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Aprile 2016

Un nuovo volume nella Biblioteca di Storia e Politica
Costruttori dello stato – Sovrani di Casa Savoia
di Domenico Giglio*

La Biblioteca di Storia e Politica, diretta da Domenico Fisichella, ed edita da “Pagine”, è giunta già al suo terzo volume (Costruttori dello Stato – Sovrani di Casa Savoia, pp. 131, ? 14,50) dedicato ai profili che tre grandi storici, Pietro Silvia, Ettore Rota, e Francesco Cognasso hanno dedicato a fondamentali sovrani di Casa Savoia , Emanuele Filiberto, Carlo Alberto e Vittorio Emanuele II.
La prefazione di Fisichella, iniziando con il ricordo e le motivazioni che Luigi Einaudi, scrisse alla vigilia del referendum del 1946 per spiegare il “Perché voterò per la Monarchia”, si sofferma sulla figura dei tre personaggi sabaudi per spiegare il senso di costruttori dello stato, che li differenzia da altri pur illustri e meritevoli sovrani della millenaria dinastia, che Croce definì nella sua “Storia d’Europa”, uscita nel 1932 , come “la più antica stirpe sovrana che rimanesse in Europa”. E per questo compito di illustrarne, sia pure in sintesi, la vita e le realizzazioni la scelta di tre illustri storici e cattedratici che, scrive Fisichella, “..si caratterizzano per spirito di libertà intellettuale, per chiarezza di informazione e per serenità di giudizio”, punto questo finale che distingue l’autentico storico, dai tanti dilettanti della storia ed ancor peggio dai tanti che ne scrivono con la mente offuscata dalla ideologia o dalla passione politica.
Pietro Silva, infatti, non tace alcuni caratteri negativi del principe, ma ne sottolinea le doti di comandante e di uomo di azione, malgrado le tristi condizioni iniziali in cui si era trovato a vivere da ragazzo, sottolineando ad esempio il severissimo proclama alle truppe, all’inizio del suo comando, “?diretto a proibire, con minacce di pene tremende, le violenze e le rapine e l’indisciplina dei soldati”, sicuramente ispiratogli dal quadro delle devastazioni soldatesche avvenute nel suo ducato, che appunto dovette ricostruire dalle fondamenta, quando lasciò il comando supremo dell’esercito imperiale. In questa ricostruzione, per cui fu anche definito “il secondo fondatore di Casa Savoia”, spicca la decisione, rivelatasi determinante per il futuro della dinastia, di trasferire la capitale da Chambery a Torino ed il rafforzamento delle strutture difensive e dello spirito militare della popolazione, di cui Silva ricorda successivi episodi, oggi sicuramente sconosciuti, che testimoniano lo stretto legame tra i principi ed il popolo, consolidatosi proprio con Emanuele Filiberto, principe “italiano”, come lo definì un ambasciatore veneto, il Lippomano, in una relazione al suo governo.
La non facile figura del secondo personaggio, Carlo Alberto, è trattata con obiettività ed ampiezza di riferimenti, da Ettore Rota, senza sottacere, le vicende del marzo 1821, quando con la concessione della Costituzione, effettuata come Reggente, salvo l’approvazione del Re Carlo Felice, che si trovava a Modena, il quale non riconobbe tale concessione, nacque la leggenda nera di questo Principe, che faticò tutto il resto della sua vita per cancellare le accuse di tradimento, o le definizioni un po’ più benevole di “italo Amleto”, o “Re tentenna”, o come disse il Santarosa, pure monarchico e “suddito affezionato al Re e leale piemontese”, “voleva e disvoleva”, per cui Carducci, in una mirabile sintesi parlò “?del Re per tant’anni bestemmiato e pianto?”. In questa analisi del Rota largo spazio è poi dedicato alle riforme amministrative e militari, e da qui il “costruttore”, che favorirono e poi portarono alla sia pure sofferta concessione dello Statuto, la carta costituzionale che dal Piemonte divenne la Carta del Regno d’Italia, fino al 1946.
E da questa fedeltà allo Statuto, ed al mantenimento della bandiera tricolore, anche dopo la sconfitta di Novara nel 1849, il nuovo Re, Vittorio Emanuele II, come tratteggiato nel suo saggio da Francesco Cognasso, trasse la forza politica e morale, grazie prima al D’Azeglio e poi ancor meglio al Cavour, di diventare il punto di riferimento di quanti si battevano per la indipendenza dell’Italia, non più soggetta a principi stranieri, e retta da un regime costituzionale e liberale, opera che fu appunto realizzata con questo Sovrano, che va valutato nel suo significato storico di garante all’interno ed all’estero del nuovo Stato unitario e di mediatore tra forze ed uomini non sempre concordi, e non per i suoi fatti personali e privati.
Con Vittorio Emanuele II, la costruzione statale iniziata con lungimiranza da Emanuele Filiberto, giungeva a compimento, dando il giusto posto al padre, il Re che voleva fare l’Italia, ma che se fallì allo scopo per eventi superiori alle forze a sua disposizione, ne gettò le basi per il figlio, che ne seppe essere degno e di questa dignità e continuità dinastica, nel 1859, all’inizio della seconda Guerra d’Indipendenza, partendo con l’esercito, nel timore che gli austriaci, tardando l’arrivo delle alleate truppe francesi, potessero giungere a Torino, così scriveva al Ministro della Real Casa , Giovanni Nigra: “Io proverò a sbarrare la via di Torino; se non ci riesco e che il nemico avanzi, ponete al sicuro la mia famiglia ed ascoltate bene questo: vi sono al Museo delle Armi quattro bandiere austriache prese dalle nostre truppe nella campagna del 1848 e là deposte da mio Padre. Questi sono i trofei della sua gloria. Abbandonate tutto, al bisogno, valori , gioie, archivi, collezioni, tutto ciò che contiene questo palazzo, ma mettete in salvo quelle bandiere. Che io le ritrovi intatte e salve, come i miei figli. Ecco tutto quello che vi chiedo, il resto non è niente”.

·        Presidente del Circolo di Cultura ed educazione politica RE

Berlusconi sceglie Marchini: per dare una mano a Giachetti e non farsi contare
di Salvatore Sfrecola
Berlusconi, sondaggi alla mano, ha dato il benservizio a Guido Bertolaso, l'”unico”, come diceva alla vigilia, in grado di vincere a Roma. E sposa la sorte di Alfio Marchini, che nei suoi manifesti si proclama “libero dai partiti”. Sicché “Arfio” adesso si trova in imbarazzo forte. Potrà contare su qualche voto in più, pochi, pochissimi vista la crisi profonda di ForzaItalia avviata all’estinzione dopo i balletti in giro per l’Italia dove spesso è alleata del NuovoCentroDestra, l’odiato movimento di “Alfano il traditore”, come si legge su FaceBook, l’uomo al quale Berlusconi rimproverava la mancanza del quid e che, come dice Marco Damilano, vicedirettore de L’Espresso, fa di tutto per dimostrare che è vero. Non ha il quid per guidare un partito né per gestire il Ministero dell’interno. Ossessionato dai magistrati che lui, piccolo avvocato di provincia, vede sempre come il fumo negli occhi.
Ma torniamo a Berlusconi, al “Patto del Nazareno” che ancora ne guida i passi, più preoccupato delle sue aziende che del partito e meno ancora dell’Italia, il “Paese nel quale vivo”, come disse all’atto della discesa in politica quando fece credere agli italiani che effettivamente la sua preoccupazione fosse quella di salvare l’Italia dal comunismo per avviare una svolta liberale. Fu subito evidente che altra era la sua preoccupazione. Quella di salvare le sue aziende in gravissime difficoltà, indebitate fino al collo. Desiderio legittimo per un imprenditore, ovviamente. Ma se questi decide di “scendere” in politica per salvare la Patria e molti, tantissimi gli hanno dato credito, deve essere coerente e pensare prima di tutto all’Italia, preparare una classe dirigente di partito, anche per affermare e perpetuare questa sua iniziativa politica.
Se, invece, la sua “discesa” è strumentale ad interessi personali e familiari, certo legittimissimi, è giusto che porti al governo del Paese e del partito amici, compagni di scuola, imprenditori e professionisti in evidente conflitto di interessi, una classe politica assolutamente incapace di pensare al Paese che si è illuso di aver trovato il leader carismatico capace di aiutare famiglie ed imprese ad uscire dalla crisi. E così la più grande maggioranza parlamentare del dopoguerra nel 2001 ha illuso gli italiani che fosse giunta la svolta. Invece è stata “Un’occasione mancata”, come ho titolato in un libro ancora oggi di successo tra gli addetti ai lavori.
Così, mentre l’Italia non faceva un passo avanti, le imprese del Presidente del Consiglio s’ingrassavano all’ombra del conflitto d’interessi più grande della storia. Immaginate un imprenditore che nel fare pubblicità sulle televisioni escluda quelle del Capo del Governo?
Ed alla fine il presidente-imprenditore che era sceso in politica è risalito nel mondo delle imprese, delle sue imprese per aiutare il giovanotto che ha preso il suo posto a Palazzo Chigi, ottimo affabulatore e come lui specialista di boutade alle quali gli italiani cominciano a credere sempre meno.
Così, sul viale del tramonto, inevitabile per l’età e la progressiva perdita di consensi, Berlusconi, chiuso nella ridotta di Palazzo Grazioli, richiama all’ordine i fedeli e li spinge ad aggregarsi a Marchini, il “palazzinaro rosso”, altro giovanotto da copertina di rotocalco, di quelli che le signore leggono dal parrucchiere, uno che dice quello che i suoi collaboratori gli hanno scritto, attenti ad evitare parole e frasi che facilitino la sua naturale disposizione alla zagaglia, come a Roma si chiama propensione a balbettare.
Anche Marchini non ce la farà. Ma Berlusconi lo aiuta per dar man forte in realtà a Roberto Giachetti, l’improbabile candidato di Matteo Renzi, nella speranza che possa arrivare al ballottaggio e perdere con onore nel confronto con Virginia Raggi che i giornalisti vicini all’ex Cavaliere stanno cercando in infangare con improbabili rivelazioni di cose non scritte nel curriculum. Perché irrilevanti
E trascura l’appeal di Giorgia Meloni, romana ruspante che dice con chiarezza quel che i cittadini della Capitale vogliono sentire. La bionda Giorgia va alla carica, nella fiducia di travolgere tutto e tutti in una città dove la destra ha significativi consensi, anche con l’apporto di NoiConSalvini, la lista che ha messo in campo persone per bene che hanno gettato il cuore oltre l’ostacolo perché a Roma sia travolto il male che ha mortificato la città più bella del mondo.
28 aprile 2016
Berlusconi ricompatterà il Centrodestra partendo da Roma,
in vista dell’Italicum?
di Senator
C’era un tempo, neppure troppo lontano, nel quale il Cavaliere Silvio Berlusconi, padre padrone del Centrodestra, si chiamasse ForzaItalia, Popolo delle libertà e di nuovo ForzaItalia, sceglieva a suo piacimento capilista e candidati per le elezioni parlamentari, regionali e locali senza preoccuparsi molto di quel che pensassero in proposito non solo i cittadini della circoscrizione o di quella determinata regione o città ma neppure i responsabili locali del partito. Che comunque lui nominava direttamente o avallando scelte dei propri fiduciari.
Quel tempo è passato, ForzaItalia denuncia una progressiva riduzione di consensi, in gran parte dovuta al fatto che quel metodo di scelta non ha creato una adeguata classe dirigente mentre molti, constatato che il partito ha perso potere, si sono dileguati, spesso bussando alla porta di via del Nazareno per arruolarsi nelle schiere del giovanotto di Rignano sull’Arno, visto come una reincarnazione del Cavaliere, nel frattempo divenuto ex, considerata anche l’ambiguità della linea politica portata avanti da Renzi che lascia spazio a molti forzisti, in particolare a quelli che avevano militato in passato sotto le bandiere del partito socialista di craxiana memoria. Spariti spesso per motivi giudiziari poi, essendo rimasti privi di casa, risuscitati sotto la benevola ala protettiva di Berlusconi.
Nel tempo di oggi la cooptazione non funziona più e la scelta dell’ex Cavaliere passa necessariamente attraverso il consenso degli altri partiti della ideale coalizione di Centrodestra, Fratelli d’Italia e la Lega, anche nella versione NoiConSalvini che si presenta soprattutto al centro-sud. Ne consegue che l’imposizione di Guido Bertolaso quale candidato sindaco di Roma non è stata accettata da Giorgia Meloni e da Matteo Salvini. Non solo perché il personaggio è al centro di una complessa vicenda giudiziaria, mentre molti esprimono dubbi sulla sua capacità di manager che ha gestito la Protezione civile dalla comoda condizione di chi può disporre di ingenti risorse da utilizzare in deroga alla legge di contabilità e ad ogni controllo. In realtà il personaggio è a pelle, come si usa dire, antipatico, sprizza arroganza da tutti i pori, non ha quella attitudine a riscuotere l’attenzione che è necessaria per correre in una città difficile come Roma in una condizione che vede sul centrodestra l’attivismo di Fratelli d’Italia, partito che ha la maggiore consistenza proprio nella Capitale, e di NoiConSalvini, la nuova aggregazione curata dal Presidente del Gruppo parlamentare della Lega al Senato, Gianmarco Centinaio, che è riuscito ad arruolare sia nel coordinamento romano che nelle liste per il Comune ed i municipi esponenti della cultura e della società civile rigorosamente esenti da pecche giudiziarie. A tutti, infatti, è stata richiesta la presentazione, insieme al curriculum che ne attesta la professionalità, del certificato del casellario giudiziario e dei carichi pendenti.
Insistere su Bertolaso appare, dunque, un errore per Berlusconi, quanto alla persona del candidato ed alla difficoltà, in ragione di quella scelta, di creare un nesso forte con gli altri partiti del centrodestra che darebbe la pressoché totale certezza della partecipazione al ballottaggio con l’avvocato Virginia Raggi, candidata del Movimento 5 Stelle che viene data come favorita. Un errore che rischia di mettere in forse la possibilità di una vittoria alle prossime elezioni politiche che viene, invece, data dai sondaggi come possibile se il centrodestra si presentasse al ballottaggio unito e compatto.
La posta in gioco dunque è alta e non si comprende come Berlusconi insista nel mantenere una posizione rispetto alla quale non sembra avere via d’uscita. Ha scritto Pierluigi Battista sul Corriere della Sera del 25: “se Silvio Berlusconi avesse a cuore la sua creatura, cioè il centrodestra forgiato nell’impresa impossibile del ’94, affronterebbe con urgenza la prova suprema per ricostruire una leadership ormai dissolta e inghiottita dall’autolesionismo suicida delle elezioni per il sindaco di Roma. Convocherebbe gli Stati generali del centrodestra per dare una forma e soprattutto un’anima smarrita ad uno schieramento ormai informe, pazzotico, rissoso, spaccato tra fazioni che si fanno una guerra senza quartiere, esploso come sotto l’effetto di una deflagrazione devastante”. È un’analisi sulla quale convergono molti, soprattutto in ForzaItalia, sicché ci si chiede perché l’ex Cavaliere mantenga questo atteggiamento evidentemente perdente, al punto che molti sospettano che ragioni nell’ottica del “Patto del Nazareno”, per venire in aiuto di Renzi al quale peserebbe molto una sconfitta a Roma, in particolare ove il suo candidato, Roberto Giachetti, non giungesse al ballottaggio, un esito ritenuto dagli osservatori plausibile in presenza di un Centrodestra compatto.
Quale che sia la ragione che spinge Berlusconi ad insistere sul suo candidato, quella del patto con Renzi o di una risposta stizzita a Meloni e Salvini che lo considerano sul viale del tramonto, non c’è dubbio che una sconfitta a Roma di Bertolaso (dato al 5 % nei sondaggi) e dell’intero centrodestra rappresenterebbe una ferita difficilmente rimarginabile e la sua definitiva scomparsa dalla scena politica anche se, come è probabile, a Milano vincesse Stefano Parisi, l’unico possibile successo, essendo escluso che abbiano qualche speranza i candidati di Torino, l’inconsistente Osvaldo Napoli, e di Napoli, Gianni Lettieri, “l’imprenditore scugnizzo”.
Berlusconi ci ha abituato ad iniziative dell’ultima ora. Sarà così anche stavolta? Salverà la coalizione in vista dell’Italicum che prevede il premio di maggioranza al partito più votato? Un percorso tutto da costruire che non può che partire da Roma.
26 aprile 2016

In un’intervista a La Repubblica
Renzi stempera la polemica con l’ANM che lui stesso aveva iniziato
di Salvatore Sfrecola

E una miccia a lenta combustione quella che è stata accesa in tema di giustizia e non è detto che al termine faccia esplodere qualcosa. Anzi, ritengo che non esploda nulla dopo che il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Piercamillo Davigo, ha risposto a tono, con argomentazioni strettamente giuridiche ed esempi concreti alla generica accusa di “deriva giustizialista” lanciata dal Presidente del consiglio in Parlamento con i toni corruschi che caratterizzano la sua oratoria quando vuole aggredire qualcuno o qualche categoria, immaginando di giocare d’anticipo. Stavolta ha trovato un interlocutore che, con immediatezza e argomenti logici, ha detto chiaramente che la riforma della giustizia attende interventi normativi del governo e del Parlamento già abbondantemente delineati, come ha spiegato ad Otto e mezzo Nicola Gratteri, Procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, il quale ha anche presieduto una commissione governativa che ha indicato le riforme necessarie, che il Governo non ha mandato avanti. Ricordiamo che si dava per certo, all’atto della formazione del Governo Renzi, l’indicazione di Gratteri a Ministro della Giustizia.
Ristabiliti così i termini esatti del confronto tra Presidente del consiglio e Presidente dell’Associazione magistrati, Matteo Renzi ha rilasciato un’intervista a Claudio Tito per La Repubblica nella quale parla di tutto e di più soffermandosi anche su quanto aveva detto Davigo. “I politici che rubano fanno schifo. E vanno trovati, giudicati e condannati”. E aggiunge: “dire che tutti sono colpevoli significa dire che nessuno è colpevole”. Senonché Renzi travisa, come hanno fatto altri in questi giorni, le parole del suo interlocutore (Davigo). Il quale non ha detto che tutti i politici rubano, che sarebbe stata un’affermazione intrinsecamente sbagliata la quale non corrisponde al pensiero del Presidente dell’Associazione magistrati, uomo di logica ferrea, il “Dottor sottile”, come lo chiamavano ai tempi di Tangentopoli. Ha detto, invece, che quelli che rubano non si vergognano. Cosa molto diversa e abbastanza facilmente verificabile da chiunque. Ricordo, in proposito, che mi colpì molto una espressione di Raffaele Cantone, appena nominato Presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione (ANAC) il quale attribuiva alla diffusione di quegli illeciti il fatto che non esistesse nell’opinione pubblica una adeguata “stigmatizzazione” della corruttela. In sostanza, l’opinione pubblica si è assuefatta. Altrimenti non saremmo il paese più corrotto d’Europa (esclusa la Grecia), e d’altra parte, come dice Davigo, corrotti e corruttori non si vergognano.
Poche parole, dunque, da parte del Presidente del consiglio cui qualcuno deve aver ricordato che in materia di giustizia serve estrema cautela perché, al di là di certa stampa e di certi politici, è ben noto che gli italiani la pensano come Davigo. Lo ha sottolineato lo stesso Marcello Maddalena, ex Procuratore generale a Torino, come ricorda Anna Maria Greco in un suo articolo di due giorni fa su Il Giornale.
Poche parole anche in tema di prescrizione che, dice, “va bene allargare”. Forse voleva dire allungare, ma il suggerimento non è giunto in tempo. In realtà non è da allungare. La prescrizione non ha ragione di decorrere quando lo Stato esercita l’azione penale. È noto infatti come la prescrizione abbia lo scopo di adeguare la situazione di diritto a quella di fatto in assenza di una iniziativa delle titolare del diritto. Nel caso, il diritto punitivo dello Stato, se non esercitato entro un tempo stabilito dalla legge va interpretato come disinteresse all’esercizio dell’azione. Ma se il soggetto presunto responsabile viene rinviato a giudizio da quel momento non ha più senso che decorra la prescrizione. Naturalmente non è ugualmente ammissibile che una persona, la quale è innocente fino a sentenza definitiva di condanna, resti per anni sotto scacco giudiziario. Ma se non c’è inerzia del pubblico ministero, del giudice e della difesa il processo segue i suoi tempi fisiologici (e qui come ha suggerito Gratteri va evitata la riproduzione di attività giudiziaria in caso della sostituzione anche solo di uno dei componenti del collegio giudicante) e si concluderà rapidamente perché l’imputato avrà interesse ad una sentenza di assoluzione, mentre oggi l’imputato, che sa di avere qualcosa da rimproverarsi, fa di tutto per allungare i tempi perché scatti la prescrizione. Che non è una assoluzione, ma il fallimento della giustizia. Perché è evidente che l’imputato che non rinuncia alla prescrizione si ritiene colpevole ma preferisce avvalersene.
Avremo ancora nei prossimi giorni effetti della schermaglia a distanza tra Presidente del consiglio e Presidente dell’ANM. Si potrà ricomporre se il governo assumerà le iniziative suggerite dalla commissione Gratteri che prevede norme capaci di rendere veloci i processi e di far risparmiare allo Stato cifre consistenti. Per esempio quei 70 milioni che costituiscono il costo del trasferimento dei detenuti in giro per l’Italia per partecipare ai processi che potrebbero essere gestiti in videoconferenza, come già si fa per i processi di mafia. Con 70 milioni si possono acquistare nuove strumentazioni informatiche e assumere quei cancellieri che mancano (circa 10 mila), senza i quali non si possono fare processi ad esempio nel pomeriggio.
Vediamo se alle parole seguiranno i fatti. Se il Presidente del consiglio assumerà una iniziativa al riguardo. Finora, da quello che leggo sui giornali, sembra che non abbia incontrato nessuno dei suoi naturali interlocutori.
25 aprile 2016

Dimenticanze e non conoscenza
di Domenico Giglio*

Alla vigilia del 25 aprile appaiono i consueti articoli sulla repubblica nata dalla resistenza, per cui anche il Corriere della Sera del 23 aprile, si è unito al coro con un articolo di Marzio Breda dal titolo “Nella resistenza i primi passi della repubblica”. Non ripeteremo che questo slogan suona offesa ai militari che, fedeli al giuramento al Re, per primi scelsero la difficile strada della resistenza nei confronti dei tedeschi, ma ci soffermeremo su uno dei punti in cui l’articolista cita le cosiddette “repubbliche partigiane” , per definire alcune zone del Piemonte dove per brevi periodi le stesse furono liberate dalla presenza germanica, e si ressero autonomamente, dando a queste zone, che meglio sarebbe definire “comuni liberati”, il significato di anticipazione della successiva scelta repubblicana, in quanto la loro esperienza “?non poteva più coincidere con la forma monarchica?.”.
Ora migliore smentita alla tesi dell’articolista è data dai risultati del referendum del 2 giugno 1946, dove Varallo Sesia, in provincia di Vercelli, città medaglia d’oro della resistenza, citata nell’articolo come esempio di “repubblica”, vide la maggioranza degli elettori scegliere il mantenimento della Monarchia con 2.983 voti contro i 2.287 repubblicani e la famosa “libera” Alba, in provincia di Cuneo, così ben descritta dall’indimenticabile Beppe Fenogllio, nel suo “I 23 giorni della città di Alba”, vide ben 6.709 voti per la Monarchia contro 3.334 repubblicani, dati di un estremo interesse e particolarmente significativi in provincie dell’Italia del Nord, dove fu quasi impossibile svolgere una qualsiasi propaganda monarchica e dove, non dimentichiamolo, i due maggiori quotidiani La Stampa ed il Corriere della Sera, che uscivano con i nomi diversi dati loro in quell’epoca, erano decisamente schierati per la scelta repubblicana, che avrebbe prodotto l’esilio e la confisca dei beni per i Sovrani di Casa Savoia, ma mantenuto invece la proprietà dei suddetti giornali e di altri beni ai loro storici precedenti possessori.
Sempre sul Corriere della Sera del 24 aprile vi è invece un lungo articolo del piemontese Aldo Cazzullo, che costituisce la nuova introduzione al suo libro “Possa il mio sangue servire”, dove viene ripetutamente dato atto della presenza monarchica nella resistenza, anche se, quando ricorda i capi della resistenza piemontese, fucilati a Martinetto, e cita i militari dal giovane tenente Silvio Geuna, unico scampato, e che ritroveremo schierarsi per la monarchia nel referendum, al capitano Franco Balbis, agli ufficiali di complemento Errico Giachino e Massimo Montano ed al generale Giuseppe Perotti, non spiega che questa numerosa e qualificata presenza di ufficiali era dovuta a quella fedeltà al giuramento al Re che abbiamo già ricordato, ma questa è o sarà “solo” una “dimenticanza” !
25 aprile 2016

·        Presidente del Circolo di Cultura e di educazione politica REX

Ecco perché preoccupa la classe di governo
Davigo dice quel che pensano gli italiani
di Salvatore Sfrecola

Per comprendere le ragioni delle preoccupazioni della classe politica di governo dopo le dichiarazioni di Piercamillo Davigo, neopresidente dell’Associazione Nazionale Magistrati (ANM), bisogna leggere le ultime parole dell’articolo di Anna Maria Greco, oggi su Il Giornale, la testata della famiglia Berlusconi da sempre ferocemente ostile ai magistrati. Sono le parole di Marcello Maddalena, ex Procuratore generale di Torino, messe a confronto con le dichiarazioni di Carlo Nordio, che aveva ritenuto le espressioni di Davigo “sbagliate nel merito e inopportune”. No, dice Maddalena, sono “largamente condivise dai cittadini”.
D’altra parte nel Paese, dove altissima è la corruzione “percepita”, un dato empirico ma che interpreta la verità, meno corrotto solamente della Grecia, come diceva già all’inizio del secolo scorso Giovanni Giolitti, non c’è da stupirsi che le parole ben misurate, accompagnate da significativi esempi tratti dalla sua lunga esperienza di pubblico ministero, prima, e di giudice, dopo, corrispondano al sentire della gente quotidianamente informata dai giornali e dalle televisioni di gravissimi reati contro la pubblica amministrazione imputati a politici ed a funzionari pubblici, dagli appalti assegnati a imprese amiche che realizzano opere pubbliche a costi superiori al preventivato, in tempi notevolmente più lunghi di quanto previsto, alle forniture inutili. E, soprattutto, opere eseguite spesso senza rispetto delle prescrizioni contrattuali e delle regole dell’arte. Gli ultimi in ordine di tempo, ma non sono certo di essere aggiornato, gli scandalosi casi delle strade e dei ponti crollati in Sicilia a pochi giorni dalla loro inaugurazione. E, poi, i “furbi del cartellino”, che violano impunemente una regola fondamentale del rapporto di lavoro, quella di rendere la prestazione per la quale sono pagati.
E nessuno si vergogna! Questo ha detto Davigo, non per una generalizzata critica della intera società politica, che sarebbe evidentemente ingiusta, ma per una ovvia constatazione che gli imputati e, più, i condannati non si occultano, ma continuano spesso ad esercitare impunemente le loro funzioni.
Rileggiamo l’intervista di Davigo interpretata ad usum dei nemici della magistratura per soffermarci su una considerazione che è difficile non condividere. Posto che l’imputato è innocente fino a sentenza definitiva, il Presidente dell’ANM invitava i partiti, di fronte alle prove che hanno giustificato un avviso di garanzia o un rinvio a giudizio, ad assumere una autonoma valutazione “politica” per decidere se, ai fini della tutela dell’immagine del partito quei fatti consigliano un passo indietro da parte del politico.
Invece si sta cercando di buttarla in caciara, come si dice a Roma, scelta rischiosa perché potrebbe consolidare ulteriormente nell’opinione pubblica quella convinzione di cui parla Maddalena, pudicamente messa dalla Greco in coda all’articolo nel quale tenta di far intendere che, al di là della classe politica “di governo” (perché 5Stelle, Lega e SEL hanno preso posizione nettissima a favore di Davigo), le parole del Presidente dell’ANM non siano gradite anche ad ambienti della magistratura, senza dire che si tratta di notori timidi e di personaggi che in passato hanno ricoperto incarichi nell’ambito di commissioni governative, ruoli cui, si sa, alcuni magistrati tengono molto perché li avvicina al potere.
Diversamente da quanto scrive la Greco, Nicola Gratteri intervenuto ad Otto e Mezzo ha espressamente detto dinanzi alla Gruber, pur ritenendo i toni da contenere, di convenire con le osservazioni di Davigo, tra l’altro segnalando (denunciando?) che i risultati della commissione di studio da lui presieduta per la riforma del codice penale e di procedura penale, che ha predisposto proposte semplificative del processo, con possibilità di recuperare ingenti risorse, sono stati del tutto ignorati dal premier, per cui rimarrà quasi certamente l’ennesimo libro “bianco”, o come diversamente colorato, utile solamente per gli studiosi.
Gli altri, come il Segretario dell’ANM, Francesco Minisci, i quali sottolineano come l’Associazione non intenda alimentare lo scontro, avendo come unico obiettivo quello del migliore funzionamento del sistema giudiziario, sono perfettamente in linea con Davigo il quale si è presentato come colui il quale auspica che la Giustizia funzioni, come desiderano tutti i magistrati. Essendo evidente che qualunque professionista desideri disporre degli strumenti idonei a gestire le incombenze di competenza.
D’altra parte solo in malafede si può dire che il Presidente dell’ANM, abbia generalizzato nelle sue critiche, evidentemente dirette solamente a chi delinque e non si vergogna. Non ha mai dato del corrotto a tutti i politici, ha solamente, come pensano gli italiani, fatto intendere che ritiene, ne ha scritto insieme a Grazia Mannozzi (La corruzione in Italia. Percezione sociale e controllo penale) anche in un libro documentato, che la corruzione sia molto diffusa. È anche la mia tesi che ricollega gli sprechi di pubblico denaro, ingenti e quantificati, alla corruzione, in quando è evidente che il funzionario che acquista beni o servizi non necessari o ad un costo superiore al loro effettivo valore o è uno sprovveduto o uno che così agisce per fare un piacere a qualcuno. Ricchissima è la letteratura. Per semplificare, da “Silenzio si ruba”, di Mario Giordano a “Il saccheggio” di Daniele Autieri, a “Rapaci” di Sergio Rizzo, un assaggio di una ricchissima biblioteca che cresce di giorno in giorno.
Ancora, è di pochi giorni fa un mio articolo nel quale, prendendo lo spunto dagli atti della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla corruzione nella prima guerra mondiale, ho ricordato, con la parsimonia di chi ha carità di Patria, sprechi immensi e ruberie di tutti i generi, dei singoli e delle imprese che hanno realizzato ingentissimi, ingiusti guadagni.
Anche la critica a Davigo basata sulla frase nella quale auspica nuove carceri è letteralmente ridicola. Siamo stati censurati in Europa per l’affollamento dei nostri istituti di pena, non perché fossero troppi i detenuti, che sono nella media dei paesi europei delle nostre dimensioni. Quanto poi alla richiesta di “una repressione penale più forte” è evidente che uno dei requisiti del buon governo della giustizia è quello della certezza della pena che, infatti, caratterizza le migliori democrazie occidentali.
C’è da dire che Matteo Renzi, aduso ad aggredire a destra e a manca la categorie più diverse, sempre generalizzando, per intimidirle, ha ridimensionato alcune sue iniziali esternazioni a margine dell’inchiesta in corso a Potenza. Forse ha capito quel che ha detto Maddalena e che comunque, a differenza dei predecessori, che non si facevano mai capire in televisione e sui giornali, il nuovo Presidente dell’ANM ha le idee chiare e le fa capire alla gente. E questo, in democrazia, va tenuto sempre presente.
24 aprile 2016

Il nuovo codice degli appalti:
le lobby e gli interessi pubblici
(dal massimo ribasso alle commissioni di gara)
di Salvatore Sfrecola

Non sono sfuggiti e non potevano sfuggire a Sergio Rizzo, da sempre attento a tutto ciò che genera sprechi e favorisce la corruzione, quelle che sul Corriere della Sera di ieri chiama “le falle nel codice degli appalti”, in particolare le norme sui ribassi nelle offerte delle imprese che partecipano ad una gara e la nomina dei componenti delle commissioni di aggiudicazione affidata all’Autorità nazionale anticorruzione (ANAC). Per cui il titolo: “Cantone non potrà indagare su gare inferiori a 5 milioni”.
Annunciato come un grande evento di semplificazione rispetto a un Codice obiettivamente ridondante, il nuovo testo normativo sugli appalti appena pubblicato in Gazzetta Ufficiale (decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50) è sicuramente più snello. Ha meno articoli ma disciplina in modo inadeguato due aspetti importanti, quelli, appunto, rilevati da Rizzo, che riguardano due momenti fondamentali della disciplina degli appalti pubblici, l’offerta delle imprese che partecipano alla gara di appalto che in qualche misura condiziona le loro realizzazione, e la costituzione delle commissioni di aggiudicazione.
Osserva Rizzo che, “nella migliore tradizione di una politica per cui il confine tra gli interessi della collettività e quelli delle lobby è sempre impalpabile”, si lasciano aperte due strade pericolosissime. Il “massimo ribasso”, infatti, è stato il male assoluto degli appalti di opere pubbliche in quanto, affidando i lavori a chi ha proposto di realizzarli al prezzo più basso, spesso poco o per nulla remunerativo, si è aperta la strada a lavori eseguiti male o con molto ritardo rispetto ai tempi contrattuali, sempre con la giustificazione dell’esigenza di integrare il progetto con perizie di variante, a cominciare dalla famigerata sorpresa geologica, che sorpresa non sarebbe stata in presenza di affidabili sondaggi geognostici. Poi le “riserve” su questioni contabili o l’applicazione dei prezzi contrattuali spesso derivanti da contrasti tra appaltatore e direzione dei lavori, con le quali le imprese hanno costantemente tentato, quasi sempre riuscendoci, di recuperare quello che avevano perduto facendo un’offerta poco remunerativa. Oggi il Codice propone l’offerta “più vantaggiosa”, “individuata sulla base del migliore rapporto qualità/prezzo” (art. 77) fissata in un milione di euro (era stato inizialmente previsto 150 mila euro), un limite, ricorda Rizzo, al di sotto del quale tutto resta come prima. Cioè per l’81% del totale degli appalti di lavori. Per cui la frase con la quale si apre l’articolo “il massimo ribasso è morto, viva il massimo ribasso”. È evidente che il governo in questo modo ha ceduto alle pressioni provenienti dalle imprese disattendendo, fra l’altro, il parere che le Camere avevano reso sulla bozza di decreto legislativo.
Altro aspetto fondamentale, da tempo messo in evidenza, è quello della costituzione delle commissioni di aggiudicazione, attraverso le quali, come insegna l’esperienza, passano molti degli “inconvenienti” che hanno riguardato sprechi e corruzione. L’idea di cambiare sistema affidando la scelta dei commissari di gara all’Autorità nazionale anticorruzione, che li avrebbe sorteggiati da un apposito elenco, non è passata per le opere inferiori a 5,2 milioni di euro che costituiscono, ricorda sempre Rizzo, il 95% degli appalti. La proposta di affidare ad un sorteggio presidiato dall’ANAC la scelta dei commissari, che costituisce un potere in mano alla politica soprattutto negli enti locali, è stata respinta e limitata alla somma che abbiamo indicato perché si sosteneva che si sarebbe speso troppo (evidentemente per commissari provenienti da altre città o regioni, che, tra l’altro, avrebbe rappresentato una garanzia di neutralità rispetto all’ambiente). Questa osservazione fa il paio dell’altra, non affrontata da Rizzo, che attiene ai collaudi, altro momento fondamentale per combattere la corruzione attraverso il controllo rigoroso della realizzazione dell’opera, che è un settore nel quale il politico di turno si sente libero di affidare ad amici e ad amici degli amici un controllo fondamentale per la realizzazione dell’opera pubblica. In questo caso la logica perversa e ipocrita del risparmio ha ridotto l’importo dei compensi, in tal modo tenendo lontano da questa fondamentale attività professionisti capaci e indipendenti, l’unica garanzia per l’amministrazione. Convinti come sono da sempre che il guadagno illecito della costruzione di un’opera pubblica si realizza attraverso opere fatte male ed in tempi prolungati rispetto al programma contrattuale così facendo lievitare i costi, le commissioni di aggiudicazione e le commissioni di collaudo costituiscono all’inizio e alla fine del procedimento lo strumento fondamentale per tenere lontana la corruzione o per impedire che il corruttore tragga vantaggio ingiusto dall’opera.
Naturalmente, come ho scritto più volte, il collaudatore ben pagato e professionalmente capace va tenuto al riparo da ogni tentazione attraverso una disciplina di incompatibilità con l’impresa della quale ha collaudato i lavori (o di imprese collegate) presso la quale non avrebbe dovuto avere incarichi di qualunque genere per un lungo periodo, almeno un quinquennio. Divieto da estendere a parenti ed affini e collaboratori di studio che in atto consentono quella vischiosità che è fonte di spreco e di corruzione.
Due punti del codice degli appalti non marginali e non secondari ai quali non si è voluto attribuire la necessaria attenzione a dimostrazione che come sempre, come per tutti i governi, la lobby degli interessi privati riesce a scalfire gli interessi pubblici alla trasparenza e alla correttezza e, infine, alla utilizzazione rigorosa del pubblico denaro esclusivamente nell’interesse pubblico. Ma, si sa: i governi passano, le lobby restano.
23 aprile 2016

La destra anomala che critica Davigo perché allergica alla legalità
di Salvatore Sfrecola

“Davigo, la toga che vede solo colpevoli”, così Stefano Zurlo accoglie su Il Giornale del 18 aprile la nomina a Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati di Piercamillo Davigo, avvenuta pochi giorni prima. Ed ecco l’incipit dell’articolo “da mani pulite in poi il presidente dell’ANM ha un unico credo: non esistono innocenti, solo colpevoli da incastrare a tutti i costi”. Viene spontaneo chiudere il giornale gettarlo nel cestino tanto è evidente la somma dei preconcetti che muovono in questo caso l’autore, un giornalista di valore evidentemente condizionato dall’ambiente nel quale lavora, dal clima culturale del giornale per il quale scrive. Una testata “di destra”, da sempre lividamente ostile alla magistratura alla quale si attribuiscono le peggiori ignominie, forse perché spesso sono stati imputati e condannati politici e imprenditori o politici-imprenditori vicini alla proprietà.
Per carità, ogni posizione ideologica è legittima, ma richiederebbe un minimo di serenità di giudizio, se non altro distinguendo i fatti dalle opinioni, antica regola del buon giornalismo. Invece il giornale indulge all’arroganza di certa imprenditoria italiana vicina al potere politico, all’ombra del quale da sempre prospera attendendo dalle forze politiche di governo non solamente concessioni e appalti ma, quando occorre, anche leggi e leggine che rendano più difficili le indagini giudiziarie, depenalizzano (sintomatiche le vicende del falso in bilancio) o abbassano la soglia della prescrizione. Ambienti lontani da quel culto della legalità che ha sempre caratterizzato la democrazia liberale, quella che chiamiamo destra e che abbiamo riconosciuto come tale fino a quando non se ne è impossessato un abile imprenditore, astuto comunicatore che, avendo avuto il merito di spazzare via nel 1994 e nel 2001 i residui di un comunismo becero e antistorico ha conquistato il cuore di molti italiani i quali sentimentalmente continuano, anche se sempre in numero minore, a votarlo per riconoscenza.
Ma torniamo alla prosa di Zurlo su Davigo del quale estrapola qua e là frasi tratte da contesti diversi dalle, quali vorrebbe dedurre il modo di intendere il ruolo di magistrato del presidente dell’ANM. Come quella secondo la quale “in Italia non ci sono troppi detenuti, ma troppe poche carceri”, una realtà oggettiva, perché il numero dei nostri detenuti è nella media degli altri paesi occidentali e se l’Italia è stata oggetto di censure sotto il profilo delle condizioni di vita negli stabilimenti carcerari è stato esclusivamente per l’affollamento degli stabilimenti di detenzione. Iniziare con questa frase dimostra faziosità pressappochismo preconcetti che non vanno mai bene ma ancor meno bene quando si parla di giustizia e di persone che nel settore sono impegnate con “disciplina e d’onore”, come si legge nell’articolo 54 della Costituzione laddove è indicata la regola cui devono attenersi coloro cui sono affidate funzioni pubbliche.
Basti pensare che Zurlo ritiene “perfettamente calzante sul Davigo-pensiero” una frase che riconosce non essere stata da lui mai detta “rivolteremo l’Italia come un calzino”.
Il fatto è che Pier Camillo Davigo, oltre ad essere un magistrato di valore, coerente nell’esercizio delle sue funzioni, prima di pubblico ministero e poi di giudice, col sistema normativo che è tenuto ad applicare, è anche un uomo di spirito, dalla battuta facile, che condisce i suoi ragionamenti con esempi tratti dall’esperienza sua e dei colleghi, attraverso i quali illustra in modo chiarissimo le origini e gli effetti del malaffare che attanaglia questa nostra Italia da moltissimi anni, come dimostrano gli scandali per sprechi e corruzione che risalgono nel tempo, come ho scritto in un recente articolo tratto dagli atti della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla corruzione nella prima guerra mondiale, e che fece dire a Giovanni Giolitti “meno male che c’è la Grecia altrimenti saremo i più corrotti d’Europa”.
In questo contesto è evidente che l’articolo di Zurlo non poggia su una riflessione approfondita delle tematiche che vuole affrontare. Come quando, con riferimento all’accusa di Renzi ai magistrati che non chiuderebbero rapidamente i processi, Davigo individua questa situazione nell’effetto della prescrizione. Un fatto a tutti noto in conseguenza dell’abuso legislativo di un istituto che costituisce un unicum negli ordinamenti giudiziari dei paesi occidentali nei quali, quando lo Stato esercita l’azione penale la prescrizione perde il suo ruolo e quindi non decorre più.
Pensare che Zurlo ricorre all’odiato Renzi per attaccare Davigo è la migliore dimostrazione della strumentalità di una impostazione. Il fatto è che il nuovo presidente dell’associazione nazionale magistrati, grande comunicatore, non di favole ma di ragionamenti facilmente percepibili dal cittadino, costituisce un pericolo per coloro i quali giocano con la giustizia in un continuo dibattito dal quale non si esce con proposte concrete e credibili. Ricorda un po’ l’eloquio di Enrico Ferri che teneva banco con contraddittori di tutte le tendenze. Perché, ad onta di una certa incomprensione tra toghe e cittadini, sempre propensi ad aggirare quando possibile le leggi, per cui vedono nel magistrato colui che li richiama all’ordine, le persone oneste, che sono certamente la maggioranza del nostro popolo, guarda con attenzione al ruolo della giustizia e comprende facilmente il perché della sua lentezza in relazione alla farraginosità processuale scritta in leggi che non fanno certamente i magistrati ma i politici.
Né poteva mancare nella prosa di Zurlo un riferimento alle intercettazioni, difese da Davigo in più occasioni, anche quando sembrano di interesse esclusivamente privato mentre delineano un quadro comportamentale certamente rilevante al fine di comprendere il ruolo che in determinate circostanze ha avuto il soggetto intercettato. Naturalmente si parla dell’ormai famosa frase di Federica Guidi quando dice al fidanzato “mi hai trattato come una sguattera del Guatemala”, frase certamente privata ma che nel contesto della vicenda fa risaltare la ribellione del ministro nei confronti del suo compagno, che evidentemente non le è grato nonostante i numerosi piaceri che lei gli aveva fatto nella sua veste di imprenditore. La frase attesta le pressioni subite dal ministro e potrebbe, nel quadro di altre espressioni registrate dagli investigatori, sottolineare la sua responsabilità cioè il suo coinvolgimento nelle vicende oggetto delle indagini penali ovvero scagionarla perché, nonostante quelle pressioni, non sarebbe venuta meno alla sua responsabilità di ministro e di componente del governo. In questo dibattito è il limite oggettivo delle tesi con le quali si vorrebbe limitare l’uso delle intercettazioni, che è il vero problema che viene presentato all’opinione pubblica come una, condivisibile, critica alla loro diffusione indiscriminata. Pratica che i giornalisti conoscono bene che è conseguenza della diffusione di quei testi il più delle volte da parte degli avvocati difensori.
Alla ricerca di argomenti per attaccare Davigo, che è di destra e che dovrebbe quindi essere omogeneo al giornale sul quale Zurlo scrive, se a guidare la linea editoriale non fosse il Berlusconipensiero, il Nostro arriva a ridimensionare quella appartenenza ideale del magistrato sostenendo che essa non sia riferita all’attualità. D’altra parte la destra ha perduto da tempo ogni riferimento ideologico, basta richiamare il pensiero e gli scritti di Marcello Veneziani. Per cui il richiamo ideale di Davigo andrebbe a personaggi lontani nel tempo, a Cavour, a Ricasoli, a Quintino Sella. Ed è certo che Davigo ne sarà orgoglioso, lui che ha scritto “La giubba del Re” per indicare con un riferimento all’abito indossato da chi serviva lo stato con “disciplina ed onore”, già prima che ne parlasse la Costituzione della Repubblica italiana, perché la dignità del funzionario pubblico risale nel tempo, per quanti vi credevano e vi credono.
In chiusura mi piace ricordare la frase di un mio amico, il professore Emanuale Itta, che, qualche anno fa, a commento di alcune mie considerazioni sullo stato delle istituzioni e sul loro ruolo oggi, mi disse “tu sei proprio un uomo del Risorgimento”. Mi ci volle poco per capire che era un complimento, che non significava appartenere a un mondo superato, perché le regole della democrazia e dell’esercizio delle pubbliche funzioni sono immutabili nel tempo, come nell’antica Polis o nella Roma repubblicana e imperiale, esempi straordinari di fedeltà alla legge e alla missione storica delle istituzioni dello Stato.
20 aprile 2016

Referendum, hanno vinto tutti, ha perso la democrazia
di Salvatore Sfrecola

Com’è consuetudine all’indomani di una consultazione elettorale tutti si proclamano vincitori o, comunque, “non perdenti” assumendo che, in vario modo, l’esito abbia dato ragione alla indicazione fornita al corpo elettorale. C’è, però un sicuro perdente, la democrazia, sempre quando il risultato del voto è determinato dall’astensione degli elettori. E perde la politica se quell’astensione è stata effetto della insufficiente o distorta informazione intorno al quesito e alle conseguenze che la sua approvazione o meno avrebbe determinato.
Non entro, dunque, nel merito del controverso quesito referendario, sul quale, peraltro, si sono sentite non solamente tesi diverse, com’è normale che sia, ma autentiche bugie, evidenti anche alle orecchie del più modesto degli osservatori, purché desideroso di apprendere, ciò che dimostra come la democrazia in questo nostro Paese sia ancora incompiuta. Come attesta la polemica sull’astensione, certamente consentita sulla base della norma costituzionale la quale (art. 75, comma 4) prevede che “la proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi”. Escluse, dunque, le schede bianche o nulle. Questo limite fu oggetto di accesa discussione in Assemblea Costituente. Fu proposto (Paolo Rossi) di elevare il quorum ai due quinti. Poi passò la formula dell’on. Perassi. E fu la maggioranza degli aventi diritto. La preoccupazione era quella di evitare che una legge, magari approvata a larghissima maggioranza dal Parlamento, potesse essere abrogata anche solamente dal quindici per cento degli elettori.
La preoccupazione si comprende ma non convince. Il referendum è istituto cosiddetto di democrazia diretta, attraverso il quale si intende verificare la rispondenza della volontà degli eletti ai sentimenti degli elettori. È espressione autentica di democrazia per cui il limite imposto dal quorum a mio avviso non ha senso, in quanto, in vista del quesito, le associazioni ed i comitati schierati sul si o sul no, i parlamentari ed i partiti sarebbero costretti ad un impegno importante per sollecitare l’elettorato a votare in favore delle rispettive posizioni. Fidare sull’assenteismo, indotto da disinteresse per la partecipazione alle scelte della comunità o, peggio, da insufficiente o distorta informazione non è degno di una democrazia matura come noi crediamo sia quella italiana. O forse come vorremmo che fosse.
Sulla base di questo mio modo di intendere la partecipazione dei cittadini alle decisioni dissento dalla tesi di Alessandro Campi, docente di Storia del pensiero politico all’Università di Perugia, esposta oggi su Il Messaggero, secondo la quale “in democrazia non votare è comunque un modo per esprimere la propria opinione”. Ed aggiunge: “l’idea che solo recarsi alla urne rappresenti una prova di maturità civile o un esercizio virtuoso di cittadinanza nasconde un’idea pedagogica della politica e una visione della democrazia che sacrifica la mobilitazione di massa alla libertà individuale”. Dissento perché è difficile immaginare nella diserzione delle urne una scelta politica rispetto ad una decisione legislativa, come in questo caso, od all’indirizzo politico presentato dai partiti in una competizione elettorale. E, poi, da quale partito, considerata la varietà delle proposte in campo sulle politiche pubbliche, dovrebbe intendersi realizzato il dissenso del non voto?
Neppure l’ipotesi che il cittadino non vada a votare perché disgustato, come taluno afferma non senza qualche fondatezza, dalla politica e dagli scandali che da anni la caratterizzano, può identificare una “scelta” politica, sia pure implicita in una “non scelta”.
Diamo alle cose l’interpretazione più corretta o solamente più verosimile. Il popolo italiano non è stato educato alla partecipazione elettorale. Non lo è stato nei primi anni del Regno, quando votavano solamente i possidenti e coloro che sapevano leggere e scrivere, non lo è stato ai tempi del Fascismo, quando la “religione della libertà”, per dirla con Benedetto Croce, è stata sistematicamente compressa. Non lo è stato neppure nei primi anni della Repubblica nata sotto la minaccia del “caos” se non avesse prevalso sulla Monarchia. Ha avuto una parvenza di dignità essenzialmente negli anni della contrapposizione Democrazia Cristiana-Partito Comunista quando, come nel 1948, fu netta la contrapposizione nelle piazze d’Italia tra libertà e comunismo filosovietico, negatore dei diritti civili. Presto il compromesso storico e la esaltazione della fine delle ideologie, hanno decretato, in realtà, la fine delle idee che distinguevano destra e sinistra. Sicché, come ha scritto Galli della Loggia sul Corriere della Sera di domenica 17, si è realizzata quella “erosione di identità che omologa la politica” ed attua, attraverso la fine dei partiti storici, il superamento del confronto, per cui il cittadino non è stimolato a riflettere, anche nel modo più semplice o semplicistico, per identificare il partito o l’uomo politico del quale condividere e sostenere i programmi. In tutto questo non ha aiutato una legge elettorale che fa del Parlamento un’assemblea di nominati dai partiti e non di soggetti eletti dai cittadini perché radicati sul territorio. Anzi, si è fatto di tutto per allontanare gli eletti dagli elettori trasferendo i candidati da una regione all’altra, spesso a distanza di molte centinaia di chilometri. In queste condizioni appare estremamente arduo considerare il non voto una scelta “politica”.
18 aprile 2016

Occorre cambiare le regole e abolire il quorum
Referendum tra si no e astensione
di Salvatore Sfrecola

Votare è un diritto ma anche un “dovere civico”, come dice la Costituzione all’art. 48, comma 2, esprime “la pienezza della cittadinanza”, ha scritto Michele Ainis, costituzionalista, oggi sul Corriere della Sera (“È meglio votare, niente espedienti”), rende effettiva la partecipazione del cittadino alle decisioni e alle scelte della comunità. Naturalmente si può non votare, anche se la legge per le elezioni delle Camere prevede come obbligatoria la partecipazione al voto. Se ne occupò anni addietro Mario Vinciguerra in un l’esilarante pamphlet “Il voto obbligatorio nel paese dei balocchi”, dove racconta dei suoi vani tentativi di farsi incriminare perché non aveva voluto votare. Naturalmente chi non vota non può lamentarsi di come vanno le cose. Anche se il suo voto può poco è evidente che la somma dei voti esprime una scelta importante, determina l’indirizzo politico elettorale.
Passando al referendum che ci impegna in questi giorni, quello, per semplificare, delle trivelle, è certamente lecito votare sì o no ma anche astenersi, in ragione del sistema di voto che prevede la validità della consultazione solo al raggiungimento del quorum rappresentato dalla partecipazione alla consultazione del 50% più uno degli aventi diritto al voto. Tuttavia il fatto che l’astensione abbia lo stesso effetto del no dimostra che il meccanismo è sbagliato e che la legge va cambiata eliminando il quorum. Infatti chi si oppone al quesito referendario e conta sull’assenteismo, cioè sul disinteresse delle persone magari perché, come accade sovente anche a causa della complessità dei quesiti, non percepisce l’importanza della iniziativa non va premiato perché fa leva sull’ignoranza dell’elettore. E questo non è certamente un esempio di democrazia diretta, quella che, appunto, è rappresentata da questo strumento di consultazione popolare. Per cui sarebbe necessario mettere a confronto il sì e il no di coloro che intendono manifestare la loro opinione. Sarebbe inoltre un fatto che stimolerebbe la partecipazione dell’elettorato, con evidente crescita di una maturità politica della quale in Italia si sente forte il bisogno. Diciamo che contare sul disinteresse indotto dalla cattiva informazione è un mezzo imbroglio, considerato che già il quesito referendario è reso difficile dal sistema stesso, per cui se vuoi abrogare una norma devi segnare si, se la vuoi mantenere devi barrare il no.
I partiti, tuttavia, sembrano restii a sollecitare un approfondimento del tema ed una più compiuta informazione degli elettori. Ricorda Michele Ainis, nell’articolo già citato, che “un tempo, durante la gioventù della Repubblica, la sfida si giocava in campo aperto”. E fa l’esempio del referendum sul divorzio nel quale “le truppe” di Fanfani e di Pannella “si contarono nelle urne, non davanti alla TV; E, infatti, andò a votare l’87,7% degli elettori”.
Se Ainis ritiene necessario votare Angelo Panebianco, sullo stesso giornale, opta per il non voto (“Si può non votare, è un mio diritto”) ma riconosce che “c’è un importante risvolto pratico che riguarda il votare o l’astenersi. Sia in elezioni che in referendum privi di quorum chi si astiene abdica al proprio potere di influenzare gli esiti, lascia che la decisione sia nelle mani di altri, dei votanti”. E in queste considerazioni è la conferma della necessità di modificare la legge sul referendum ed abolire il quorum. Sarebbe certamente educativo, un importante passo avanti nel segno della democrazia che è fatta di partecipazione, non di astensione.
15 aprile 2016

I costi della Grande Guerra
Non solo eroi, anche corrotti e corruttori
di Salvatore Sfrecola

Da storico “dilettante” vado da qualche tempo approfondendo alcune tematiche relative alla Grande Guerra. Ne ho fatto oggetto di relazione e conferenze e mi sono imbattuto su realtà diverse. In particolare mi sono accorto, indugiando tra libri e riviste, che dAbituati a pensare alla Grande Guerra come ad uno scontro di popoli e di eserciti sullo sfondo di una ridefinizione della geografia dell’Occidente e della mappa delle potenze europee ed a considerare soprattutto l’importanza delle operazioni militari e le gesta di generali e soldati, tendiamo a dare poco rilievo all’economia, cioè ai costi della guerra, alla acquisizione delle risorse necessarie, ai prestiti interni ed internazionali, alle imposte ed alle tasse con le quali è stato alimentato il bilancio dello Stato. E ancora alla regolamentazione dei consumi ed alla disciplina dei prezzi che ha interessato le popolazioni civili, in sostanza alle condizioni di vita di chi non era al fronte ma doveva contribuire, affrontando gravi sacrifici, all’impegno della Nazione in guerra.
La guerra ha avuto costi altissimi, superiori a quelli preventivabili ed inizialmente preventivati sulla base dell’esperienza delle guerre dell’Ottocento, tutte alimentate pressoché esclusivamente dalle imposte ordinarie e finanziate, ove esistente, dal bottino conquistato in guerre precedenti.
Tuttavia non sono solamente questi i costi finanziari. Perché vanno considerate in primo luogo le perdite umane, ingentissime, ed i connessi oneri per l’assistenza degli invalidi, degli orfani e delle vedove, gli oneri per la ricostruzione delle infrastrutture viarie, ferroviarie e portuali, distrutte dalle operazioni militari, la riconversione dell’industria bellica. Per non dire del disagio e dei disordini sociali dovuti alle rivendicazioni di chi era al fronte ed ha perduto le attività professionali coltivate con personale sacrificio ma anche di coloro che si sono impegnati nelle fabbriche a guerra finita in fase di riconversione ed hanno perduto il lavoro. Tutte situazioni che hanno pesato molto sulla ripresa dell’economia.
Ogni calcolo è, dunque, necessariamente parziale ed inadeguato, come dimostra la varietà delle cifre  che si leggono nei libri, anche perché i costi globali della guerra vanno depurati degli oneri ordinari, quelli che lo Stato avrebbe comunque dovuto sostenere anche in tempo di pace. Non tutti i costi, inoltre, sono stati registrati nelle contabilità dello Stato e degli enti pubblici.
Accanto ai costi “ordinari”, ingenti ma legittimamente pagati, vanno calcolati quelli conseguenti agli illeciti che come sempre, e dovunque, sia pure in misura diversa, hanno soddisfatto interessi privati indebiti, a cominciare da quelli della grande industria, in particolare la metalmeccanica impegnata nelle forniture militari, interessi che hanno consentito guadagni colossali, un affare per diverse categorie di industriali. Guadagni andati spesso oltre il dovuto, essendosi instaurato un meccanismo di “corruzione sistemica in grado di pompare dallo Stato risorse insperate attraverso merce non consegnata, ma fatturata; merce avariata o scadente; merce pagata più volte; merce pagata tre o quattro volte il valore di mercato” (V. Gigante – L. Kocci – S. Tanzarella, La grande menzogna, Il Giornale – Biblioteca storica, 2015, 36). È stato accertato, infatti, che sul debito prodotto dai costi della guerra, che penserà per decenni sulla vita della Nazione, molto ha influito la corruzione, per la quantità di denaro che ha mosso, lucrando sul bilancio dello Stato, e per il discredito che ha gettato sull’Amministrazione civile e militare e sul mondo imprenfitoriale per le persone coinvolte, ministeriali, politici, militari e industriali. “Si può dire che non vi fu nella vita dell’Italia un fenomeno corruttivo di pari dimensioni se non forse per la ricostruzione del terremoto dell’Irpinia 1980” (Ivi).
Il fatto è che, finita la guerra, la vittoria ed il successivo cambio di regime hanno messo la sordina su questi scandali, sicché ne è rimasta poca traccia nella memoria nazionale, nonostante alla fine del conflitto siano state avviate indagini che portarono alla costituzione di una “specifica commissione parlamentare d’inchiesta che, pur tra difficoltà e resistenze, recuperò una quantità di materiali, prove e testimonianze che resero incontrovertibile la realtà: non ci fu quasi fornitura che non fosse stata sottoposta al fenomeno corruttivo” (Ivi).
Il coinvolgimento negli illeciti di vasti settori dell’amministrazione civile e militare rese difficile l’avvio delle indagini si che il materiale raccolto è rimasto per molto tempo accantonato e soltanto all’inizio degli anni ’90 raccolto, catalogato e inventariato ha dato luogo al primo studio complessivo su una selezione del materiale disponibile sulla base di un lavoro pubblicato dalla Camera dei deputati (C. Crocella – F. Mazzonis (a cura di), L’inchiesta parlamentare sulle spese di guerra (1920-1923), vol. I-III, Camera dei deputati, Roma 2002). È solo uno stralcio del grande materiale disponibile ma già questa selezione offre un’idea della spaventosa capacità di penetrazione della corruzione e del danno economico provocato. Significativi, al riguardo, alcuni passaggi del famoso discorso del 12 ottobre 1919 con il quale Giovanni Giolitti, parlando a Dronero, si era impegnato ad affrontare il problema. Partendo dai costi della guerra, dal valore economico delle vittime. “Valutando a solo lire mille il prodotto annuo del lavoro di un uomo nel pieno dl suo vigore – è il giudizio dello statista piemontese – un milione di morti o inabilitati rappresenta per la nazione la perdita di un miliardo all’anno. Vengono in seguito i debiti verso l’estero, che ammontano a più di 20 miliardi e che rappresentano un corrispondente impoverimento del Paese; il valore del materiale bellico consumato, armi, munizioni, vestiario, approvvigionamenti automobili, cavalli, materiale sanitario ecc.; il valore degli impianti per industria di guerra non utilizzabili per industrie di pace; le distruzioni nelle province invase dal nemico e nei paesi vicini al fronte guerra; la distruzione di oltre la metà della marina mercantile; la rovina del materiale ferroviario, l’abbandono e la cattiva coltivazione di terre per mancanza di braccia; le perdite derivanti dal mancato lavoro di cinque milioni di uomini per quattro anni; la riduzione del patrimonio zootecnico a circa la metà; la grande diminuzione del patrimonio forestale; la scomparsa quasi totale di importazione d’oro da parte dei forestieri ed migranti, il disastroso rialzo del costo della vita in conseguenza della mancata produzione e della svalutazione della moneta. Non è possibile valutare neanche approssimativamente la somma che tali danni rappresentano” (Discorso di S.E. Giovanni Giolitti pronunciato in Dronero il 12 ottobre 1919 agli elettori della provincia di Cuneo, Topografia Artale, Torino, 19191, 13-14).
Tutto questo va aggiunto al costo per la finanza dello Stato che si legge nell’esposizione fatta dal Ministro del Tesoro alla Camera dei deputati il 10 luglio 1919. Cifre di tutto rispetto, le quali segnalano che al 31 maggio 1919 i debiti contratti per la guerra ammontavano a 64.166 milioni; a questi vanno aggiunti 8.378 milioni per le spese di guerra dell’esercizio 1919-20 ed ancora 6 miliardi di debiti che il governo prevede di dover contrarre all’estero per gli approvvigionamenti nel corrente esercizio (1919) sicché, spiega Giolitti a commento di quelle cifre, nei 12 mesi dal 1 luglio 1919 al 30 giugno 1920, cioè in un esercizio finanziario cominciato sette mesi dopo la firma dell’armistizio, “noi dobbiamo ancora fare 17.000 milioni di debiti. Il debito contratto per la guerra salirà quindi alla fine dell’esercizio corrente a circa 81 miliardi, ai quali si aggiungeranno poi, negli esercizi seguenti, i debiti che si dovessero contrarre per coprire i disavanzi finché si sia raggiunto il pareggio del bilancio” (Ivi, 14-15).
Prima della guerra il nostro debito pubblico era di circa 13 miliardi: dunque l’Italia alla fine del 1919 ha un debito di 94 miliardi. Con la precisazione che i 13 miliardi del debito pregresso comprendevano i debiti lasciati dagli stati preunitari e tutti i debiti contratti dal regno d’Italia dal 1860 al 1914: per l’impianto del nuovo Stato italiano, per le guerre del 1866, dell’Eritrea, della Libia, per costruire ferrovie e le altre opere pubbliche, e per coprire i disavanzi di quei 54 anni. Insomma la Grande Guerra da sola lascia un debito oltre sei volte superiore alla somma dei debiti accumulati in un secolo da tutti i governi d’Italia.
Torniamo alla corruzione, a quella “crudele e delittuosa avidità di denaro – sono ancora parole di Giolitti – che spinse uomini già ricchi a frodare lo Stato imponendo prezzi iniqui per ciò che era indispensabile alla difesa del paese; a ingannare sulla qualità e quantità delle forniture con danno dei combattenti; e a giunger fino all’infamia di fornire al nemico le materie che gli occorrevano per abbattere il nostro esercito. La Camera nuova sentirà certamente la voce del Paese, che reclama giustizia” (Ivi, 21-22).
Tornato al governo il 24 giugno 1920 Giolitti presenta un disegno di legge che istituisce la Commissione parlamentare d’inchiesta per le spese di guerra. L’iter parlamentare sarà breve ma si cercherà con ogni mezzo di limitarne i compiti e, pur tuttavia, avrà come scopi l’accertamento degli oneri finanziari sostenuti dallo Stato per le spese di guerra, come essi siano stati erogati quanto il tutto sia stato legittimo, quali siano state le responsabilità morali, politiche, amministrative e politiche.
Il lavoro della Commissione sarà complesso e tormentato. Molte le resistenze, “al limite del boicottaggio, costituirono un ostacolo oggettivo spesso insormontabile. Il fatto apparve ancora più grave quando la Commissione parlamentare cercò di comprendere quante commissioni ministeriali fossero state costituite e avessero funzionato appena prima, durante gli anni di guerra e subito dopo. I risultati furono impressionati: i ministeri ne dichiaravano complessivamente 90 e la Commissione parlamentare ne scoprì 297. In questa incertezza fu impossibile stabilire quanto fossero costate le medaglie di presenza per i funzionari che vi facevano parte, tuttavia si riuscì a ricostruire che 100 di queste commissioni erano costate appena 80 milioni e mezzo di lire. Per i funzionari ministeriali e per i consulenti le commissioni rappresentarono l’Eldorado nel quale le loro competenze e compresenze erano infinite” (V. Gigante, cit., 41).
Si legge nella relazione generale della Commissione d’inchiesta: ” Vi sono funzionari che fanno parte di tante e svariate e tra loro disparate commissioni che solo se fossero onniscienti, e solo se potessero disporre di un tempo dieci volte maggiore di quello che è a disposizione di ogni mortale potrebbero attender con coscienza agli incarichi assunti. Vi sono commissioni la cui inutilità sorge dalla loro stessa denominazione e la cui efficienza induce semplicemente al riso” (Relazione generale, 37).
Un commento: “il proliferare di inutili e costose commissioni mostra la farraginosità della burocrazia della Pubblica amministrazione e ne segna anche la vulnerabilità, dalla negligenza degli omessi controlli fino alla conclamata corruzione” (V. Gigante, cit. 42).
“Emerge un quadro impietoso – è il commento -, in base al quale la cupidigia e la spregiudicatezza di tanti imprenditori e intermediari privati coinvolti (le cui innegabili responsabilità, con buona pace della Confindustria e dei suoi difensori e sostenitori, ben risaltano di volta in volta nelle indagini sui singoli contratti) poterono incontrare il successo auspicato grazie alla connivenza di gran parte dei responsabili delle pubbliche amministrazioni (senza tanto distinguere tra politici e funzionari) a sua volta resa possibile da strutturali carenze organizzative (aggravate dal venir meno delle norme di controllo contabile)” (F. Mazzonis, Un dramma borghese. Storia della Commissione parlamentare d’inchiesta, in C. Crocella – F. Mazzonis (a cura di) L’inchiesta, cit., 225).
Da notare il “venir meno del controllo contabile”, la deroga utilizzata in tutte le emergenze, ancora di recente dalla Protezione civile in caso di calamità naturali e di “grandi eventi”, la porta aperta per ogni possibile illecito.
Corruzione, improvvisazione, imperizia. Le vicende iniziano nel 1914 con i primi approvvigionamenti di materiali. Un caso emblematico è quello di muli e cavalli sul mercato degli Stati Uniti. Gli ufficiali incaricati si recano in America, i più non conoscono la lingua inglese e in ogni caso non sono in grado di leggere e capire contratti e clausole. Gli incaricati decidono di non appoggiarsi all’Ambasciata italiana ma di muoversi autonomamente. Ricorrono a mediatori e a sensali italoamericani di dubbia moralità di cui diversi appartenenti della criminalità. I risultati sono disastrosi. Prima della partenza, a causa del mancato acclimatamento, più della metà dei cavalli muore. Sopravvivono cavalli bolsi e vecchi fisicamente inadatti all’uso militare. Le navi utilizzate per il trasporto erano inadeguate, spesso vecchi rottami, come nel caso della Evelyn che si incaglia nei fondali dell’Oceano Atlantico e che per disincagliarsi sacrifica 900 cavalli, gettati a mare.
In generale emerge un sistema di tangenti e di corruzione nel quale sono coinvolti numerosi ufficiali impegnati nella “Rimonta”, con un danno rilevantissimo: cavalli pagati molto di più del prezzo di mercato, di qualità scadente, spediti in Italia senza precauzioni e cura.
Un caso di incompetenza, superficialità e piccola corruzione rispetto a quanto emerso in Commissione a proposito dei grandi giganti dell’industria italiana, l’Ilva e l’Ansaldo. La prima imponeva i pezzi che desiderava e, libera dalla concorrenza straniera, sia era impegnata in una estesa campagna di finanziamento di giornali e talvolta di acquisto degli stessi. L’impegno economico aveva scopi strategici, capaci di garantire di fatto il pieno controllo dei mezzi di informazione. L’elenco dei giornali finanziati è impressionate: 221 testate nazionali, locali e straniere con contributi in due anni dalla fine del 1917 e la fine del 1919 di ben 4 miliardi.
Si legge nella relazione finale della Commissione: “l’acquisizione delle azioni delle società editrici di molti giornali, nelle diverse città d’Italia non fu certamente compiuta per collocare in imprese redditizie dei milioni rimasti inoperosi ed infruttuosi nelle casse dell’Ilva: bisognava aumentare intorno alla società, che viveva e prosperava a spese dello Stato, il coro delle voci dei grandi giornali ed il plauso compiacente dei piccoli, della platea. Bisognava, mediante la sapiente propaganda giornalistica, persuadere l’opinione pubblica del paese che la siderurgia è un dono offerto dalla provvidenza alla nostra vita nazionale; prepararla a batter le mani alla scandalosa liquidazione che si sperava per i contratti di guerra; indurla ad approvare quei governi che si apprestassero a mantenere e anche ad aumentare il presidio della protezione doganale e il privilegio delle commesse di favore. Bisognava inoltre assicurare a uomini politici amici la difesa di grandi organi della stampa, imporsi a quegli avversari o tepidamente favorevoli con la minacciosa ostilità dei giornali importanti” (I rapporti dello Stato con la società Ilva, in Camera dei deputati, Atti parlamentari, XXI, Relazioni della Commissione parlamentare delle spese di guerra, 233).
È in questo contesto di sovraesposizione mediatica che l’Ilva avanza richieste di liquidazione di pagamenti infondati o irregolari. A guerra finita lo Stato, che pure era in credito, si sentì richiedere ben 131 milioni.
E non stato un caso isolato. “Disorganizzazione, incompetenza, negligenza” in ogni settore. Anche l’Ansaldo non fu estranea ad illeciti. In particolare avendo venduto le stesse armi (cannoni) due volte. Fu per “pura distrazione”, si disse, e la società ammise la frode e restituì 9 milioni di lire.
Anche nel settore aeronautico ci furono “irregolarità”, sia per la Caproni che per la FiatSia. La prima ricevette somme per aerei mai consegnati, la seconda ebbe somme per aerei inadatti al volo ma regolarmente pagati.
Anche in materia di forniture si ebbero sprechi e illeciti, come nell’acquisto di trattori, vecchi rottami inadatti ai terreni italiani. Scadenti erano le scarpe, il vestiario, le coperte, inservibili e pagate a caro prezzo. Un caso emblematico quello del panno grigioverde che avrebbe dovuto avere caratteristiche idrorepellenti. Invece il tessuto era scadente e si imbeveva di acqua.
Insomma la corruzione dilagò sovrana. Ma come spesso accade in Italia e, in quel periodo, forse per non oscurare l’immagine dell’Amministrazione civile e militare e per non coinvolgere personalità vicine al governo si rinviò tutto. Neppure Mussolini mandò avanti la Commissione d’inchiesta. Forse alcuni degli industriali coinvolti avevano finanziato il suo movimento. Insomma si fece di tutto perché non venisse alla luce “quel mondo di vaste e ramificate collusioni e di giganteschi sperperi in cui sono state ampiamente coinvolte fette consistenti delle classi dirigenti e della pubblica amministrazione (compresi i militari)” (F. Mazzonis, Un dramma borghese, Storia, cit., 2094).
Una storia ignobile, accanto ad eroismi ed a sacrifici inenarrabili di quanti nelle trincee combatterono per l’onore della Patria e della bandiera, bagnati fino all’osso perché qualcuno aveva fornito panno grigioverde inadatto e qualche altro aveva chiuso un occhio e pagato somme non dovute, certamente intascando una ricca “provvigione”.
15 aprile 2016

La nuova costituzione
Una riforma pasticciata e vi spiego come
di Salvatore Sfrecola

La Costituzione è la legge fondamentale di uno Stato, lo “costituisce” e definisce le regole della democrazia, i diritti fondamentali delle persone e delle formazioni sociali, l’equilibrio dei poteri, il rapporto tra le istituzioni. La Costituzione rappresenta l’identità politica di un popolo. E’ così, sempre e dovunque. Per questo nel 1947 (entrerà in vigore nel 1948) i Costituenti l’approvarono quasi all’unanimità, raggiungendo, con grande saggezza, un non facile equilibrio tra culture politiche molto distanti, la liberale, la cattolica, la comunista, ma nella convinzione che quelle regole fossero un bene per tutti.
Quella Costituzione ha svolto un ruolo fondamentale nello sviluppo democratico e sociale del nostro Paese. Ed è stata fatta per durare, come accade in tutti i paesi occidentali, fino a quando il popolo non decide di modificarla poco o tanto. Modifiche che avvengono sempre con ampie maggioranze, come ha previsto anche l’attuale Costituzione italiana che all’art. 138 ha stabilito una procedura, cosiddetta “aggravata”, che prevede plurime letture delle Camere. Infatti la nostra è una Costituzione definita “rigida”, come ha voluto l’Assemblea costituente sulla base dell’esperienza negativa del precedente ordinamento: infatti lo Statuto Albertino, la Costituzione liberale che ha retto l’Italia dalla fondazione del Regno unitario all’avvento della Repubblica era una costituzione flessibile, cioè modificabile da una semplice maggioranza parlamentare. È andata bene finché si sono alternate maggioranze liberali. Ma con l’avvento del Fascismo quella Costituzione è stata impunemente e ripetutamente violata.
Ebbene, la riforma voluta dal duo Renzi-Boschi è stata approvata con quello che può definirsi “un colpo di mano”, il voto di una minoranza che, grazie ad una sovrarappresentazione parlamentare assicurata da una legge elettorale dichiarata (anche per questo motivo) illegittima dalla Corte costituzionale, è divenuta maggioranza solo sulla carta. Una simile maggioranza non avrebbe dovuto avere l’improntitudine di cambiare i connotati fondamentali della Costituzione. È un dato non solo formale. Ma la cosa non ha fatto alcun effetto a Matteo Renzi sfruttando la disattenzione di molti italiani per i principi di diritto e le regole della democrazia.
Non solo. Il metodo utilizzato nel processo di riforma per riscrivere la Carta di tutti ha seguito molteplici forzature nel corso del dibattito parlamentare, giungendo al voto finale con una maggioranza racimolata e occasionale, legata da interessi di bottega e prevaricando le garanzie e le prerogative riconosciute all’opposizione. Che, infatti, ha abbandonato l’aula in occasione della votazione finale. E ricordiamo che il rispetto per l’opposizione è un connotato fondamentale della democrazia parlamentare, come dimostra il Regno Unito, dove il premier consulta sistematicamente il capo dell’opposizione che, infatti, costituisce il cosiddetto “governo ombra”.
Alla mancanza di legittimazione della riforma in atto non potrà sopperire nemmeno il referendum, ove ad ottobre prevalessero i “si”. Il vizio di fondo, infatti, resta. Il voto di un Parlamento eletto sulla base di una legge elettorale incostituzionale è una lesione grave della democrazia. Ci auguriamo che i cittadini capiscano che questa riforma è un imbroglio, perché non farà funzionare meglio lo Stato, non garantirà più democrazia, non ridurrà i costi della politica (basti pensare che avendo, giustamente, ridotto i senatori da 315 a 100, ha lasciato 630 deputati). Il che appare assurdo ed evidenzia la volontà di questa “maggioranza”, il cui unico scopo è far durare questo Governo, di occupare soprattutto il potere, come dimostra l’intento di attuare un plebiscito sulla politica del premier. Una politica, ormai lo hanno compreso gli italiani che leggono i giornali, di furbesche, periodiche regalie (gli 80 euro ne sono un esempio) i cui effetti l’abile comunicatore enfatizza tra slogan, mezze verità ed autentiche bugie.
L’augurio è che gli italiani non stiano al gioco, non si facciano confondere le idee da improvvisazioni che non hanno nessun effetto duraturo. Lo dimostra la flessione dei contratti di lavoro a tempo indeterminato una volta diminuiti gli incentivi ai datori di lavoro. E quando cesseranno del tutto?
È certo che la Costituzione aveva bisogno di essere ritoccata su alcuni aspetti, come si chiede da più parti da decenni, dai politici e dai tecnici più avveduti. Ma questa riforma è eversiva, non migliorativa, dell’assetto costituzionale. Trasforma una repubblica parlamentare, dove il potere è esercitato dal popolo attraverso i suoi rappresentanti eletti, in una repubblica i cui poteri confluiscono nell’esecutivo, come dimostra l’esperienza del governo Renzi che più di ogni altro è ricorso al voto di fiducia impedendo la libera espressione della volontà del Parlamento. Lo ha fatto nonostante l’ampia maggioranza. È stata una prova di quello che ci attenderà se la riforma entrerà in vigore.
Infatti la riforma costituzionale collegata alla riforma elettorale, il cosiddetto Italicum (perché mai si usa la nobile lingua del diritto per una riforma antidemocratica?), travolge i principi della repubblica parlamentare. L'”Italicum”, infatti, aggiunge, all’azzeramento della rappresentatività del Senato, l’indebolimento radicale della rappresentatività della Camera dei deputati. Il premio di maggioranza alla singola lista consegna la Camera – che può decidere senza difficoltà in merito a tutte o quasi tutte le cariche istituzionali – nelle mani del leader del partito vincente (anche con pochi voti) nella competizione elettorale.
Contemporaneamente saltano i pesi e i contrappesi che caratterizzano l’attuale ordinamento costituzionale creando una sorta di “Premierato assoluto” che assicura al Governo un potere senza precedenti che si esprimerà nell’elezione del Capo dello Stato, dei componenti della Corte costituzionale, e del Consiglio Superiore della Magistratura.
Il Senato viene modificato sulla base dell’idea di dover superare il bicameralismo “perfetto” o “paritario” (due Camere con identici poteri). Si  poteva procedere in vari modi. Molte sono state nel tempo le proposte di riforma. Nessuna come quella scelta dal duo Renzi-Boschi.
La scusa, la lentezza della procedura legislativa per il doppio esame è una balla. L’esperienza dimostra che quando i disegni di legge sono rimasti troppo a lungo tra Camera e Senato è stato perché non vi era la volontà politica di approvarli. Perché quando si è voluto in pochi giorni le leggi sono state varate. Il Senato lo ha dimostrato in un rapporto dati alla mano. E poi quante volte sono stati corretti nella seconda lettura gli errori di una camera? Proprio in occasione della approvazione della legge sulla scuola, il relatore, al quale in un dibattito televisivo si faceva osservare un errore, ha risposto “lo correggiamo alla Camera”.
Anche il risparmio è una balla. I neosenatori consiglieri regionali avranno certamente una diaria e il pagamento delle spese di missione per la permanenza a Roma. E una segreteria. Sarebbe assurdo che non fosse così.
Le funzioni attribuite al nuovo Senato sono ambigue e il modo di elezione dei nuovi senatori è totalmente confuso, prevedendo che siano rappresentati enti territoriali (regioni e comuni) con funzioni molto diverse. Non potrà funzionare.
Anche il nuovo riparto di competenze tra Stato e Regioni, voluto dalle sinistre nel 2001 con una maggioranza di soli tre voti, che ha avuto gli effetti deleteri sui rapporti Stato-Regioni, e che adesso si vorrebbero sanare, non porterà affatto alla diminuzione dell’attuale pesante contenzioso costituzionale. Probabilmente anzi lo aumenterà. L’elenco di ciò che spetta allo Stato o alle Regioni, è infatti largamente impreciso ed incompleto. Non è vero, ad esempio, che la competenza concorrente è stata eliminata: in molte materie, come nel “governo del territorio” rimane una concorrenza tra “norme generali e comuni” statali e leggi regionali. Inoltre, a causa dei poteri legislativi del nuovo Senato configurati in maniera confusa, nasceranno inevitabilmente ulteriori conflitti di legittimità costituzionale.
Inoltre la stessa riforma del Titolo V della Costituzione torna ad accentrare nello Stato materie che in atto sono assegnate alle Regioni. Da un eccesso all’altro. Senza esperienza e con scarsa cultura giuridica, e nella fiducia di arraffare tutto il potere in conseguenza dell’Italicum, Renzi ha voluto un centralismo che non è funzionale all’efficienza del sistema. Determinerà un aumento della spesa statale e di quelle regionale e degli enti locali, specie per il personale.
È una grave lesione del pluralismo istituzionale e la negazione del principio, di derivazione europea e prima ancora proprio della cultura cattolica, della sussidiarietà. Alle parole non seguono i fatti. L’intento dichiarato di dar vita ad una più efficiente Repubblica delle autonomie è clamorosamente smentito dal farraginoso procedimento legislativo e da un rapporto Stato-Regioni che non valorizza per nulla il principio di responsabilità e determina solo un inefficiente e costoso neo-centralismo.
È stato anche osservato che lo Stato, attraverso la clausola di supremazia (una vera e propria clausola “vampiro”, come è stata definita), potrebbe riaccentrare qualunque competenza regionale anche in Regioni che si sono dimostrate più virtuose e responsabili dello Stato stesso, contraddicendo tanto l’efficienza quanto il fondamentale principio autonomistico sancito all’articolo 5 della Costituzione, secondo il quale la Repubblica “riconosce e promuove le autonomie locali”.
Torneremo sui vari aspetti della “riforma” perché gli italiani sappiano che dietro gli slogan del giovanotto di Rignano sull’Arno non c’è una solida idea di costituzione ma solamente la volontà strumentale di conquistare e tenere il potere.
14 aprile 2016

Il nuovo Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati
sa farsi capire
Davigo ai politici: rispettare la Magistratura
di Salvatore Sfrecola

Infine i magistrati associali hanno calato i loro assi, un Presidente “forte” una Giunta unitaria. Un Presidente comunicatore, Piercamillo Davigo, un magistrato che, a differenza dei suoi predecessori alla testa dell’Associazione Nazionale Magistrati sempre a disagio dietro ai microfoni, saprà far comprendere alla gente quali sono i veri problemi della Giustizia e di chi le responsabilità di annosi ritardi e di gravissime inefficienze. Perché l’opinione pubblica torni a considerare la Magistratura veramente al centro del buon funzionamento della società e dello Stato, così spingendo governo e Parlamento a mettere mano ai problemi veri, non a quelli inventati dai politici a tutela della “Casta”, come nel caso delle ripetute depenalizzazioni e della limitazione dei poteri del Pubblico Ministero e del Giudice. E sullo sfondo la ricorrente voglia di operare una stretta sulle intercettazioni che rivelano vizi pubblici e privati, l’habitat dove maturano abusi e corruzione.
Di riforma della Giustizia si parlerà, dunque, con individuazione dei problemi che effettivamente pesano sull’efficienza del sistema, così da allontanare i cittadini e gli imprenditori dal ricorso ai tribunali, dissuadendo chi volesse investire in Italia. Un Paese dove la certezza del diritto è improbabile non è un luogo dove investire, dove rischiare per realizzare un’attività imprenditoriale. Se, infatti, la giustizia penale arriva quasi sempre ad anni di distanza dai fatti che hanno prodotto illeciti, e il più delle volte i processi impantanati muoiono per prescrizione, la giustizia civile ha tempi incompatibili che le esigenze dell’economia per la quale, come per la vita di ciascuno di noi, il tempo è un valore rilevante.
Ora Davigo ha una grande esperienza. È stato il “dottor Sottile” del Pool di “Mani Pulite”, sempre puntuale nella formulazione delle imputazioni nella tangentopoli milanese la cui storia illustra frequentemente in conferenze ed interviste destando sempre diffuso interesse perché fatti di permanente attualità. Passato poi alle funzioni giudicanti è un riferimento nella Cassazione penale. Inoltre è autore di pubblicazioni sul malaffare e sulla corruzione in generale che sono da anni alla base del dibattito degli studiosi e dei politici, fin da quando con “La Giubba del Re”, un libro di straordinario successo, ha rivendicato il ruolo nobilissimo del servizio allo Stato, quello che si assume indossando, appunto, la “Giubba” che è segno distintivo del delicatissimo esercizio della giurisdizione.
È un compito difficile quello che attende il nuovo Presidente dell’ANM nel contesto attuale nel quale il Presidente del Consiglio, mentre dice di attendere dai giudici risposte rapide agli scandali, si muove spesso come un elefante in un negozio di cristalli creando disagi e disfunzioni. Con la tecnica antica di giocare d’anticipo aggredendo quello che addita all’opinione pubblica come “il nemico” dell’efficienza, come nel caso delle ferie dei magistrati (i più produttivi d’Europa), un problema inesistente, creato per intimidire la categoria, dopo che aveva bloccato il trattenimento in servizio degli ultrasettantenni in vista di un “ricambio generazionale” che non c’è stato e non è neppure alle viste. Intanto ha creato vuoti significativi nei vertici istituzionali, mandato a casa presidenti e procuratori di tribunali e di corti d’appello, interrotto carriere onorate e determinato scavalcamenti nell’assegnazione degli uffici, fonte di un ricco contenzioso. Non sapeva evidentemente cosa faceva e perché lo faceva. Ma lo sapevano bene i suoi suggeritori. Qualcuno parlerà di poteri forti, di lobby e di altre variabili che da sempre fanno politica dietro ai politici. Con Davigo, almeno per la magistratura, i politici dovranno essere espliciti e chiari. “È essenziale farsi capire – va ripetendo in questi giorni – spiegare ciò che altrimenti resterebbe incomprensibile”. Il comunicatore politico, che parla per slogan e luoghi comuni, e il magistrato che chiede “rispetto” per l’istituzione e per gli operatori del diritto perché la buona giustizia la fanno le buone leggi e magistrati indipendenti, “soggetti soltanto alla legge”, come sta scritto in Costituzione. Sarà dura per il giovanotto di Rignano sull’Arno.
9 aprile 2016

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