sabato, Aprile 27, 2024
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Il Principe è morto ma il giornalismo non sta molto bene

di Salvatore Sfrecola

Era inevitabile che la morte ed i funerali del Principe Vittorio Emanuele di Savoia fossero l’occasione per giornali e televisioni per dire della personalità del figlio “dell’ultimo Re d’Italia”, come si è letto e sentito, ma anche per divagazioni sulla storia e sulle “responsabilità” della Casata, almeno nel corso della prima metà del XX secolo. I temi sono stati sempre gli stessi ed hanno riguardato il Re Vittorio Emanuele III, l’affidamento dell’incarico di formare il Governo a Benito Mussolini nell’ottobre del 1922, la promulgazione delle leggi razziali nel 1938, l’entrata in guerra e la gestione del dopo armistizio annunciato l’8 settembre 1943. Argomenti di peso, come s’intende, del quale si è scritto e sentito di tutto, spesso sulla base di “idee” di parte se non di autentici pregiudizi. Per cui una buona informazione non può prescindere quanto meno dal confronto delle posizioni, anche per consentire al lettore o al telespettatore di farsi un’idea “sine ira ac studio”, come chiedeva Tacito a chi intendesse avventurarsi nei sentieri impervi della storia. Perché, aggiungerà più tardi Benedetto Croce a proposito de “la storicità di un libro di storia”, “l’esattezza è un dovere morale”, un imperativo imprescindibile per chi racconta un fatto che “non è da giudicare secondo che più o meno scuota l’immaginazione, e riesca commovente, eccitante, esemplare, o anche curioso e divertente, perché questi effetti si ottengono parimenti da drammi e romanzi”.

Tanto premesso, come scriviamo nelle comparse di costituzione noi giuristi, applicando i principi enunciati, non pochi giornali e televisioni hanno dimostrato di non ricordare Tacito e Croce costruendo narrazioni dei fatti prima richiamati ed addebitati a Vittorio Emanuele III affidandoli a chi era notoriamente schierato, e questo va bene, ma senza assicurare la “parità delle armi”, cioè mettendo i partecipanti all’approfondimento o al dibattito in una condizione di parità. Che non c’è stata, ad esempio, ieri a “Stasera Italia”, la trasmissione condotta su Rete4 da Sabrina Scampini, una brava giornalista che, tuttavia, in questa occasione ha avuto dinanzi un parterre assolutamente squilibrato sul piano delle idee, perché a parlare del Principe e di Casa Savoia sono stati chiamati ad intervenire, da remoto, Antonio Caprarica, Giordano Bruno Guerri e Alessandro Sacchi mentre in studio Stefano Zurlo riceveva dalla conduttrice sollecitazioni a definire argomenti ed a dare la sua interpretazione.

È stato immediatamente evidente che ad Alessandro Sacchi, avvocato civilista napoletano, chiamato ad intervenire in qualità di Presidente dell’Unione Monarchica Italiana (U.M.I.), era stato destinato il ruolo biblico, particolarmente scomodo, del Daniele nella fossa dei leoni, tanto per far capire lo squilibrio in campo. Perché Caprarica, noto corrispondente e inviato RAI, è stato comunista e, giustamente non se ne pente, Guerri è immerso nella storia del Fascismo, cominciando dalla tesi di laurea su Bottai, e Zurlo scrive per Il Giornale, vicino alla destra di governo. Tutti e tre sono personaggi televisivi, di vecchia data Caprarica e Guerri, più di recente Zurlo, giornalista d’inchiesta.

È evidente lo squilibrio nel dibattito, non solo perché i tre erano sostanzialmente schierati contro Sacchi ma perché il tempo assegnato agli interventi è stato governato in modo che il “monarchico” non potesse argomentare e spesso neppure replicare ai “repubblicani”.

Cominciamo da Caprarica e da Guerri, espressione di due culture ferocemente antimonarchiche, anche se il corrispondente RAI da Londra ha saputo apprezzare, e ne ha scritto, in un buon libro su Carlo III, il “fascino della monarchia”, lui “fieramente repubblicano”. È accaduto più volte nella storia che un repubblicano, spesso per tradizioni familiari, fosse affascinato dalla storia di una dinastia che incarna l’identità di un popolo come si è andata formando nei secoli. Magari solo all’incontro con una personalità regale, il Principe Carlo per Caprarica, la Regina Margherita di Savoia per Giosuè Carducci. Senza che il richiamo sembri equiparare il giornalista e scrittore al poeta, scrittore e critico letterario, premio Nobel per la letteratura, il primo italiano ad esserne insignito, nel 1906.

Guerri, giornalista e scrittore, una laurea in lettere moderne con indirizzo in storia contemporanea, è inserito in quella cultura “di destra” che mi ha sempre lasciato molto perplesso perché assume che vi possano convivere liberalismo e fascismo, a mio modo di vedere assolutamente incompatibili. E ne dà dimostrazione Vittorio Emanuele Orlando “il Presidente della Vittoria”, il fondatore della scuola del diritto pubblico italiano, liberale, che, rieletto deputato nel 1924 dopo aver guardato con qualche interesse al Governo Mussolini si dimette da parlamentare all’indomani del famoso discorso del 3 gennaio 1925 sul delitto Matteotti. Un riferimento che mi consente di chiarire a Caprarica e a Guerri una cosa che, se non dovessero tenere la propria parte di “arcirepubblicani”, condividerebbero: il conferimento dell’incarico di formare il Governo a Benito Mussolini fu una necessità da parte del Re che aveva ricevuto il rifiuto di Giolitti, Sturzo e Turati a formare o appoggiare un governo. Inoltre, va ricordato, cosa che viene costantemente trascurata, che il Governo Mussolini, del quale facevano parte anche esponenti liberali e cattolici, ebbe la fiducia della Camera. E se successivamente il Fascismo al potere ha alterato le regole della democrazia statutaria questo è stato possibile perché l’opposizione si è rifugiata in uno sterile Aventino evitando di dare al Re, che lo aveva ripetutamente richiesto, quel “fatto parlamentare” che gli avrebbe consentito di congedare il Duce, come avrebbe fatto il 25 luglio 1943 dopo il voto del Gran Consiglio del Fascismo, l’occasione giuridica per cambiare governo. Soluzione alla quale il Sovrano da tempo lavorava attraverso il Duca d’Acquarone, tanto che Orlando, riferisce Giulio Andreotti, era stato da mesi allertato in vista di una crisi di governo

Quanto, poi, alla tesi di Guerri che il Fascismo fu agevolato dal non aver il Re firmato il decreto sullo “stato d’assedio” delle due l’una. O i fascisti erano tanti e agguerriti, per cui serviva effettivamente lo stato d’assedio o erano uno sparuto gruppo di facinorosi che sarebbe stato sufficiente disperdere con qualche colpo di cannone. In questo caso evidentemente il decreto non serviva. E comunque, come avrebbe certamente detto l’avv. Sacchi, al quale ho sentito ricordare la cosa altra volta, un Governo dimissionario, come quello dell’on. Facta, non può assumere un provvedimento di straordinaria amministrazione come lo stato d’assedio.

In ogni caso, il Governo Mussolini ha avuto la fiducia della Camera.

Venendo, poi, al secondo tema del dibattito, l’accusa al Re di aver promulgato le leggi razziali, se gli fosse stato consentito l’Avv. Sacchi, il quale aveva, del tutto inascoltato, che la promulgazione era un atto dovuto, certamente avrebbe segnalato che anche nella costituzione repubblicana se il Presidente ritiene di rinviare alle Camere una legge perché, ad esempio, introduca norme di dubbia legalità, una volta che venga nuovamente approvata “questa deve essere promulgata” (art. 74, comma 2).

Quanto, poi, all’argomento ricorrente, ma non richiamato ieri, che il Re avrebbe potuto abdicare per non promulgare le leggi razziali, è evidente che tale decisione avrebbe portato alla costituzione, cinque anni prima, della Repubblica Sociale Italiana. Infatti, tra le riforme eversive dello Statuto albertino era stata attribuita al Gran Consiglio del Fascismo la funzione di esprimere il consenso sulla successione al trono, che certamente non sarebbe stato dato nei confronti del Principe Umberto, notoriamente contrario al regime come la moglie, la Principessa Maria Josè, spiata dalla polizia politica fascista per i rapporti che intratteneva con esponenti antifascisti, dal cattolico Gonella al liberale Croce.

E veniamo all’8 settembre, tema sul quale si è avventurato imprudentemente Zurlo il quale ha parlato di “fuga” del Re, tema caro alla propaganda fascista durante la Repubblica Sociale, ripreso al tempo del referendum istituzionale del 2 giugno 1946. È evidente a tutti, tranne a chi non vuol vedere, che il Re, come ha riconosciuto correttamente il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, aveva il dovere di lasciare Roma per poter ancora esercitare le sue funzioni di Capo dello Stato. E che Roma era una città assolutamente indifendibile sul piano militare, a meno di accettare che divenisse la Stalingrado d’Italia e, pertanto, fosse distrutta nei suoi monumenti millenari. Immaginate per un momento: gli italiani sparano sui tedeschi che si difendono casa per casa mentre americani e inglesi, ormai nostri alleati, bombardano le posizioni nemiche. Sarebbe stato un delitto contro la storia che, se fosse rimasto a Roma, al Re sarebbe stato irrimediabilmente addebitato.

Sull’8 settembre i fascisti ed i loro simpatizzanti hanno detto molto, della “fuga” del Re e della disorganizzazione che ha messo in difficoltà i nostri militari ovunque dislocati, spesso senz’armi adeguate. Dell’armamento delle nostre Forze Armate si sa che non era assolutamente adeguato alla guerra nella quale il Duce aveva condotto il popolo italiano. I fanti avevano il fucile 91 (che vuol dire 1891) e pochissime armi moderne. Tutte le cronache e i filmati dell’epoca lo dimostrano. I vertici militari avevano rappresentato al Duce questa situazione, ma il Caporale che si era fatto Primo Maresciallo dell’Impero pensava di saperne di più.

Né sarebbe stato possibile avvertire tutti dell’intervenuto armistizio in modo esplicito. Qualunque telegramma o fonogramma, anche un ordine trasmesso per piccione viaggiatore, lo avrebbero conosciuto i tedeschi, coadiuvati dai fascisti duri e puri, molto prima dei comandanti italiani. Era stato ritenuto sufficiente dire che i nostri soldati, ormai alleati degli anglo-americani, avrei vero dovuto rispondere ad aggressioni da qualunque parte provenissero.

La responsabilità del tracollo militare è di chi ci ha portato a combattere una guerra che per l’Italia non rivestiva interesse alcuno ed alla quale notoriamente il Re era contrario, come risulta anche dai diari degli aiutanti di campo del Sovrano e del genero del Duce, Galeazzo Ciano, che ha annotato tutti i casi nei quali è mancata ai nostri soldati la leale collaborazione dell’alleato tedesco. Per non dire dell’esercito impreparato, come aveva dimostrato in Etiopia e Spagna.

All’Avv. Sacchi sono stati riservati spazi limitati. C’erano altre persone con me ad assistere alla trasmissione televiusiva, non certamente di parte monarchica, ed erano fortemente disturbate dalla conduzione del dibattito. Eppure, l’Unione Monarchica merita rispetto, per essere espressione di una minoranza, ma anche per la sua dignità come associazione che, come si legge nel sito dell’U.M.I., è stata istituita, sono le parole del Re Umberto, “per raccogliere e guidare tutti i monarchici, senza esclusioni, al fine di ricomporre in sé quella concordia discors che è una delle ragioni d’essere della Monarchia e condizione di ogni progresso politico e sociale. Suo compito non è la partecipazione diretta alla lotta politica dei partiti, ma la affermazione e la difesa degli ideali supremi di Patria e libertà che la mia casa rappresenta”.

Da ultimo non si può fare a meno di ricordare, a proposito della “fuga” del Re che tutti i sovrani dei paesi occupati dai tedeschi li hanno lasciati per trasferirsi in Inghilterra, a Londra, per attivare da lì la lotta di liberazione. Di nessuno di quei sovrani si è detto che sia fuggito. A fuggire, per rispetto della verità storica, è stato il Duce, riparato in un carro tedesco, vestito da tedesco. Giustissimo il desiderio di salvare la pelle, ma almeno i suoi seguaci di allora e di oggi potrebbero fare a meno di criticare il Re che ha lasciato Roma con molti membri del Governo vestito della sua uniforme, quindi riconoscibilissimo, per continuare ad assicurare la continuità dello Stato, come ha riconosciuto il Presidente Ciampi.

Del Duce si potrebbe anche dire quel che il Generale De Gaulle ha detto di Napoleone (absit iniuria verbis) per la Francia: ha lasciato l’Italia più piccola di come l’aveva trovata.

Infine, sia Caprarica che Guerri non hanno saputo dire altro che delle banalità in ordine alle monarchie del nostro tempo che in Europa sono al vertice di stati democratici e prosperi. La verità è che sottraendo il capo dello stato alla lotta politica ed alla contrapposizione dei partiti il cittadino si sente più libero di votare e di scegliere, magari passando con disinvoltura da destra a sinistra e viceversa, nella consapevolezza che lo stato non è in discussione, quello stato, meglio quella nazione del quale il monarca rappresenta la storia e l’identità che lo connotano nel tempo. A volte assicurando l’unità rispetto alle tendenze centrifughe presenti in molti paesi, come nella Spagna un tempo squassata dalla rivolta dei baschi e oggi messa in forse dal malessere dei catalani, o in Belgio dove fiamminghi e valloni convivono con qualche difficoltà solo grazie alla monarchia.

Rinvio, per carità di Patria, ogni considerazione finale sull’Italia, tra premierato (che non ha nessuno, e forse vuol dire qualcosa) ed autonomia “differenziata”, che sta scatenando la rivolta del Sud, da troppo tempo trascurato e condizionato da ambienti malavitosi, da dove, quasi disperatamente, si levano voci neoborboniche, nonostante nel Regno delle Due Sicilie non ci fosse spazio per una monarchia “rappresentativa” come quella alla quale diede vita il 4 marzo 1848 il Re Carlo Alberto di Savoia con lo Statuto che richiama il suo nome.

Ad onor del vero!

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