sia posto il confronto con i propri docenti dai quali anni prima aveva imparato non solo a leggere di greco e di latino ma, per ricordare il Poeta aveva appreso anche di altre virtù, in primo luogo il senso di appartenenza ad una comunità, le radici culturali dell’Italia e dell’Europa e le singole materie, dalla fisica alla biologia, dalla chimica alla storia dell’arte. Quella nostra era certamente una “buona scuola”. Forse ne è consapevole anche il Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, che questo slogan ha ripreso. Perché la scuola deve tornare ad essere “buona”, ma – direi – anche “bella”, nel senso di “funzionale” perché gli insegnamenti siano impartiti in edifici costruiti con criteri moderni e funzionali, idonei ad accogliere gli studenti ed a fornire loro gli strumenti necessari, una biblioteca ricca e aggiornata, laboratori, palestre.
Lo dico a ragion veduta perché a questi requisiti rispondeva il mio ginnasio-liceo, il “Torquato Tasso”, una grande costruzione umbertina della Roma neo capitale d’Italia, grandi aule luminose per le imponenti vetrate, una ricca biblioteca, un’aula magna dove si potevano tenere conferenze e rappresentare spettacoli teatrali, due aule ad anfiteatro, rispettivamente per le scienze naturali e la fisica, con una dotazione assai rilevante di apparecchiature per fare esperimenti. In particolare l’aula di scienze naturali aveva una vastissima collezione di minerali di ogni genere, di animali, dai più piccoli, conservati in barattoli di formalina, ai grandi imbalsamati e scheletri anche umani, che consentivano al docente, assistito da un tecnico di laboratorio, di presentare, ad illustrazione delle lezioni, reperti di straordinario interesse che sono rimasti nella mente e nella cultura degli studenti di quel liceo romano. Lo continuavano a frequentare gli ex studenti iscritti a medicina i quali si preparavano a conoscere tibie e crani in abbondanza conservati nelle grandi vetrine.
Questo riferimento sta a dimostrare, a confronto delle scuole successivamente costruite, un notevole degrado dell’edilizia scolastica, che non solo non presenta quelle importanti aule didattiche ma, spesso, neppure palestre dove un tempo i docenti di educazione fisica univano agli esercizi alla pertica o alla spalliera o al classico salto della cavallina anche nozioni sul corpo umano, dalla fisiologia della respirazione alle regole di postura per i giovani impegnati in lunghe ore a tavolino.
Il degrado dell’edilizia scolastica, spesso le scuole sono ubicate in edifici in origine destinati a civile abitazione, con aule anguste e poco luminose è l’immagine di una scuola che non è più in condizione di assicurare agli studenti quella preparazione culturale e professionale che ne dovrebbe fare cittadini responsabili e professionisti pronti ad affrontare il mondo del lavoro.
Non si studia più, da tempo, l’educazione civica, necessaria per la conoscenza dei diritti e dei doveri. Non si studia più la storia in modo compiuto né la geografia, ad essa intimamente connessa dacché è evidente che i luoghi degli insediamenti umani fin dai tempi più antichi ne hanno condizionato la vita e la politica. Se i Fenici avessero avuto più terreno da coltivare e sul quale far pascolare gli armenti forse non si sarebbero dedicati alla navigazione. Lo hanno fatto anche perché potevano costruire navi solide usando gli alberi delle grandi foreste. Ed hanno attivato importanti scambi commerciali su linee di navigazione che ancora oggi segnano molti rapporti internazionali. È storia ma è anche politica economica.
Lasciando il latino, che non si studia e non si approfondisce come strumento di raccordo con le radici della nostra cultura, anche l’italiano è trascurato. Lo si deduce dai servizi televisivi e da molti articoli di giornale, lo si vede nelle relazioni parlamentari, nei testi di legge e financo nelle sentenze. Eppure una buona conoscenza dell’italiano assicura una marcia in più in qualunque professione, per l’ingegnere che scrive una relazione tecnica, per il medico che ricostruisce l’anamnesi del paziente, oltre, ovviamente, per un avvocato o un giudice. Dico spesso ai miei colleghi che anche un testo di diritto può essere scritto in un buon italiano, evitando ripetizioni e assonanze e dando all’esposizione il respiro di una lettura piacevole che induce il destinatario a prestare la massima attenzione al contenuto del documento.
Insomma, tutto sta a dimostrare il grave disinteresse della classe dirigente di questo Paese per la formazione dei giovani, incurante che nella scuola, a cominciare dalle elementari, è la ricchezza della Comunità dal punto di vista etico e delle capacità lavorative in tutti i settori di interesse per lo sviluppo economico e sociale.
La trascuratezza dei locali e delle loro attrezzature ha riguardato progressivamente anche il corpo docente. Non è stato sempre così. Un tempo i professori godevano di stima per la loro riconosciuta preparazione professionale. A questo proposito ricordo spesso il mio professore di storia e filosofia il quale, prima della guerra, essendo laureato in giurisprudenza, aveva vinto la cattedra e, nello stesso anno, il concorso in magistratura, ma aveva optato per l’insegnamento perché, in quegli anni, i professori di liceo avevano una retribuzione superiore a quella dei magistrati. Raccontava spesso di questa scelta inconsapevolmente sbagliata. Questo dimostra, ma non vorrei passare per un laudator temporis acti, con il rischio, che accetto, di apparire un nostalgico dell’Italia liberale, che un tempo la classe politica aveva maggiore considerazione della funzione docente. Ripeto, a partire dalla scuola elementare, dove certamente il “maestro” ha la responsabilità più grande, perché è li che si stimola l’alunno alla curiosità e allo studio, alla ricerca del metodo di apprendimento che lo segnerà anche successivamente, nella scuola media, primaria e secondaria, ed anche nell’università.
Al contrario, il ruolo degli insegnanti è stato svilito. Ciò che è avvenuto agli occhi di tutti attraverso l’attribuzione loro di un trattamento economico assolutamente inadeguato, non solo alla vita ma anche alla possibilità, che deve essere riconosciuta a una persona di cultura che la deve trasmettere ai propri studenti, di aggiornarsi attraverso l’acquisto di libri, l’abbonamento a riviste, la partecipazione a corsi di aggiornamento e di formazione, anche all’estero, in particolare per gli insegnanti di lingue. È abbastanza evidente che con gli stipendi attuali, inferiori a quelli degli altri paesi europei, un docente di qualunque ordine e grado non è in condizione di mantenere una famiglia e di studiare. Per cui i migliori tirano avanti con le lezioni private.
La trascuratezza della classe dirigente è tanto della Sinistra quanto della Destra. La prima ha prestato attenzione ai docenti soltanto a fini di consenso elettorale e ideologico, la seconda, ritenendo perduto quel segmento della società italiana, non ha saputo formulare una proposta riformista che, nel solco della tradizione, restituisse efficienza alla scuola e alla sua funzione di preparazione delle nuove classi dirigenti. Se andiamo a analizzare le scelte private delle persone, di destra e di sinistra, questa trascuratezza per la scuola pubblica è fotografata dall’interesse per le scuole private alle quali vengono iscritti i figli della classe dirigente che poi all’università frequentavano istituzioni straniere per completare il loro ciclo di studi e la preparazione professionale. In questo clima “una classe dirigente così “ontologicamente” ignorante sulla centralità della scuola può soltanto mandare un paese allo sfascio” ha scritto Massimo Cacciari in una lucida analisi condotta su L’Espresso in edicola.
In questi anni la scuola è stata ritenuta un settore dove si poteva facilmente tagliare fondi e rinviare riconoscimenti. Così il merito, che obiettivamente è sempre difficile da enucleare e premiare, è stato sistematicamente trascurato.
Non è possibile procedere oltre, né la riforma, renzianamente definita della “buona scuola”, sembra andare nella direzione giusta ed è dubbio forte che l’assunzione di un numero rilevante di precari, tra quelli che hanno insegnato poco e si sono aggiornati meno, adattandosi ad altre attività per sopravvivere, possa assicurare un grado adeguato di istruzione nel tempo che viviamo nel quale troppo spesso si confonde l’apertura alla tecnologia che caratterizza tutte le professioni con quella solida cultura, basata anche sugli insegnamenti tradizionali, che è comunque alla base di una dotazione personale capace di competere nel mercato del lavoro.
I nostri diplomati e laureati, infatti, perdono sempre più competitività anche in Europa e quanti ancora riescono a prevalere sono coloro che hanno, per impegno personale e familiare, completato gli studi al di là dell’insegnamento curriculare assicurato dai docenti delle scuole pubbliche. Sono coloro che ci fanno fare bella figura all’estero, non solo nelle discipline scientifiche, facilmente comparabili con quelle insegnate nei paesi europei e nelle Americhe, ma anche in quelle umanistiche, il che dimostra che una base buona nella nostra scuola c’è stata anche se si va esaurendo.
Andiamo verso una scuola che i posteri difficilmente qualificheranno “buona”, perché non si vede all’orizzonte una selezione adeguata della classe docente e il riconoscimento del merito degli insegnanti e degli studenti, perché la scuola non può essere un “diplomificio” ma deve attribuire titoli di studio che, di per sé, attestino che nella professione riferita al diploma la persona ha una adeguata preparazione. Invece in questi anni, da un lato si sono elargiti titoli non idonei a consentire un adeguato impegno professionale, facendo di molti diplomati degli scontenti perché non riescono a trovare un impiego in un momento di difficoltà per il mondo del lavoro, dall’altro, in molte aree del Paese vi è una rilevante dispersione scolastica che costituisce un danno enorme alle persone perché ne fa dei soggetti professionalmente non qualificati e dei cittadini non formati.
In questa situazione, da tutti verificabile, è mancata la voce del centrodestra che non ha avuto la capacità di mettere al primo posto della sua proposta politica la centralità della scuola e della formazione professionale, venendo meno ad una tradizione, quella delle scuole come il liceo Tasso di fine ottocento e della scuola voluta da Giovanni Gentile, che, con gli adattamenti richiesti dal passare degli anni, avrebbe potuto formare cittadini e professionisti, “Dalla scuola alla vita”, come si intitola un bel libro edito da Pagine, coordinato da Paola Maria Zerman, nel quale ventidue studiosi hanno approfondito l’etica delle varie professioni, indicando anche il ruolo che le stesse rivestono nella società moderna e nello sviluppo della cultura e delle attività produttive. La Destra deve ripartire da lì.
27 maggio 2015
Il comunismo strisciante
ovvero come strangolare il ceto medio
di Domenico Giglio
La vicenda innescata dalla sentenza della Corte Costituzionale di cancellazione del limite per l’aggiornamento, oltre tutto parziale, delle pensioni superiori a tre volte la pensione minima, introdotto dall’accoppiata Fornero- Monti, sta dando origine ad un ampio dibattito, che il Decreto Legge catenaccio del Governo Renzi non può bloccare.
In questo dibattito dove la maggioranza degli intervenuti ha espresso il parere che i rimborsi spettassero a tutti i pensionati, sono venute fuori delle voci, cosiddette “autorevoli”, da Maurizio Ferrera a Sabino Cassese, con articoli sul “Corriere della Sera”, dove fra le righe si può leggere o capire che i titolari delle “pensioni d’oro”, meglio definibili ” pensioni di piombo”, non hanno di che lamentarsi in quanto con le stesse possono vivere con larghezza, e con la frase di Cassese che “?è difficile sostenere che coloro che godono di pensioni superiori di sei volte il minimo, non abbiano mezzi adeguati alle esigenze di vita?”, tocchiamo veramente il fondo della demagogia.
Non replicheremo chiedendo quanto guadagnino oggi sia il Ferrera che il Cassese, anche se per amore di giustizia e verità, ne avremmo un grande desiderio, ma ci limiteremo a sottolineare come con questa frase si offendano coloro che, statistiche alla mano, danno il maggior importo di imposte dirette, leggi IRPEF, sono soggetti alle “patrimoniali nascoste” sui titoli, ed alla patrimoniale palese sulle abitazioni, l’IMU, basata su rendite catastali elevate, in una parola danno allo Stato, molto, ma molto di più di quello che ricevono, come già avevano fatto prima di andare in quiescenza, nelle loro posizioni di responsabilità .Ricorderemo anche agli illustri scrittori che nel passaggio dall’attività lavorativa, alla pensioni, gli stessi contribuenti, come ha dimostrato cifre alla mano un lettore del “Corriere”, hanno subito una decurtazione degli emolumenti mensili del 40% ed anche più per cento! Ridotto l’adeguamento della pensione, nelle annualità in cui era concesso, bloccato del tutto una prima volta dal governo Prodi, poi dal già citato governo Monti, sul quale è appunto intervenuta la Consulta, lentamente, ma costantemente hanno visto ridursi il potere d’acquisto, mentre avanzavano le altre pensioni per cui al limite la pensione dell’usciere, categoria valida ed utile, ma non certo con funzioni dirigenziali raggiungerà nel tempo quella del suo antico dirigente! Non è questa una forma di comunismo strisciante, di lento strangolamento del ceto medio, quello che, oltre a tutte le imposte già citate, si pagava viaggi e vacanze, che acquistava e leggeva regolarmente giornali, periodici e libri, che pagava per andare a teatro ed ai cinema, che visitava mostre e musei, che esercitava la beneficenza, che aiutava anche figli e nipoti, non “figli di papà”, il che dà ragione alla frase scherzosa, ma non troppo, che “I comunisti amano tanto i poveri, che vorrebbero che tutti lo diventassero?.”.
Venendo infine al Decreto Renzi, riguardante solo 3.700.000 pensionati su di un totale di 4.500.000, non tutti hanno notato che lo stesso introduce un concetto “razziale”, creando due categorie di cittadini italiani, gli uni con determinati diritti, gli altri privi degli stessi, il che ricorda qualcosa ed anche in questo caso contrasta con principi di eguaglianza giuridica, che credevamo fossero intangibili, e dei quali l’attuale Costituzione mena gran vanto.
21 maggio 2015
L’attacco alla Consulta per le pensioni è indice di inciviltà giuridica
di Salvatore Sfrecola
È in atto un’aggressione violenta e senza precedenti alla Corte costituzionale “rea” di aver deciso che la “legge Fornero”, quella che aveva bloccato gli adeguamenti delle pensioni superiori a 1500 euro lordi, è contraria a principi fondamentali della Carta della Repubblica. Scendono in campo politici, giornali, commentatori dei talk show, frequentatori di twitter e face book. L’accusa è quella di non aver tenuto presente il costo della restituzione degli adeguamenti bloccati. E si arriva a enfatizzare i contrasti all’interno del collegio giudicante per una sentenza adottata a maggioranza, con il voto determinante del presidente. Sennonché accade tutti i giorni in tutti i collegi di giustizia che le decisioni siano spesso adottate a maggioranza, soprattutto quando i giudici sono numerosi, come i quindici della Consulta, gli undici della Cassazione a Sezioni Unite o della Corte dei conti a Sezioni Riunite. Ma anche nei collegi a tre o a cinque spesso si decide a maggioranza.
Lo sanno tutti ma fanno finta di non saperlo per poter attaccare una decisione che non fa comodo al governo il quale aveva spudoratamente preannunciato di disporre di un misterioso “tesoretto” da distribuire in vista delle elezioni, come gli 80 euro alla vigilia delle europee. Misterioso, perché spuntato all’improvviso da un Consiglio dei ministri che si era riunito con l’incubo di dover reperire risorse per non far scattare l’aumento dell’IVA!
Ma torniamo alla querelle sul costo della sentenza. Su quanto il Governo e l’INPS dovranno reperire per restituire ai pensionati quanto era stato loro tolto con il blocco delle rivalutazioni deciso dal Governo Monti in una operazione effettuata “in considerazione della contingente situazione finanziaria”, sulla base di indicazioni provenienti dall’Unione Europea, non essendo stato capace di individuare altrove le risorse necessarie.
Si afferma da parte di taluni che la Corte costituzionale, quale giudice delle leggi, quando adotta una sentenza che dichiara l’illegittimità di una norma che ha effetti finanziari, dovrebbe darsi carico anche della copertura degli oneri derivanti dalla sua pronuncia.
Questa tesi è giuridicamente infondata ed estremamente pericolosa per la tutela dei diritti delle persone. Non solo perché getta discredito sulla più alta magistratura dello Stato, quella che deve verificare la conformità di una norma ai principi contenuti nella Carta fondamentale dello Stato. La Consulta, in sostanza, deve accertare se la questione di costituzionalità ritenuta “non manifestamente infondata” da un giudice, questa è la formula che usano i tribunali della Repubblica, merita accoglimento sulla base delle ipotizzate lesioni di alcuni principi fondamentali della Costituzione, a cominciare da quello di parità di trattamento e di imparzialità che più spesso ricorrono. Ne discende che se la norma ritenuta incostituzionale ha effetti finanziari, cioè determina una spesa o, come nel caso di specie, riduce una spesa, esula dalla valutazione della Corte l’effetto ripristinatorio della spesa e, quindi, non può darsi carico delle conseguenti coperture. Sarebbe, infatti, assurdo che, se governo e Parlamento adottassero una serie di disposizioni gravemente lesive di diritti fondamentali con conseguenti riduzioni di spese il cittadino non potesse avere giustizia.
Ovviamente di questa vera e propria intimidazione i giudici della Corte costituzionale non si preoccuperanno. Non i cinque eletti dalle magistrature, abituati per mestiere a fare giustizia in piena indipendenza, ma neanche gli altri, eletti dal Parlamento o nominati dal Capo dello Stato. Sono tutti giuristi di elevata professionalità, giunti a rivestire quella toga dopo anni di studi o di esercizio della professione forense per cui, forti della loro indipendenza, rimarranno insensibili alle baldanzose iniziative di qualche politico interessato ad evitare di dover ricorrere ad aggiustamenti di bilancio per pagare gli effetti di norme incostituzionali che hanno privato cittadini di importanti diritti. Com’è il diritto alla pensione, definito dalla giurisprudenza “retribuzione differita”, riconosciuta dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 116 del 2013, che spetta, al momento della quiescenza, a chi ha lavorato per decenni versando i relativi contributi nella prospettiva di ricevere una somma già definita nel suo ammontare. Sicché la norma dichiarata incostituzionale aveva violato gli articoli 3 (“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davantoi alla legge?”), 36, primo comma, (“Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a se e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”) e 38, secondo comma, (“I Iavoratori hanno diritto che siano preveduti e assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria”).
La Corte, che costituisce presidio essenziale in un momento di grave imbarbarimento della legislazione italiana (in Francia il Consiglio costituzionale ha un controllo preventivo sulle leggi), va messa al riparo da iniziative estemporanee e da critiche ingiustificate se vogliamo continuare ad essere una democrazia nella quale i diritti sono alla base delle scelte dei governi e del Parlamento in rapporto a principi fondamentali di civiltà giuridica scritti nella Costituzione.
Il Parlamento sarà chiamato a scegliere presto tre giudici, uno per il quale da tempo non si raggiunge il necessario quorum della Camera in seduta comune, un altro vacante dopo l’elezione di Sergio Mattarella alla massima carica dello Stato, l’ultimo disponibile a breve, sempre di elezione parlamentare. L’augurio è che il Parlamento non si indirizzi verso scelte di personalità, pur di elevata cultura giuridica, sensibili alla distorta interpretazione, alla quale abbiamo fatto riferimento iniziando, più politica che giuridica perché su questo piano assolutamente infondata ma che potrebbe essere gradita alla maggioranza governativa che ha pendenti dinanzi alla Consulta una serie di questioni di costituzionalità nate dalla contestazione di svariate norme che sono state adottate dal governo Renzi. Il diritto dei cittadini è una preziosa conquista dello stato di diritto che basa la sua effettività sulla Costituzione e sui principi che in essa sono stati definiti perché l’Italia fosse, tra i paesi occidentali, un esempio di democrazia e libertà. Tendenze direttoriali che procedono dalla volontà di fare senza tener conto dei diritti metterebbero il Paese sul piano inclinato di una china pericolosissima dalla quale non è facile si possa uscire e che ovunque hanno rappresentato un inizio di deriva antidemocratica e populista dalla quale è facile rotolare verso il baratro. Non deve avvenire.
17 maggio 2015
Con la scusa del costo delle pensioni
c’è chi pesca nel torbido
Si profila uno scontro fra generazioni
di Salvatore Sfrecola
In questi giorni si va profilando in alcuni ambienti politici e negli interventi di alcuni commentator quello che appare, anche all’osservatore più distratto, il tentativo di fomentare uno scontro tra generazioni. L’occasione è la sentenza della Corte costituzionale, che ha giudicato contraria ai principi della Carta fondamentale della Repubblica la cosiddetta legge Fornero che ha attuato, a fini di risparmio della spesa pubblica, il blocco delle rivalutazioni delle pensioni superiori a tre volte quelle minime. Intorno a 1500 euro lordi.
Mentre il Ministro dell’economia Padoan si mostra preoccupato dell’effetto della sentenza sui conti pubblici, senza peraltro indicare l’esatto ammontare di quanto va corrisposto ai pensionati in esecuzione della pronuncia della Consulta, dati che possiede perché contenuti nella relazione tecnica che ha accompagnato la proposta Fornero in Parlamento, cominciano a sentirsi preoccupanti affermazioni che tendono a mettere l’un contro l’altro i giovani e i pensionati. Dice, per esempio, Elisabetta Gualmini, già Presidente dell’Istituto Cattaneo ed oggi vicepresidente della Giunta della Regione Emilia-Romagna, intervenuta ieri mattina ad OmnibusLa7 che mentre si parla di restituire ai pensionati il maltolto nessuno pensa ai giovani. Affermazione gravissima che distorce la realtà nel tentativo spregiudicato di allontanare la responsabilità della situazione dal Governo e dalla sua maggioranza.
È evidente, infatti, che le due situazioni non sono comparabili. Da una parte c’è un diritto leso da una norma che non ha tenuto conto di diritti acquisiti, costruiti a misura di contributi definiti sulla base di leggi, diritti che vanno ripristinati, dall’altro c’è un’esigenza sociale sentitissima che quella di mettere a disposizione dei giovani posti di lavoro in un quadro di sviluppo dell’economia. Esigenza che sentono soprattutto “nonni” e “padri”, cioè i pensionati, che suppliscono, con le loro modeste risorse, che non possono essere definite “d’oro”, alle esigenze di quanti non hanno o hanno perso il lavoro con una solidarietà tra le generazioni che sarà sicuramente ridotta se non dovesse arrivare la rivalutazione delle pensioni in conseguenza della sentenza della Corte costituzionale. Tutto ciò in assenza di adeguati interventi di Governo e Parlamento i quali, ciascuno per la propria parte di responsabilità, hanno il dovere di costruire le condizioni per le quali l’economia italiana si riprenda, favorendo l’aumento dell’occupazione, un’occupazione che non può prescindere da un incremento dei consumi e, quindi, dall’aumento della produzione. Oggi noi assistiamo agli effetti, probabilmente purtroppo temporanei, di una rinnovazione di contratti resa possibile da incentivi alle imprese che assicurano gravi fiscali e contributivi a tempo dei quali gli imprenditori si giovano. È una scommessa sul futuro, perché è evidente che se non ci sarà ripresa della produzione quei contratti saranno naturalmente risolti allo scadere dei benefici.
Questo scontro tra generazioni che si va delineando, gravissimo nelle parole di una studiosa come la Gualmini, è espressione di un modo di fare politica introdotto da Matteo Renzi che fin dall’inizio si è esercitato nella demonizzazione di categorie nei confronti delle quali ha esercitato forme di aggressione, a volte violenta, come nei confronti dei dipendenti pubblici, dei cosiddetti “mandarini”, dei magistrati per i quali è giunto ad usare argomenti non solo infondati ma addirittura ridicoli, come quello di confondere le ferie con il periodo di sospensione dei termini giudiziari, una norma che interessava soprattutto gli avvocati.
La politica di mettere contro tra loro le categorie, anche sulla base di contrapposizioni artificiose, è uno strumento politico di corto respiro che nasconde il tentativo di eludere riflessioni serie sulle cose da fare per questo Paese che ha bisogno di interventi profondi in vari settori, dalla sanità alla giustizia, dal turismo alla scuola che, nella realtà, restano al palo e costituiscono una vera e propria occasione mancata. Gli ultimi due esempi, il turismo e la scuola, sono emblematici di questa incapacità di andare al di là degli slogan, delle affermazioni pure condivisibili dietro le quali appare il nulla se non una sorta di controriforma pericolosa. Il turismo che, originato essenzialmente dall’immensa ricchezza del nostro patrimonio storico artistico, è la cenerentola della politica governativa quando potrebbe assicurare migliaia di posti di lavoro. La scuola, alla quale ogni governo serio dovrebbe guardare con la massima attenzione perché è lì che si formano i cittadini e i futuri professionisti è oggetto in questi giorni di demagogiche affermazioni che non hanno convinto famiglie, studenti e professori i quali ultimi stanno attuando una protesta che potrebbe dare brutte sorprese al Presidente del consiglio e Segretario del Partito Democratico la cui popolarità in calo potrebbe ulteriormente diminuire a breve.
12 maggio 2015
Quel che insegnano le elezioni nel Regno Unito
La democrazia inglese radicata sul territorio
di Salvatore Sfrecola
Va di moda, in questi giorni, parlare del Regno Unito dopo il risultato elettorale di David Cameron che ha vinto le elezioni legislative ottenendo la maggioranza assoluta dei seggi nel Parlamento inglese. Gioisce la destra per il risultato del primo ministro conservatore che, fino alla vigilia delle elezioni era considerato dai sondaggi in bilico, gioiscono tutti fautori della governabilità, a destra e a sinistra, perché com’è tradizione a Londra il nuovo governo si insedia a distanza di poche ore dal risultato delle elezioni o di pochi giorni quando, come nella precedente legislatura, era stato dato l’avvio ad un governo di coalizione fra i Tory e i liberaldemocratici.
I giornali hanno messo in risalto inoltre un effetto del risultato elettorale, poco praticato in Italia. Quello che i leader politici i quali hanno perduto voti e seggi non hanno atteso riunioni di segreterie o di direzioni di partito per dimettersi.
Altro aspetto da considerare è quello, sfuggito a molti, dello speciale rapporto che si instaura tra eletto ed elettori in un paese che da sempre ha un sistema elettorale che si basa su collegi uninominali. Uno speciale rapporto che ha un duplice aspetto, quello della vicinanza del parlamentare all’elettorato ed al territorio e quello della sua indipendenza nei confronti del partito politico nel quale milita, proprio in ragione della forza elettorale dovuta allo stretto legame con il territorio.
Si era tentato anche in Italia di instaurare con il cosiddetto Mattarellum, dal nome del suo autore, oggi Presidente della Repubblica, un rapporto diretto tra eletto ed elettore e subito i segretari di partito ne hanno compreso la pericolosità per il loro potere di scelta e di governo degli apparati politici e dei gruppi parlamentari ed hanno immediatamente rimediato spostando nelle elezioni successive senatori e deputati in altro collegio. Ricordo sempre il caso di un parlamentare eletto la prima volta a Roma la seconda a Bolzano, la terza a Venezia.
Parlavo qualche anno fa con parlamentare inglese il quale sottolineava proprio questo suo speciale rapporto con l’elettorato, come la campagna elettorale “porta a porta” fosse autentica e non virtuale in quanto, mi faceva osservare, i suoi elettori non gradirebbero se lui non bussasse alla porta di un avversario politico per cercare di convincerlo sulle sue buone ragioni. In questo modo l’elettore inglese vuol sapere se il parlamentare che eleggerà ha una capacità di convincere o tentare di convincere anche gli avversari sulle buone ragioni della buona politica che lui condivide.
Questo legame con il territorio, spiegava il mio interlocutore, ha anche un altro aspetto. “il mio partito, diceva, non penserebbe mai di spostarmi in un altro collegio perché sa che se lo facesse io mi presenterei ugualmente e, forte del mio consenso, sarei comunque eletto”.
Poi ci sono altre questioni oggetto in questi giorni del dibattito sull’esperienza elettorale inglese. Quella, ad esempio, che il sistema basato su collegi uninominali in realtà porta in Parlamento un numero di deputati non corrispondente al numero dei voti espressi dal popolo. Per cui si sottolinea la differenza con il sistema elettorale proporzionale. In sostanza percentuali che in Italia reggerebbero un partito di medie proporzioni nel Regno Unito possono determinare anche l’elezione di uno o due parlamentari in ragione del fatto che è necessario prevalere in un collegio per varcare le porte della Parliament House. Si comprende il senso di questa osservazione ma siccome i sistemi elettorali perfetti non esistono è bene tener conto degli effetti positivi di quelli che tradizionalmente dimostrano una capacità di governo ed una elevata professionalità politica degli eletti. E non c’è dubbio che il collegio uninominale, che radica sul territorio un parlamentare non solo lo collega strettamente all’elettorato e all’ambiente ma determina anche a una selezione naturale dei migliori, cioè di coloro che hanno consenso elettorale, che fanno tradizionalmente della democrazia inglese un esempio di buona politica.
10 maggio 1015
Appello al Presidente della Repubblica
perchè non promulghi l’italicum
Signor Presidente,
spetta a Lei per Costituzione la promulgazione della legge elettorale appena approvata da una maggioranza parlamentare.
Noi non condividiamo questa Legge, così come è stata proposta all’attenzione del Potere Legislativo dal Governo. Non la condividiamo né nel testo né nei modi con cui il Governo ha inteso proporla, in particolare con il ricorso al cosiddetto “voto di fiducia”.
Noi quindi ci rivolgiamo al Primo Magistrato della Repubblica, quale Garante ultimo al di sopra delle parti, rammentando a noi stessi le parole del Suo predecessore Giorgio Napolitano, pronunciate a Torino il 15 ottobre 2009 nel corso della cerimonia in occasione del centenario della nascita di Norberto Bobbio: “quella del Capo dello Stato, potere neutro al di sopra delle parti e fuori della mischia politica, non è una finzione, è la garanzia di moderazione e di unità nazionale posta consapevolmente nella nostra Costituzione”.
Signor Presidente, noi chiediamo a Lei di intervenire nei modi e con le forme che la prassi costituzionale Le riserva al fine di evitare che la promulgazione di questo articolato si trasformi in un vulnus alle ragioni democratiche che costituiscono l’essenza della nostra Nazione.
Noi crediamo, Signor Presidente, che l’azione politica debba fare un passo avanti, svolgendosi al di fuori delle logiche di pregiudizio ideologico e nel senso di una sua ampia trasversalità, laddove vengano toccati interessi che attengono al fondamento stesso della nostra unità nazionale, quando cioè sono in gioco elementi fondamentali della vita democratica.
Dunque non è nostro intento postulare in queste righe una visione ideologica che sovraintenda alle ragioni del nostro dissenso e le esprima.
Noi ci limitiamo a raccogliere ciò che abbiamo letto e che condividiamo
Quanto al “metodo” dell’approvazione, condividiamo quindi perfettamente, e qui Le rappresentiamo, le ragioni di dissenso che furono esposte da una personalità della nostra storia politica democratica, Nilde Jotti, allorquando, nel 1953, fu in discussione una riforma della legge elettorale sulla quale il governo dell’epoca pose il voto di fiducia: “Si è detto giustamente che su una legge elettorale il Governo bene avrebbe fatto se non avesse posto la questione di fiducia, poiché la legge elettorale, dopo la Costituzione della Repubblica, è la più importante e la più delicata ed in essa si esprime più che in ogni altra il regime democratico di una nazione. Ma oltre a questo noi abbiamo sentito, nel modo e nel momento in cui è stata posta la fiducia, elevarsi dai banchi del Governo il disprezzo per le norme che regolano la vita del Parlamento italiano, il disprezzo per la tradizione di questa Assemblea, il disprezzo per tutte le cose che formano la sostanza della democrazia in un paese civile. Noi ci siamo trovati di fronte, in questo modo, alla distruzione della facoltà legislativa del Parlamento, di quella facoltà legislativa che consente ad ogni deputato di intervenire nella modificazione e nella discussione di una legge, che consente ad ogni deputato di partecipare alla formazione delle leggi. Questo è senza dubbio il diritto fondamentale di un’assemblea legislativa come la nostra e, quando questo diritto viene violato, come qui è stato violato, noi abbiamo il diritto e il dovere di dubitare della sorte della democrazia nel nostro paese; noi abbiamo il diritto e il dovere di lottare perché al nostro paese non si apra un periodo troppo triste e duro. ? Il Governo di fatto distrugge l’uguaglianza che il popolo si è conquistato attraverso la sua lotta?. Questa legge mina perciò la democrazia alle sue basi, e, poiché per la democrazia hanno combattuto gli uomini e le donne della mia terra e per la libertà della patria tanto hanno dato, penso sia mio preciso dovere di esprimere l’indignazione e la profonda sfiducia che essi provano verso questo Governo”.
Quanto al “merito, la legge appena approvata in Parlamento presenta i medesimi vizi di costituzionalità già censurati dalla Corte costituzionale con la n. 1 del 2014, con riguardo al premio di maggioranza e all’espressione del voto di preferenza.
Per quanto riguarda il premio di maggioranza mentre è prevista una soglia al primo turno (che essendo fissata al 40% rende sostanzialmente difficile il suo raggiungimento da parte di singole liste), al secondo turno non vi è alcuna previsione di soglia e la lista (singola, perché non sono possibili apparentamenti) che vince, indipendentemente dalla percentuale che raggiunge, si attribuisce l’intero premio di 340 seggi.
Tale meccanismo, dunque, riproduce il vizio di costituzionalità già evidenziato dalla Corte con riguardo alla legge 275 del 2004 che la Corte (nella sent. 1/2014) ha motivato in tal modo:
“le disposizioni censurate sono dirette ad agevolare la formazione di una adeguata maggioranza parlamentare, allo scopo di garantire la stabilità del Governo del Paese e di rendere più rapido il processo decisionale, ciò che costituisce senz’altro un obiettivo costituzionalmente legittimo. Questo obiettivo è perseguito mediante un meccanismo premiale destinato ad essere attivato ogniqualvolta la votazione con il sistema proporzionale non abbia assicurato ad alcuna lista o coalizione di liste un numero di voti tale da tradursi in una maggioranza anche superiore a quella assoluta (340 su 630). Se dunque si verifica tale eventualità il meccanismo premiale garantisce l’attribuzione di seggi aggiuntivi (fino alla soglia dei 340) a quella lista o coalizione di liste che abbia ottenuto anche un solo voto in più delle altre, e ciò pur nel caso che il numero dei voti sia in assoluto molto esiguo, in difetto della previsione di una soglia minima di voti/o di seggi” (sottolineatura nostra)
La circostanza che la soglia è prevista al primo turno non può superare il rilievo di incostituzionalità, essendo del tutto ragionevole prevedere che data la misura di tale soglia (40%) sia altamente probabile che si richieda il secondo turno.
Dunque: contrasto con gli artt. 1, secondo comma e 67 Cost perchè tale previsione consente una ” illimitata compressione della rappresentatività dell’assemblea parlamentare, incompatibile con i principi costituzionali in base ai quali le assemblee parlamentari sono sedi esclusive della rappresentanza politica nazionale, si fondano sull’espressione del voto e quindi della sovranità popolare, ed in virtù di ciò ad esse sono affidate funzioni fondamentali, dotate di una caratterizzazione tipica ed infungibile, fra le quali vi sono, accanto a quelle di indirizzo e di controllo del governo, anche le delicate funzioni connesse alla stessa garanzia della Costituzione” (sent. n. 1/2014).
Sempre lo stesso meccanismo si pone in contrasto con l’art. 3 Cost perché la sovra-rappresentazione della lista che vince rende del tutto non-rappresentato e non-rappresentabile in alcun modo il voto dei cittadini che hanno dato il loro voto a liste che non hanno vinto, magari anche di poco.
Con riguardo al secondo aspetto, e cioè all’espressione delle preferenze, è indubbio che la legge appena approvata costituisca un passo in avanti rispetto alla precedente in quanto blocca unicamente i capi-lista e non l’intera lista. Tuttavia tale previsione farebbe si che i cittadini potrebbero scegliere quale deputato eleggere “solo se voteranno la lista che vince il premio di maggioranza. Inoltre, come ben evidenziato dall’on. Andrea Giorgis: “la distanza tra eletti ed elettori è peraltro aggravata – oltre che dall’istituto (particolarmente discutibile) delle pluricandidature – dal meccanismo di riparto sulla base del collegio unico nazionale che rende difficile prevedere in quale collegio territoriale scatta l’attribuzione del seggio; e dunque rende difficile per i cittadini prevedere gli effetti del proprio voto e perfino delle proprie preferenze”
In tal modo non si supera il rilievo di costituzionalità che la Corte ha evidenziato quando ha ritenuto incostituzionale il meccanismo delle liste interamente bloccate dai partiti quando ha evidenziato che: “le funzioni attribuite ai partiti politici dalla legge ordinaria al fine di eleggere le assemblee non consentono di desumere l’esistenza di attribuzioni costituzionali, ma costituiscono il modo in cui il legislatore ordinario ha ritenuto di raccordare il diritto, costituzionalmente riconosciuto ai cittadini, di associarsi in una pluralità di partiti con la rappresentanza politica, necessaria per concorrere nell’ambito del procedimento elettorale, e trovano solo un fondamento nello stesso art. 49 (ordinanza n. 79 del 2006). Simili funzioni devono, quindi, essere preordinate ad agevolare la partecipazione alla vita politica dei cittadini e alla realizzazione di linee programmatiche che le formazioni politiche sottopongono al corpo elettorale” (sent. n. 1 del 2014).
Già nella sentenza n. 203 del 1975 inoltre la Corte ebbe a sottolineare che la libertà di voto del cittadino debba essere “sempre libero e garantito nella sua manifestazione di volontà, sia nerlla scelta del raggruppamento che concorre alle elezioni, sia nel votare questo o quel candidato incluso nella lista prescelta, attraverso il voto di preferenza”
Dunque, sotto questo profilo, la normativa approvata si pone in contrasto con l’art. 48 Cost.
Vi sono poi considerazioni più di carattere politico-istituzionale che sono state espresse alla Camera dei Deputati da un parlamentare che fa parte della attuale maggioranza di Governo, l’onorevole professor Andrea Giorgis, che non possiamo che fare nostre:
?..
La seconda considerazione critica che vorrei avanzare potrebbe essere così sintetizzata: il disegno di legge che stiamo discutendo, come per alcuni aspetti già cercava di fare la precedente legge Calderoli, tende a introdurre una surrettizia elezione diretta dell’Esecutivo, che rischia di trasformare la natura del Parlamento, da luogo di rappresentazione del pluralismo politico e sociale nel quale si realizza l’integrazione e l’unità, in un luogo di rispecchiamento della forza del leader e della sua maggioranza (minoranza) che vince il premio: formalmente si vota per la scelta dei parlamentari ma sostanzialmente si sceglie l’Esecutivo (rectius: il suo Capo) cui assegnare una maggioranza di parlamentari (che di fatto dovranno la propria elezione a lui più che agli elettori).
Il che accentua il profilo personale della competizione politica e molto difficilmente sostiene un processo di rilegittimazione dei corpi intermedi, e in ultima analisi un processo di rafforzamento della capacità decisionale delle istituzioni democratiche.
Affinché queste ultime possano svolgere una efficace azione di governo, credo infatti sia necessario che sussistano o si realizzino condizioni sostanziali di unità; è in altri termini necessario che i partiti politici non siano marginalizzati e le liste o le coalizioni siano espressione di un processo reale di integrazione. Ciò ovviamente non significa negare che la semplificazione del sistema politico sia un’esigenza reale. Ma solo evidenziare che una eccessiva e astratta semplificazione, priva di sostanza programmatica, rischia di tradursi nel suo contrario, ovvero nella polverizzazione dell’intero sistema rappresentativo, e nel conseguente incentivo a pratiche populiste e demagogiche che, nell’immediato, possono dare l’impressione di sopperire alle difficoltà dei processi partecipativi e alla frammentazione politica, ma alla fine si dimostrano incapaci di conferire alle istituzioni quella forza e quella legittimazione di cui necessitano per mantenere le promesse dello sviluppo e dell’uguaglianza.
Infine una considerazione di metodo non meno importante di quelle di merito. Le leggi che strutturano l’ordinamento democratico non sono leggi come le altre: il principio di maggioranza deve essere declinato in maniera diversa quando si riscrive parte della Costituzione o si predispone una nuova legge elettorale. Le disposizioni che disciplinano la democrazia, in quanto “regole del gioco” – come si è più volte ripetuto – non devono essere poste da un solo giocatore, ma devono essere condivise, devono essere il prodotto di un ampio accordo tra le diverse forze politiche e, soprattutto – anche per questa ragione – non devono essere poste (direttamente o indirettamente) dal Governo, ma devono essere espressione dell’autonomia parlamentare”.
Signor Presidente, noi Le chiediamo di non promulgare questa legge certamente incostituzionale.
Prof. Raffaele Caterina, Università di Torino
Prof. Mario Dogliani, Università di Torino
Prof. Luigi Garofalo, Università di Padova
Avv. Diego Giordano, Roma
Prof. Lelio Lantella, Università di Torino
Prof. Anna Maria Poggi, Università di Torino
Prof. Raffaele Guido Rodio, Università di Bari
Dr. Salvatore Sfrecola, Presidente di sezione Corte dei Conti
Prof. Sebastiano Tafaro, Università di Bari
Prof. Elda Turco Bulgherini, Università Tor Vergata, Roma
Prof. Giuseppe Valditara, Università di Torino
Governo e Corte costituzionale
Ipocrisie politiche e certezza del diritto
di Salvatore Sfrecola
Il dibattito che impegna in questi giorni la stampa e la politica sulla sentenza della Corte costituzionale, che ha giudicato non conforme alla Carta fondamentale il blocco della indicizzazione delle pensioni superiori a tre volte quelle minime, rivela vaste ipocrisie e molta ignoranza sulle regole, politiche e giuridiche del nostro Stato.
Non è la prima volta che la Consulta boccia iniziative governative e parlamentari sbandierate come necessarie e salvifiche rispetto a situazioni finanziarie critiche richiedenti il contenimento della spesa pubblica. Accade in tutto il mondo, in particolare in Europa. Proprio questa mattina, intervenendo ad Omnibus, la trasmissione di approfondimento de La7, il senatore Mario Monti, il Presidente del Consiglio che approvò quella riforma delle pensioni, cosiddetta Fornero, ha citato casi analoghi di interventi delle Corti costituzionali di paesi dell’Unione Europea su iniziative di riduzione della spesa ritenute illegittime, dal Portogallo alla Grecia, alla Germania. E questo induce a qualche considerazione che non sento e non leggo nel dibattito di questi giorni.
Il ripetersi della bocciatura di misure di contenimento della spesa – la Consulta si dovrà occupare nei prossimi mesi del tetto delle retribuzioni pubbliche fissato in 240 mila, ritenuto di dubbia costituzionalità dal T.A.R. del Lazio – dimostra, da un lato, l’incapacità dei governi di coniugare diritti e scelte economiche e, dall’altro, una sorta di gioco delle parti, per cui si fanno scelte all’evidenza popolari (riduzioni di stipendi e pensioni sopra una certa soglia) per soddisfare esigenze immeditate di cassa così allontanando difficoltà nella gestione dei conti ma di fatto si rinvia “la grana” ai governi successivi, quelli che dovranno, letteralmente, “fare i conti” con gli effetti delle sentenze che restituiscono soldi e interessi a quanti ne erano stati illegittimamente privati.
Il ripetersi di questi episodi, in pratica ad ogni riforma, conferma che la gestione della finanza pubblica continua ad essere caratterizzata da misure inadeguate, di corto respiro, che limano qua e là secondo le esigenze del momento con occhio all’elettorato di riferimento. Nessuna autentica misura strutturale diretta a conseguire obiettivi significativi di efficienza amministrativa e di sviluppo economico e sociale. Solo pezze a colore qua e là per rattoppare la coperta lisa della politica.
Scarsa capacità di visione politica, inadeguata conoscenza degli strumenti operativi delle pubbliche amministrazioni, i governi da tempo si limitano al piccolo cabotaggio anche quando vengono annunciate riforme sbrigativamente definite “epocali”. Basti pensare che lo “sblocca Italia”, un provvedimento che dovrebbe riaprire i cantieri e chiuderli rapidamente e sviluppare attività economiche private, occupa sulla Gazzetta Ufficiale, che adotta un corpo di stampa ridotto, quasi trecento pagine, un corpus normativo che ben poco semplifica.
È il limite della politica che considera il potere un obiettivo personale o, al massimo, di partito, non un servizio alla comunità. Così continuando non si va da nessuna parte.
3 maggio 2015
STATO IMBELLE
CHI ROMPE PAGHI, DAI GRAFFITARI AI BLACK BLOC
di Salvatore Sfrecola
Nel giorno della inaugurazione di EXPO 2015 sono andate in onda sulle televisioni di tutto il mondo non solamente le immagini della cerimonia e degli stand, gli squilli di tromba e lo sventolio delle bandiere. A fare notizia è stata anche la devastazione di aree centrali di Milano in mano ai black bloc che, presenti nel corteo dei NO EXPO, hanno incendiato automobili e cassonetti e infranto vetrine, mentre le avanguardie provvedevano a neutralizzare le telecamere di sorveglianza ricoprendole di vernice. Danni che la Regione Lombardia si è impegnata a risarcire ai cittadini, mediante costituzione di un fondo per il quale è prevista una dotazione iniziale di un milione di euro. Una somma sottratta a destinazioni di interesse istituzionale e sociale.
Danni rilevanti, dunque, a cose e persone, agli agenti delle forze dell’ordine, in particolare, che, fedeli alle direttive, non hanno ingaggiato un confronto con i manifestanti ma si sono limitati a contenerli proteggendo alcuni obiettivi. Una scelta, evidentemente dettata dal Ministero, che si può condividere o meno, anche se la possibilità di prevenire le violenze era concretamente perseguibile, considerato che nei giorni precedenti erano stati indentificati i facinorosi, italiani e stranieri, dediti alla devastazione delle città in occasione di avvenimenti di rilievo internazionale.
Come reagire in questi casi? Se lo chiedono i media ad ogni occasione e sempre con un certo senso di impotenza.
Nel caso di avvenimenti sportivi una strada è stata trovata nel coinvolgimento delle società sportive e nelle misure interdittive nei confronti di violenti abituali che vengono tenuti lontano dagli stadi. Manca tuttavia, a mio giudizio, l’attenzione per una regola antica e saggia, quella secondo la quale “chi rompe paga”. Nel privato avviene normalmente. Nel pubblico le amministrazioni non riescono a farsi risarcire dagli autori degli illeciti.
È mia opinione che nella ricerca di misure di contrasto alla violenza che provoca danni a persone e cose non si possa percorrere esclusivamente la strada della sanzione penale che da sola non realizza quella deterrenza che le si vorrebbe riconoscere e che non ha, come l’esperienza insegna, neppure rispetto ai reati più gravi. Basti pensare alla corruzione.
Occorre, dunque, un mix di misure penali, amministrative e risarcitorie capaci effettivamente di dissuadere e di ottenere un risarcimento dei danni dalle persone e dalle organizzazioni che chiedono l’autorizzazione ad una manifestazione pubblica. In sostanza si dovrebbe prevedere che, al momento della autorizzazione ad un corteo o ad una manifestazione, gli organizzatori fossero contestualmente responsabilizzati per le vicende che possono derivarne. Magari attraverso il deposito cauzionale di una somma da liberare solo al termine della manifestazione, ove non ci fossero stati danni o i danni non fossero imputabili ai partecipanti alla manifestazione inquadrati nell’organizzazione promotrice. Un tempo i sindacati organizzavano un “servizio d’ordine” che teneva lontano i malintenzionati, in qualche modo concorrendo con le Forze di Polizia ad evitare incidenti.
E poiché parliamo di danni causati a beni pubblici e della comunità, mi soffermo sull’annosa vicenda dei cosiddetti “graffitari” i quali provocano alle amministrazioni danni valutati in molti milioni di euro come messo in evidenza da alcune statistiche relative al costo del ripristino di immobili o di vagoni ferroviari e tranviari deturpati.
Significativa una trasmissione su Rai2 dal titolo “Senza peccato”, che già di per sé dimostra un atteggiamento “comprensivo”, la quale, tra le varie testimonianze che hanno accompagnato lunghi filmati nei quali si illustravano le prodezze di giovani e meno giovani, ha mandato in onda la testimonianza di un funzionario della Polizia Municipale di Milano palesemente orgoglioso del fatto che alcuni deturpatori, identificati tramite videocamere o altri filmati, erano stati condannati ad una pena di sei mesi. Nessun riferimento ad una ipotesi di risarcimento. È evidente la inadeguatezza dello strumento penale che si basa su due articoli del codice, il 635 e il 639. Il primo punisce il danneggiamento, il secondo il deturpamento e l’imbrattamento di cose altrui. Le pene vanno da sei mesi a tre anni di reclusione, per il 635, e da uno a sei mesi per il 639 “se il fatto è commesso su beni immobili o su mezzi di trasporto pubblici o privati”, pena alternativa ad una multa da 300 a 1000 euro.
Ritengo evidente che se, ferma restando la sanzione penale, le amministrazioni si aprissero al risarcimento del danno, manifestanti violenti e graffitari sarebbero ricondotti a più miti consigli perché l’azione risarcitoria è assistita dalla possibilità di misure di garanzia patrimoniali, quale il sequestro di beni, che certamente dissuadono colui che intende delinquere molto più della ipotetica sanzione penale. E comunque fa male mettere la mano al portafoglio.
Ricordo, poiché ci avviciniamo all’estate, di avere affrontato alcuni anni fa, da Procuratore della Corte dei conti, questo problema con riferimento ai danni provocati da incendi dolosi che avevano interessato boschi andati distrutti e di aver invano insistito perché la P.A. si costituisse parte civile in sede penale con richiesta di risarcimento dei danni. Questi sono costituiti in primo luogo dal danneggiamento dell’assetto naturale di un territorio, spesso molto vasto, che ha bisogno di essere ripristinato con interventi straordinari per la restituzione dell’habitat naturale. C’è, poi, il costo dello spegnimento dell’incendio assai rilevante, in particolare l’impiego di aerei e di elicotteri costa decine di migliaia di euro.
Ho affrontato in più occasioni questo tema e mi è stato fatto osservare che, a volte, l’incendiario è lo scemo del villaggio, anche se sappiamo che, più spesso, l’incendio è doloso e originato da interessi illeciti. Bene, io ritengo che se l’autore dell’incendio è realmente lo scemo del villaggio e rischia di essere chiamato a risarcire il danno, chi ne ha la responsabilità, in primo luogo la famiglia, sarà indotto a tenerlo a casa per il periodo estivo, ad evitare che vada in giro col fiammifero in mano. Inoltre, in caso di incapienza patrimoniale del responsabile e dei suoi familiari, una norma intelligente dovrebbe prevedere l’assegnazione dell’incendiario – ma anche del graffitaro – ai servizi sociali per risarcire la comunità, del tipo pulizia dei parchi, degli arenili o delle sponde dei fiumi ad evitare accumulo di materiali che potrebbero farli esondare. Ipotesi come tante. L’importante è che l’autorità pubblica, utilizzando i poteri che ha o dotandosi di nuovi strumenti normativi, sia capace di dissuadere dal danneggiamento di beni pubblici e privati non solo minacciando la sanzione penale ma anche un congruo risarcimento dei danni che l’amministrazione e la comunità hanno effettivamente subito.
2 maggio 2015
A Roma al Cinema Adriano, il 6 maggio alle 21
Cristiada (For Greater Glory), un film sulle persecuzioni anticristiane in Messico
di Salvatore Sfrecola
Le persecuzioni anticristiane, come sa chiunque abbia un minimo di cultura storica ed oggi di attenzione per la cronaca, non sono di oggi. E senza risalire a duemila anni fa certamente significative sono state le persecuzioni anticristiane, più esattamente anticattoliche, in Messico e in Spagna, rispettivamente tra il 1926 e il 1929 e tra il 1935 e il 1936. In entrambi i casi con negazione dei diritti civili dei credenti e grande spargimento di sangue in guerre civili che hanno lasciato un segno nella vita di qualle nazioni.
Cristianda è un film storico diretto da Dean Wright, scritto da Michael James Love e basato sulla Guerra Cristera (o Cristiada, da cui il titolo) (1926 – 1929) che devastò il Messico. Prende le mosse dal volume The Cristero Rebellion, dello storico francese Jean Meyer, che risiede in Messico. Il film si apre con i titoli che descrivono gli articoli della Carta costituzionale del Messico del 1917, di un chiaro sapore anticlericale, che danno lo spunto al Presidente messicano Plutarco Elías Calles (interpretato dall’attore Rubén Blades) per una violenta repressione anticattolica che dà avvio ad una guerra civile cruenta e devastante per il tessuto sociale (guerra Cristera). Plutarco Elías Calles era un fanatico emulatore della Rivoluzione francese. Il suo scopo era quello di “modernizzare” il Paese liberandolo dalla “superstizione”. Vennero espulsi preti e vescovi che si opponevano al progetto di una “chiesa nazionale” scissa da Roma e agli ordini del solo governo. Seguirono l’abolizione degli ordini religiosi, confische, divieto di ogni attività per i cattolici. Chiese, conventi, seminari, scuole, istituti di carità, furono chiusi o confiscati, fino ad impedire l’accesso dei fedeli ai sacramenti. Come accadrà in Spagna una decina di anni più tardi, all’inizio e durante la guerra civile nelle zone occupate dai repubblicani, nelle città e nelle campagne vengono date alle fiamme numerose chiese, uccisi preti e contadini, dei cui corpi spesso si fa scempio, appesi ai pali del telegrafo per diffondere il terrore.
In questo clima prende avvio una rivolta di popolo. Nel film il riferimento è ad uno dei sacerdoti vittime della furia anticattolica, Padre Christopher (Peter O’Toole), spietatamente ucciso dai Federales. Testimone del delitto è il tredicenne José Luis Sanchez (Mauricio Kuri), il quale si unisce ai ribelli, i Cristeros, guidati da un generale in pensione e non credente, un eroe nazionale, Enrique Gorostieta Velarde (Andy Garcia), il quale prende con sé il ragazzo che, catturato dai Federales, non ripudierà la sua fede nonostante le torture. Sarà messo a morte. L’anno seguente anche il generale Gorostieta morirà in battaglia, nello stato di Jalisco.
Nel 1929, accordi tra le due fazioni pongono fine ai combattimenti e viene ristabilita la libertà religiosa. Papa Benedetto XVI ha beatificato José nel 2005, con altri dodici martiri tra i Cristeros.
Le cronache ci dicono che il film ha avuto seri problemi di distribuzione al punto che si parla di una vera e propria censura.
L’Esercito Federale riteneva di poter sconfiggere in breve tempo gli insorti, inesperti e male organizzati. Alla rivolta parteciparono milioni di persone che ebbero la meglio sulla repressione rabbiosa e crudele dello stato: massacri indiscriminati, campi di concentramento, impiccagioni di massa.
Si mosse la diplomazia internazionale. Troppi i lutti in una guerra che rischiava di durare a lungo. Ma il governo tradì gli accordi stipulati con il Vescovo Pascual Díaz. Ed ancora per anni, quando deposero le armi, i Cristeros furono uccisi a migliaia.
È la storia raccontata da Jean Meyer che partito da posizioni ostili, ha cambiato il suo giudizio sui Cristeros sino ad arrivare alla conversione.
Le riprese sono iniziate nel maggio del 2010 e proseguite per dodici settimane (tra il 31 maggio e il 16 agosto 2010). Il film è stato girato a Città del Messico, Durango, Zacatecas, San Luis Potosí, Tlaxcala e Puebla.
1° maggio 2015