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Giugno 2018

Rileggiamo la storia sine ira ac studio. Re Vittorio non fuggì da Roma. La lasciò perché non fosse distrutta nel corso di una difesa impossibile e comunque inutile
di Salvatore Sfrecola

Non conoscevo il Prof. Marco Patricelli che da Wikipedia apprendo essere storico di fama internazionale, autore di ricerche che “hanno affrontato pagine in ombra della Seconda guerra mondiale spesso ribaltando verità che apparivano consolidate”. È autore de “L’Italia delle sconfitte da Custoza alla ritirata di Russia”. Collaboratore RAI domenica 24 giugno ha annotato per La Verità alcuni passi della più recente puntata de “La Grande Storia” di Paolo Mieli, in onda su RAI3, soffermandosi su alcuni errori. In particolare il giornalista e storico si sarebbe “appisolato” un paio di volte , in particolare sulla figura di Mafalda di Savoia e sulla sua “cattura” da parte delle SS di Herbert Kappler. Precisa Patricelli che Mafalda, figlia di Vittorio Emanuele III e moglie del Principe Filippo d’Assia, non era stata arrestata in Bulgaria, come affermato da Mieli, ma a Roma. Errore certamente scusabile giustificabile nell’esposizione dell’intrigata vicenda. In effetti, di ritorno da Sofia, dove aveva assistito alle esequie del cognato Boris III, Zar dei bulgari, marito di sua sorella Giovanna, morto dopo una visita a Berlino tanto che si dice sia stato avvelenato per ordine di Hitler, la Principessa fu “invitata” a recarsi all’ambasciata tedesca per una comunicazione telefonica urgente con il marito, generale tedesco, che non sapeva essere stato “fermato” per ordine del Fhürer. E lì scattò la trappola predisposta da Kappler, che la portò prima a Berlino poi nel campo di concentramento di Buchenwald dove il 28 agosto 1944 sarebbe morta tra atroci sofferenze, ferita a seguito di un bombardamento americano e abbandonata. In quell’orribile lager la principessa italiana era Frau von Weber, ma quando fu sepolta nella fossa n. 262 del cimitero di Weimar, sottratta al forno crematorio dal monaco cecoslovacco Herman Joseph Til, suo compagno di sventura, a Mafalda fu negata anche la pietà di quel nome fittizio e fu per le SS Eine unbekannte Frau, una donna sconosciuta.
Con l’occasione di quel tragico settembre del 1943 Patricelli ripete la vulgata della “fuga” del Re Vittorio Emanuele III da Roma, naturalmente “ignobile”, nonostante ad oltre 70 anni dovrebbe essere agevole per gli storici considerare i fatti nella loro oggettività, sine ira ac studio, abbandonata ogni suggestione politica. Ma Patricelli è uno storico gradito agli esponenti di vertice dell’attuale establishment che più volte lo hanno invitato a celebrare la Repubblica e non si discosta dalla versione “ufficiale”. Che è smentita dai fatti, da quanto si può desumere facilmente indipendentemente dalla loro interpretazione.
È un fatto, ad esempio, che all’indomani del 25 luglio 1943, le dimissioni di Benito Mussolini e la fine del Fascismo dissoltosi in un attimo, Hitler, certo che l’Italia avrebbe chiesto l’armistizio agli angloamericani, come del resto il Duce gli aveva sollecitato invano durante l’incontro di Feltre, fece entrare in Italia dal Brennero numerose divisioni. Nel suo desiderio di vendetta il dittatore tedesco compì un errore strategico gravissimo, perché apriva un nuovo fronte in un contesto territoriale difficile per la configurazione orografica del nostro Paese, tra una popolazione apertamente ostile, come avrebbe dimostrato presto la lotta partigiana, iniziata dai reparti del Regio Esercito rimasti nelle zone occupate dai tedeschi.
Firmato l’armistizio, tra molte difficoltà provocate dai tentennamenti del Governo italiano, gli angloamericani ne danno l’annuncio prima del previsto spiazzando le nostre autorità le quali erano certi che la notizia sarebbe stata data più tardi. In particolare si trovarono in evidenti difficoltà i reparti militari presenti in territori esteri, che, del resto, non potevano essere informati in precedenza per l’ovvia ragione che quella “notizia” sarebbe stata certamente intercettata dai tedeschi. Tutti, pertanto, vengono a sapere dell’armistizio dal Presidente del Consiglio, il Maresciallo Pietro Badoglio, attraverso il noto messaggio radiofonico del’8 sera quando, nel comunicare che “il governo italiano, riconosciuta la impossibilità di continuare la impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione”, aveva chiesto un armistizio al generale Eisenhower. Alla fine del comunicato il Presidente del Consiglio precisava che “conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza”.
L’Esercito, si dice da parte dei critici, non aveva avuto ordini. E da sempre mi chiedo quali sarebbe stato possibile dare in quelle condizioni con i tedeschi presenti in massa in Italia? Quale ordine a generali che avevano il dovere di controllare il territorio di rispettiva competenza, di tenerlo saldo in nome dello Stato e di reagire “ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza”? Evidentemente dai tedeschi. Ed era un ordine non equivoco. O forse la sola notizia dell’armistizio determinava ipso iure la smobilitazione e l’abbandono dei comandi? Come sempre vi furono eroi, tanti, e felloni, non pochi.
Quanto al Re lo si è accusato di non aver difeso Roma, addirittura di non essere morto a Porta San Paolo alla testa delle sue truppe. I politici e molti storici avrebbero richiesto all’anziano sovrano un “bel gesto”. Morire armi in pugno sarebbe stata la cosa più semplice per l’anziano sovrano che si era conquistato la fama di “Re soldato” nella Grande Guerra e che a Peschiera del Garda l’8 novembre 1917, all’indomani di Caporetto, aveva difeso l’onore del soldato italiano messo in dubbio dagli stati maggiori inglese e francese. Ed ottenuto che la difesa fosse stabilita sul Piave. In alternativa a resistere ed a morire per alcuni poteva essere il Principe Umberto.
Morire sarebbe stato facile per l’uno e per l’altro, come aveva tentato invano Carlo Alberto a Novara. Ma, poi, al Re sarebbe stato rimproverato di aver mancato al proprio dovere. Innanzitutto di preservare la sua persona, essendo l’unica autorità legittima di un Regno senza Parlamento. Inoltre, resistendo a Roma, avrebbe inevitabilmente concorso alla sua distruzione. La Città, assolutamente indifendibile dal punto di vista militare, sarebbe stata distrutta dai bombardamenti tedeschi ed alleati ed i monumenti della sua straordinaria storia quasi trimillenaria sarebbero stati sepolti per sempre sotto grappoli di bombe. Non avrebbe avuto pietà Hitler, desideroso di vendicarsi del traditore italiano e di papa Pio XII, che aveva anche pensato di rapire. Né avrebbero avuto remore gli angloamericani come dimostrerà la distruzione della millenaria Abbazia di Montecassino per il solo sospetto che nei dintorni fossero nascosti reparti tedeschi. A chi addebitabile, dai romani e dalla storia, la distruzione della Città non più “eterna”? Al Re del “bel gesto”, naturalmente.
Ancora un fatto indubitabile. Lasciare Roma era, dunque, necessario, ed era indicazione che filtrava in vari modi anche dal Vaticano. Anzi c’è chi ha visto una lettera di Papa Pacelli al Re. Roma doveva essere preservata. Ed era necessario che il Re rimanesse libero per esercitare quelle funzioni che, nel silenzio vile dei più, il Fascismo aveva sistematicamente compresso, approfittando della natura “flessibile” dello Statuto Albertino. Infine, dove si sarebbe dovuto trasferire il Sovrano se non nell’unico lembo di terra italiana libera dai tedeschi e non ancora occupata dai nuovi alleati?
È stato facile da parte degli antifascisti dell’ultima ora parlare di “fuga” del Re. Altri sovrani, dinanzi all’occupazione tedesca dei loro paesi, si erano rifugiati in Inghilterra per continuare di là a guidare la resistenza. E nessuno ha parlato di fuga. Lo ha spiegato bene Alessandro Meluzzi, all’indomani del ritorno della salma del Re in Italia, “gli han fatto pagare gli errori di un Paese”. Quelli del popolari di Luigi Sturzo, dei liberali di Giovanni Giolitti e dei socialisti di Filippo Turati che, nel 1922, invitati dal Re a formare un Governo che affrontasse la crisi del dopoguerra e assicurasse l’ordine messo in forse dalla contrapposizione violenta tra fascisti e comunisti, non vollero affrontare quella difficile sfida. E, sia pure con vari distinguo, consentirono che la Camera desse la fiducia al Governo di Benito Mussolini. Anzi alcuni ne hanno fatto parte. E quando cominciò a delinearsi la soppressione delle libertà garantite dallo Statuto del Regno non diedero al Re quel segnale che attendeva dalle Camere, i suoi occhi e le sue orecchie, come usava dire. Era un formalista di certo Re Vittorio, ma il 25 luglio 1943 il sovrano fece tutto da solo concordando con Dino Grandi, per il tramite del ministro della Real Casa, Duca Pietro d’Acquarone, l’ordine del giorno che, approvato dal Gran Consiglio del Fascismo, gli avrebbe restituito i poteri di Capo supremo delle Forze Armate dei quali il Duce si era impadronito. E in quel pomeriggio a Villa Ada, congedatosi dal Presidente del Consiglio dimissionario, lo fece portare al sicuro, dacché, quel che ignorano fascisti e repubblichini, se Mussolini fosse tornato libero avrebbe rischiato la vita, come dimostrano le manifestazioni di giubilo della popolazione romana alla notizia della sua caduta. Ne fanno fede i cinegiornali con le immagini delle strade invase da centinaia di migliaia di cittadini inneggianti al Re, del quale levavano in alto le immagini unite al tricolore nazionale.
Ancora fatti inequivoci, volutamente ignorati dal politically correct.
Con la “fuga” del Re si è giustificata la “morte della Patria”, per dirla con Ernesto Galli della Loggia, e si è aperto alla perdita dell’identità di cui oggi ci lamentiamo, sovente senza approfondirne l’origine, da individuare nell’abiura del Risorgimento nazionale, l’unica esperienza unitaria di questo Paese. Lo dice bene un maestro del giornalismo e affidabilissimo osservatore della storia, Indro Montanelli, il quale in qualche modo lo ha spiegato, nell’avvertenza al suo volume “L’Italia della Repubblica”, da poco tornato nelle librerie e nelle edicole ad iniziativa del Corriere della Sera: “di coloro che avevano votato Repubblica? pochissimi si erano resi conto che, con la Monarchia, l’Italia rinnegava il Risorgimento, unico tradizionale mastice della sua unità? scomparso anche quello, il Paese era in balia di forze centrifughe che ne facevano temere la decomposizione”.
La vulgata alla quale dà avallo Marco Praticelli, storico, dando corpo a interpretazioni capziose promosse per finalità politiche dai comunisti e da quella frangia di cattolici che vorrebbero cancellare Porta Pia, vorrebbe che gli italiani perdano la memoria del proprio passato, disconoscano la propria identità dopo secoli nei quali si era “calpesti derisi perché non siam popolo perché siam divisi”, come recita l’Inno Nazionale. Come vogliono le multinazionali del profitto per le quali è necessario che, nell’epoca della globalizzazione non ci devono essere né cittadini né confini nazionali ma solamente consumatori e lavoratori dove la produzione lo chiede, anche spostando masse di diseredati dall’Africa e dall’Oriente per tenere bassi i salari. E così non si studia più l’educazione civica e l’insegnamento della storia è accantonato.
29 giugno 2018

Un libro di Giuseppe Valditara
“Sovranismo”, per una rivoluzione culturale e politica contro la sinistra “globalista”
di Salvatore Sfrecola

Non lo si trova ancora nella maggior parte dei vocabolari della lingua italiana. Eppure il sostantivo “sovranismo” e il conseguente aggettivo “sovranista” occupano da tempo il dibattito politico con crescente intensità, non solamente in Italia, dove sovranisti sono la Lega di Matteo Salvini e Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. Fuori dai nostri confini, con la tipicità delle diverse realtà ed esperienze nazionali, sono sovranisti Marine Le Pen con il Front National, il premier ungherese Viktor Orban, che guida i Paesi del blocco di Visegrad, gli olandesi di Geert Wilders, i tedeschi di Alternative für Deutschland di Alexander Gauland, gli inglesi dell’UK Independence Party di Nigel Paul Farage. Sovranista è il Presidente U.S.A. Donald Trump, per il quale la salvezza della società e dell’economia vanno ricercate in un recupero di sovranità nazionale in materia fiscale ma anche di sicurezza, per riprendere possesso dei confini e cercare di fermare l’immigrazione incontrollata, in gran parte illegale e assolutamente restia, se non contraria, ad ogni forma di reale integrazione. Lo sanno bene francesi e belgi che contano numerose vittime di attentati terroristici posti in essere da “cittadini” di seconda o di terza generazione. Un fatto che stupisce solamente chi non si rende conto della aggressività del mondo islamico che parte da secoli addietro e che oggi si alimenta con il disprezzo per l’Occidente “corrotto”.
Per gli europei il sovranismo si esprime prevalentemente in forma di protesta nei confronti di una Europa ritenuta fonte delle difficoltà economiche e sociali alimentate da regole che privilegiano l’equilibrio formale dei conti, spesso senza una visione complessiva della crescita e dello sviluppo delle singole economie sicché ne risentono gli investimenti pubblici e non sono sollecitati quelli privati. Inoltre l’U.E. non si preoccupa della omogeneità dei sistemi tributari, come dimostra la presenza di normative diversificate che spingono imprese e persone abbienti ad attraversare i confini per ottenere vantaggi fiscali considerevoli. Dov’è l'”Unione” se FCA, ex FIAT, ha trasferito la sede legale in Olanda per pagare meno imposte?
In questo contesto, in cui forte è il disorientamento del ceto medio produttivo, da tempo deluso da una politica che non sembra reagire al diffondersi di una visione del mondo che, globalizzato nell’economia, dimostra anche di aver perduto ogni riferimento culturale, ideologico e identitario, quelli che poggiano sul concetto di Nazione, espressione delle radici più profonde dei popoli, sostituita da una visione della società senza valori, senza stati, senza confini, irrompe oggi, come espressione di una idea “forte”, compiuta, corroborata dal pensiero di illustri studiosi di politica e istituzioni, un volume di Giuseppe Valditara, da poco nelle librerie, che ha avuto immediata eco sulla stampa e nel dibattito politico: “Sovranismo” Una speranza per la democrazia” (editore Book time, 149 pagine). Professore ordinario di diritto romano nell’Università di Torino, un’esperienza parlamentare quale senatore per due legislature, Valditara è il Direttore di Logos (www.logos-rivista.it), rivista che vanta un Comitato scientifico di professionisti che uniscono scienza ed esperienza, tanto da essere considerato una sorta di think thank del Centrodestra e della Lega in particolare che del sovranismo ha fatto una bandiera in Italia e in Europa.
Il libro è un vero e proprio “Manifesto dei sovranisti”, una risposta compiuta a quel vasto fenomeno politico-filosofico che, soprattutto dal dopoguerra, ha cavalcato con entusiasmo la fine delle ideologie ed il crollo delle tradizionali distinzioni della politica, Destra e Sinistra, sposando la tesi che il futuro di pace e di prosperità sarebbe stato assicurato dalla globalizzazione dell’economia e da quella dimensione cosmopolita e internazionalista “gradualmente diventata il punto di riferimento di quei movimenti politici che avevano sempre contrastato i fenomeni identitari, variamente legati all’idea di nazione”, come scrive Valditara analizzando le ragioni della crisi delle tradizionali divisioni politiche. Questo fronte progressista, precisa ,”si è saldato ad un certo cattolicesimo mondialista che tende a concepire il messaggio cristiano più come una “ideologia” sociale che come una parola di salvezza individuale”. E fa da sponda agli interessi dei grandi gruppi finanziari internazionali che traggono vantaggi da una società senza frontiere per le merci e per gli uomini. Lo dimostra l’aiuto fornito da finanzieri come Soros alla immigrazione incontrollata che assicura forza lavoro a basso costo. Uno scenario che conosciamo da anni, una tratta di esseri umani non più condotti con la forza in Occidente, come avveniva in passato, quando trafficanti senza scrupoli catturavano gli abitanti dei villaggi dell’Africa occidentale per costringerli sulle navi negriere dirette al di là dell’Oceano, e portarle a lavorare nelle piantagioni dei coloni inglesi d’America. Non più con la forza, ma reclutati da organizzazioni criminali in combutta con le mafie, questi disperati vengono ad alimentare gli affari soprattutto di chi gestisce attività agricole, e di quanti lucrano sull’assistenza, quella che, diceva il gestore della cooperativa finita nell’inchiesta di Mafia Capitale, rende più della droga.
Nel mondo globalizzato e senza frontiere è necessario demolire le identità dei popoli, la loro storia, la loro cultura, le tradizioni che nei secoli hanno costruito le nazioni che si identificano per la lingua, l’ambiente, le istituzioni. È facile rendersi conto di questa realtà. Si comincia dalla scuola, che in Italia dà dimostrazioni evidenti di progressivo allontanamento dalla base classica, ritenuta erroneamente alternativa allo studio delle discipline scientifiche considerate più “moderne”. Eppure è provato che l’insegnamento della cultura classica ha formato la base di quella preparazione che ha assicurato ai nostri migliori professionisti, anche nelle professioni scientifiche, posizioni di lavoro prestigiose ovunque nel mondo. Non si studia più l’educazione civica, che avrebbe dovuto contribuire a formare i cittadini, e la storia, che richiama il passato, nel timore che i giovani se ne innamorino e mostrino quell’orgoglio che spinge a guardare al futuro con fiducia. Provate a chiedere ad un giovane chi è Dante, chi Cavour, chi Vittorio Emanuele II, il Padre della Patria. Sintomatico che nell’anno centenario della fine della Prima Guerra Mondiale, quando l’Italia ha raggiunto i confini naturali, così realizzando il sogno di Mazzini e Garibaldi e di quanti nel corso dei secoli avevano immaginato l’Italia una, e per essa avevano scritto e combattuto, che nessuno ne parli, che le autorità siano assenti e neppure un francobollo ricordi il Re Vittorioso, Vittorio Emanuele III. Non avviene in Russia, dove gli Zar sono stati arruolati, mi si perdoni l’espressione, per dire ai giovani di oggi che per quella storia grandiosa meritano un futuro migliore. Li aveva richiamati in servizio anche Stalin gli Zar, da Pietro il Grande, il costruttore della Russia moderna, ad Alessandro I, che aveva difeso la patria contro Napoleone, quando le armate del Terzo Reich percorrevano le pianure del Don verso Mosca. Sembravano inarrestabili ed era necessario dare alle truppe e alla popolazione civile il senso della difesa della Grande Madre Russia di fronte all’invasore.
Valditara osserva come sia spesso mancata la capacità di sviluppare una proposta alternativa, politica e di governo, che poggi su solide basi storiche e culturali, identitarie, appunto, “con una visione chiara e positiva del futuro, in grado di convincere quote maggioritarie di elettorato in particolare quello più moderato, che è decisivo per vincere”. Ed è innegabile – osserva ancora -“che in alcuni Paesi le tradizionali forze “conservatrici” fatichino a trovare un percorso propositivo fortemente innovativo a rimodellare la loro identità per essere capaci di affrontare la nuova sfida mondiale, che è culturale prima ancora che politica”.
Il libro si apprezza per offrire una solida base culturale sulla quale costruire la risposta al dilagante mondialismo. Partendo dalla storia, dagli studi che affondano le radici nell’esperienza della Roma repubblicana e imperiale, Valditara richiama l’esigenza di individuare concetti precisi e chiari in “sovranista” e “identitario” che ritiene “essenzialmente legato al grande tema delle vicende della sovranità popolare, prima ancora che della sovranità nazionale, la cui crisi è una conseguenza della crisi della prima”. È anche una risposta al tentativo di “sovvertire tradizioni e a sconvolgere identità mettendo in crisi un mondo certamente distante da quello “progressista” e, anzi a esso politicamente alternativo nel suo consueto conservatorismo valoriale”. Questa visione storica ha l’obiettivo di definire un pensiero corretto, scientificamente corroborato da riflessioni di studiosi di scienza della politica e del diritto pubblico che vada oltre gli slogan dei movimenti sbrigativamente definiti “populisti”, qualificazione che ha assunto un significato se non negativo almeno limitativo dell’offerta politica, per passare dalle sensazioni ad una costruzione solida, “per contestualizzare i dati dell’attualità riguardanti temi interconnessi quali l’immigrazione di massa, la perdita progressiva di identità culturale e nazionale e la crescita dei poteri sovrannazionali”, come ha scritto Thomas D. Williams PhD, Professore di Filosofia etica University of Saint Thomas nella prefazione: Valditara delinea idee, speranze e programmi politici che dovrebbero essere condivisi dai movimenti di tutti i Paesi e coagulare un blocco in grado di contrastare il dilagante globalismo.
Secondo l’Autore la sovranità popolare è ormai umiliata da oligarchie che rispondono ai grandi gruppi economici, da governi sovranazionali che non rappresentano i popoli, da Corti internazionali che condizionano la giustizia nazionale. Sicché anche il voto, massima espressione della democrazia, si rivela privo di reale efficacia in quanto il potere è gestito da politici che si occupano soprattutto dei loro referenti e trascurano il bene comune. Questo provoca sfiducia nei confronti dello Stato che dimostra di non tutelare l’identità, le tradizioni, gli usi e i costumi, dei quali la gente – anche la più umile – è generalmente gelosa custode.
Le stesse élites europee hanno da tempo progressivamente contribuito a rappresentare un’Europa senza storia e, quindi, senza identità.
Nell’Antica Roma, ricorda Valditara, autore di un aureo volumetto che ha avuto molto successo “L’immigrazione ai tempi dell’antica Roma”, tutti erano fieri di definirsi civis romanus. Oggi nessuno si definirebbe con identico orgoglio civis europeus. Eppure abbiamo il dovere di credere nell’Europa e di rivendicare una identità europea nel rispetto delle culture, della religione, della storia, dei ricordi delle singole Patrie, di cui parlava il Generale De Gaulle. Identità nazionali che poggiano su radici comuni greco-romane e cristiane, quelle radici che la Convenzione europea, naufragata nel tentativo di scrivere una Costituzione, aveva ripudiato, sbagliando, consegnando all’inadeguatezza le istituzioni comunitarie.
È certo che nella primavera 2019 le elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo, che giungono al termine di un dibattito sulle carenze dimostrate concretamente dalle Istituzioni comunitarie, anche per quel deficit di democrazia, sempre denunciato e che ha trovato una enunciazione lapidaria in Giuliano Amato in occasione del discorso di insediamento quale Vicepresidente della Convenzione europea “Montesquieu non è mai passato per Bruxelles”, potrebbero definire una nuova geografia europea che recuperi dissensi e delusioni che serpeggiano nelle grandi capitali del centro Europa.
In tema va richiamato un intervento di Sergio Fabbrini che, scrivendo su Il Sole 24 Ore alla vigilia del 4 marzo, ha evocato una contrapposizione che ritroveremo nelle prossime elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo. La “divisione fondamentale, quella tra chi pensa di governare un’Italia indipendente e chi invece un’Italia integrata”, sulla quale Fabbrini fonda la sua riflessione, è, tuttavia, frutto di un equivoco. Perché non è vero che “se si affermasse la coalizione indipendentista, allora l’esito sarà l’inevitabile auto-esclusione dell’Italia dal progetto di rafforzare e democratizzare l’Eurozona”. Infatti, c’è modo e modo di partecipare ad una Europa integrata, scegliendo se essere o meno protagonisti di un’unione politica, che garantisca il mercato unico e la democrazia liberale. L’esperienza insegna che, pur essendo fondatori, non siamo stati quasi mai protagonisti per incapacità dei governi.
Per cui contrapporre “europeismo” a “sovranismo” è sbagliato. Semmai “la fondamentale interdipendenza – soprattutto economica – in cui si muove il nostro paese (che quindi in molti campi non può muoversi autonomamente, ma deve implementare alcune riforme)”, come ha scritto Lorenzo De Sio, Professore di scienza politica, annotando le riflessioni di Fabbrini, deve indirizzare la politica a rispondere “in modo efficace alle posizioni politiche dei cittadini”. Perché “l’idea di recuperare la capacità di risposta del sistema alle istanze dei cittadini” è, a suo giudizio, “il senso profondo del ritorno, cui stiamo assistendo, del concetto di sovranità”. In sostanza il problema della perdita di sovranità e della capacità di risposta delle nostre democrazie è reale e attuale perché i cittadini, per credere nella democrazia, hanno bisogno di sentirsi davvero sovrani, di sapere che i loro voti avranno un peso determinante nelle scelte dei governi. Sicché, conclude De Sio, “è dalla crisi di questo processo che emerge la sfiducia che gonfia le vele dei partiti sovranisti”.
Si tratta, dunque, “di prendere sul serio la sfida di rendere più aperti, trasparenti, diretti (in una parola, capaci di rispondere ai cittadini) i processi decisionali a livello europeo”. Superando quel deficit di democrazia da sempre denunciato, ricordato da Giuliano Amato, e mai superato.
Il libro ha, dunque, l’ambizione di offrire idee al ceto medio, ai boni viri, a quella “maggioranza morale di persone serie, per bene, responsabili e autenticamente generose, che hanno a cura innanzitutto il destino dei propri figli e dei propri nipoti”. Perché diano vita a quella rivoluzione “identitaria e sovranista, che è poi una rivoluzione democratica” la quale “presuppone proposte non improvvisate, concrete, realistiche, presuppone riflessione e studio” come scrive Valditara nelle conclusioni. Nelle quali richiama opportunamente l’esigenza di riscoprire il realismo contro l’ideologismo. E lo fa con rinvio al pensiero di un giurista e console romano, Sesto Elio: “a differenza dei Greci, amanti del filosofeggiare, il Romani preferivano la certezza del diritto, e il diritto deve a sua volta dare risposte efficaci ed equilibrate ai bisogni quotidiani dei cittadini”.
Ecco, chiarezza di idee e volontà di sviluppare un grande progetto alternativo al “globalismo”, “di respiro internazionale, che vada oltre la pur nobile azione di contrasto e di rigetto di alcuni sui principi e di alcune sue realizzazioni”.
18 giugno 2018

Il Ministro Lorenzo Fontana alla sfida della politiche della famiglia e delle disabilità
di Salvatore Sfrecola

Lorenzo Fontana, Ministro senza portafoglio “per la famiglia e le disabilità”, s’insedia alla Presidenza del Consiglio dei ministri trovando che la materia è stata coltivata in quel palazzo, a livello di studio, più di quanto si creda, a fronte di una realtà di assoluta trascuratezza. Perché, se dipende da Palazzo Chigi il “Dipartimento per le politiche della famiglia”, della cui attività non si ha nessuna apprezzabile notizia, stupisce che il Ministro Fontana abbia chiamato a svolgere le funzioni di Capo di gabinetto Cristiano Ceresani, funzionario parlamentare, collaboratore primo di Maria Elena Boschi da Ministro delle riforme e, da ultimo, Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. Sembra che Fontana abbia detto, a chi trovava illogica quella scelta di un collaboratore del precedente governo in una materia tanto delicata, che il Ceresari è un buon cristiano. Definizione all’evidenza insufficiente se, pur essendo un tecnico, ha sposato l’indirizzo politico del governo diretto da quel Matteo Renzi che disse, con espressione che ho trovato immediatamente volgare, “ho giurato sulla Costituzione e non sul Vangelo” all’atto dell’approvazione della legge sulle unioni civili nella quale la famiglia, come l’ha intesa la Costituzione, è stata assolutamente trascurata.
Informo, dunque, il Ministro Fontana che evidentemente non ne è a conoscenza, che negli anni 2004 – 2006 presso l’Ufficio del Vicepresidente del Consiglio, Gianfranco Fini, ha lavorato, con il concorso di esperti dei temi familiari e delle associazioni che si occupano di famiglia, una Commissione di studio, diretta dall’Avvocato dello Stato Paola Maria Zerman, che ha redatto un testo normativo divenuto “Statuto dei diritti della famiglia”. Un testo nel quale sono previsti diritti e definite condizioni che agevolano, anche sul piano tributario, “la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose”, come si legge nell’art. 31 della Costituzione.
Giunta la fine della legislatura, quello schema normativo non è divento disegno di legge in quanto il Vicepresidente Fini, che aveva favorito i lavori della Commissione, ritenne di non procedere oltre per una scelta politica sopravvenuta, certamente distante dagli ideali di Alleanza Nazionale, della quale era ancora Presidente.
Di quella esperienza non è rimasto niente se non, come ho scritto su La Verità qualche settimana fa, l’iniziativa dei senatori Paola Binetti ed Antonio De Poli che ne hanno preso uno degli spunti e presentato un disegno di legge istitutivo di una “Autorità garante della famiglia”.
È quindi un impegno notevole quello che il Ministro Fontana assume oggi nel costruire il suo ufficio che non potrà non ricomprendere, oltre al Dipartimento per le politiche della famiglia, presso il quale è istituita la Segreteria tecnica della Commissione per le adozioni internazionali, il Dipartimento per le pari opportunità e il Dipartimento per le politiche antidroga. Tutte strutture riconducibili all’esigenza che la centralità della famiglia nella società italiana, così come individuata dalla Costituzione all’art. 29, che la definisce “società naturale fondata sul matrimonio”, sia oggetto di una considerazione unitaria anche dal punto di vista fiscale, come avviene all’estero con il “quoziente familiare” o analoghe formule dirette ad alleviare gli oneri delle famiglie con figli. Sappiamo, infatti, che la politica tributaria ha da sempre penalizzato gravemente la famiglia, favorendo le “separazioni fiscali”, escludendo benefici attribuiti, invece, a soggetti ed a nuclei, meritevoli di un rispetto che tuttavia non può andare a danno delle famiglie legalmente costituite. Come nel caso di una coppia “di fatto”, non registrata come tale, nell’ambito della quale la donna risulta essere “ragazza madre” sì da percepire una specifica indennità e da sopravanzare le donne sposate nelle graduatorie, ad esempio per gli asili nido. È difficile non individuare in queste situazioni una evidente disparità di trattamento.
Il ministro Fontana ha dimostrato, fin dalla sue prime esternazioni, di avere una percezione netta di questi problemi, giuridici e tributari, che vanno affrontati nel rispetto delle persone e nella considerazione del ruolo fondamentale della famiglia se si vuole essere coerenti con le esigenze attuali della società italiana in un contesto di decrescita demografica e moltissime famiglie si vanno a collocare in quell’area triste della povertà.
Una grande sfida per il Ministro e per il Governo, dunque. Che gli italiani attendono sia vinta nell’interesse di tutti, anche dei single perché la Famiglia Italia abbia un futuro.
14 giugno 2018

Con il coinvolgimento di più partiti
Corruzione per lo stadio della Roma
di Salvatore Sfrecola

L’ennesima inchiesta giudiziaria, che ha ad oggetto un nuovo episodio di corruzione, in questo caso connesso alla costruzione del nuovo Stadio di calcio della Società sportiva Roma, sta investendo  la classe politica non solo capitolina ma anche i vertici nazionali dei partiti, suggerisce alcune considerazioni su comportamenti illeciti che attecchiscono ovunque, nonostante l’attività di prevenzione dell’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC), che dà ogni giorno dimostrazione di notevole efficienza, e la repressione penale. Illeciti frequenti a tutti i livelli sicché, qualche anno fa, il Presidente della Corte dei conti, Luigi Giampaolino, ebbe a dire che la corruzione aveva un carattere “pulviscolare”, intendendo che essa è diffusa ovunque, dalle grandi alle piccole attività, ovunque è possibile lucrare a carico dei bilanci pubblici.
L’inchiesta romana, che ha portato in carcere o agli arresti domiciliari nove persone, un imprenditore, il Presidente di una municipalizzata ed esponenti politici del Comune e della Regione avrebbe messo in luce pagamenti in denaro ed altre utilità, secondo la formula dell’art. 318 del codice penale (corruzione per l’esercizio delle funzioni): consulenze fittizie, pagamento di fatture per operazioni inesistenti, assunzioni e aiuti per trovare case ed uffici. Il tutto per “oliare” gli ingranaggi burocratici dal 2017 in poi, con una corruzione che il Gip Maria Paola Tomaselli ha definito “sistemica”.
La vicenda è una nuova dimostrazione che i finanziamenti pubblici per opere di interesse generale stimolano appetiti criminali che coinvolgono imprenditori e pubblici amministratori, i corruttori e i corrotti. Si vedrà quali delle responsabilità delineate nel provvedimento di rinvio a giudizio saranno confermate all’esito dei processi, ma già alcune considerazioni si possono fare. In primo luogo quella che, ancora una volta, sono coinvolti esponenti di più partiti. E questo conferma un dato dell’esperienza, secondo il quale la corruzione, in caso di operazioni finanziarie di grosse dimensioni, deve necessariamente coinvolgere più partiti, perché il corruttore vuole evitare che qualche assessore o consigliere comunale o regionale, troppo zelante, possa assumere qualche iniziativa che sollevi dubbi sulla realizzabilità dell’opera o sui suoi costi, così mandando a monte l’affare. Offrendo a tutti in forme diverse, anche con la sponsorizzazione di iniziative culturali (un convegno di studio, una pubblicazione) il corruttore ritiene di mettersi al riparo da qualunque ipotesi di controllo politico e di interesse mediatico.
Altra osservazione riguarda la farraginosità del sistema normativo, generalmente condivisa ma che sembra impossibile eliminare. In quelle difficoltà sta l’origine dei tentativi di adottare scorciatoie nella gestione delle procedure di appalto e, quindi, della corruzione. Va anche rilevato come nell’ennesima vicenda giudiziaria attinente alla corruzione non compaiono imprese straniere, in particolare europee. Questo dimostra che le difficoltà del sistema italiano e la consapevolezza della diffusione della pratica delle mazzette inducono imprese dei paesi appartenenti all’Unione europea a non partecipare alle gare, anche quando di particolare valore economico. E va detto che, oltre alla corruzione, gli imprenditori stranieri sanno che, in caso di vertenze giudiziarie connesse all’assegnazione dei lavori o alla loro esecuzione, le procedure dinanzi al giudice ordinario o amministrativo sono estremamente defatiganti e causano ritardi nella esecuzione delle opere con oneri aggiuntivi che non tutti vogliono sostenere.
In queste condizioni si impoverisce il Paese, perché le opere pubbliche entrano in esercizio con molto ritardo e, spesso, superate nell’esigenza. Inoltre sono quasi sempre molto più costose di quanto preventivato, con la conseguenza che ai ritardi burocratici e giudiziari si aggiunge la sopravvenuta mancanza di risorse di bilancio dirottate su opere di più immediata realizzazione.
14 giugno 2018

Sorpresa! I nuovi ministri reclutano i loro collaboratori tra quelli del governo del Partito Democratico
di Salvatore Sfrecola

In partibus infidelium (“nelle terre dei non credenti”), si diceva un tempo lontano per indicare i territori sottratti ai cristiani dopo le prime invasioni islamiche, quando i Vescovi mantenevano il titolo delle diocesi ormai perdute. Nella “terra degli infedeli”, cioè della opposta parte politica, sono stati scelti molti dei collaboratori dei ministri del governo Conte, Di Maio, Salvini, in particolare i Capi di gabinetto, passati dal vecchio governo al nuovo, al più cambiando ministero.
Premetto che sono tutti bravi. Alcuni molto bravi. Quasi tutti sono miei amici o comunque persone con molte delle quali ho condiviso esperienze professionali e confronti su tematiche istituzionali.
La gente comune non conosce il ruolo di questi grand commis d’Etat, come si usa dire prendendo dal francese un’espressione che rivela il ruolo prezioso dell’amministrazione pubblica d’oltralpe. Sono i primi collaboratori dei ministri. Tecnici di elevata professionalità e di notevole esperienza nella funzione o in similari forme di collaborazione ministeriale. Scelti tra “esperti, anche estranei all’amministrazione, dotati di elevata professionalità” (art. 7, comma 2, lettera e) del D.Lgs, 300/1999). Prevalentemente provenienti dal Consiglio di Stato, dalla Corte dei conti o dall’Avvocatura dello Stato. Conoscono il diritto, in particolare quello amministrativo, che delinea le attribuzioni dell’amministrazione ed anche il diritto europeo, considerato che gran parte dell’ordinamento amministrativo è da molti anni di diretta derivazione comunitaria.
A volte, ma più raramente vengono scelti tra i più alti dirigenti dell’amministrazione, di solito dirigenti generali o capi dipartimento. Più raramente, perché si vuole che il Capo di Gabinetto, più del Capo dell’Ufficio legislativo, sia estraneo all’Amministrazione presso la quale è chiamato a collaborare con il ministro di turno. Lo si vuole distaccato dall’apparato per assicurare la sua indipendenza rispetto alla struttura, perché non faccia cordata, sicché in qualche modo favorisca le pur legittime istanze “di bottega” rispetto alle indicazioni politiche del ministro. Solo per i ministeri degli affari esteri, della difesa e dell’interno la legge prevede che il Capo di Gabinetto sia un interno. Rispettivamente un ambasciatore, un generale, un prefetto. Va bene per i primi due, non si giustifica per il Ministero dell’interno.
Sono scelti sempre in base a criteri fiduciari e restano in carica per un periodo non superiore alla durata del proprio mandato. Il Gabinetto è uno degli uffici di diretta collaborazione del ministro (come la segreteria del ministro e dei sottosegretari di stato, l’ufficio legislativo ecc.) e supporta lo stesso nella definizione degli obiettivi dell’amministrazione, nell’elaborazione delle politiche pubbliche, nella valutazione della loro attuazione e nelle connesse attività di comunicazione.
Il Capo di gabinetto è il tramite tra il ministro, autorità politica, e la struttura amministrativa, compito particolarmente delicato, da svolgere in armonia con il ministro, nel senso che deve in qualche modo condividerne l’ispirazione ideale si che non solo darà con maggiore capacità esecuzione alle direttive ministeriali ma riuscirà anche a immaginare, per la sua conoscenza delle leggi e delle potenzialità tecniche del ministero (procedure, risorse disponibili e materiale umano), quello che il ministro può fare aiutandolo e suggerendo iniziative.
Dote richiesta è, altresì, quella di possedere un tratto umano che gli consenta di dialogare con la struttura e con i dirigenti dei quali inevitabilmente conosce il linguaggio, le aspettative professionali la consapevolezza della missione ministeriale. È quindi sconsigliato individuare un Capo di gabinetto tra persone che, pur di elevata professionalità, siano notoriamente e apertamente di una parte politica diversa o lontana da quella del ministro, che non abbia un afflato umano che lo porti a dialogare proficuamente con i dirigenti dell’amministrazione, che non si ponga mai nei loro confronti con il fare arrogante non raro tra i parvenu. È accaduto, invece, sovente, soprattutto quando il ministro o la forza politica cui appartiene non vantano precedenti esperienze di governo che nel tam tam dei palazzi del potere i ministri siano stati indotti ad accettare offerte o sollecitazioni provenienti da ambienti del vecchio governo, nel senso che spesso il ministro uscente raccomanda un suo collaboratore a livello di segreteria o di Capo di gabinetto o di Capo ufficio legislativo. Nella maggior parte dei casi accettare questa indicazione significa legarsi mani e piedi alla parte politica del precedente governo attraverso collaboratori che inevitabilmente manterranno rapporti con i vecchi “datori di lavoro”. Non è un processo alle intenzioni ovviamente, né mancanza di fiducia nel senso dello Stato di questi personaggi ma è l’esperienza che lo insegna.
È accaduto anche nel governo Berlusconi 2001 – 2006 quando ottennero posizioni di responsabilità nei ruoli di Capo di gabinetto, Capo ufficio legislativo e Capo dipartimento personaggi che nel precedente governo erano stati schierati con il Centrosinistra. E dunque sono rimasti in sella all’indomani del 2006, a dimostrazione di una consuetudine con quella parte politica consolidata negli anni.
In quel tempo, avendo amici un po’ ovunque – all’epoca ero Capo di gabinetto del Vicepresidente del Consiglio – venivo sistematicamente informato da amici che mi stimano di conventicole di questi personaggi i quali, pur operando nell’ambito degli uffici di diretta collaborazione dei ministri in carica, mantenevano rapporti con i predecessori tanto che in occasione di cene o di incontri conviviali parlavano del governo Berlusconi come di un governo quasi defunto che avrebbe perduto le elezioni. Ricordo a questo proposito che quando uscì il mio libro “Un’occasione mancata” (Pagine Editore), l’onorevole Francesco Storace mi chiamò dicendomi: “ho letto quello che ha scritto ed ho capito perché abbiamo perduto per 26.000 voti quando avremmo potuto vincere per 2 milioni”. Voleva dire che se la pattuglia ministeriale fosse stata condotta con impegno e con condivisione delle indicazioni politiche provenienti dal Presidente del Consiglio e dai ministri, probabilmente l’azione di governo sarebbe stata più incisiva con effetti positivi sul risultato elettorale.
Il governo Conte, Di Maio, Salvini, a quel che si sente dire, sta mantenendo in sella in molti settori, magari spostati solo di ministero, personaggi che hanno collaborato in posizioni di responsabilità con il precedente governo, schierato su posizioni che i cittadini hanno sonoramente bocciato nelle urne il 4 marzo. Reclutare in partibus infedelium i più stretti collaboratori è un errore gravissimo, destinato a impoverire l’azione governativa perché è da escludere che persone ideologicamente vicine al governo del Partito Democratico, nella versione Letta, Renzi, Gentiloni, possano collaborare con l’entusiasmo necessario con il ministri del governo M5Stelle – Lega, espressione di una maggioranza parlamentare nei confronti della quale quegli stessi personaggi, ad ogni occasione, avevano manifestato in pubblico e in privato aperto dissenso, tra l’altro schierati per il SI nel referendum sulla proposta di riforma costituzionale bocciata dalla saggezza degli italiani stanchi degli inutili slogan con i quali Matteo Renzi riteneva di governare l’Italia.
12 giugno 2018

Dall’impero dello Zar alla Federazione russa
sorvolando l’Unione Sovietica
di Domenico Giglio

La chiara simpatia che alcune parti politiche, giunte oggi al Governo, nutrono per il presidente russo Putin, non so quanto provenga dalla conoscenza della storia russa da Pietro il Grande (1672-1725) ad oggi, intrecciata con quella europea, quanto dall’autoritarismo dell’attuale leader, sia pure derivante dal voto popolare ottenuto in elezioni abbastanza regolari. Che questo atteggiamento contrasti con la posizione ufficiale del governo italiano fino ad oggi e con le sanzioni economiche verso la Russia non deve fare velo al nostro giudizio perché che l’odierna Russia vada recuperata all’Europa, nel nostro interesse, credo sia una esigenza storica, tanto più urgente, anche da un punto di vista strettamente numerico, in quanto i suoi circa 150 milioni di abitanti, con il suo P.I.L., andrebbe a sommarsi ai 515 milioni dell’Unione Europea, in evidente crisi demografica, surclassati dall’Africa e dall’Asia, con i due giganti Cina ed India, ciascuno con oltre un miliardo di abitanti, e facenti parte di quel gruppo di paesi, il BRICS, le cui economie sono pure in sviluppo.
Guardare anche oggi sulla carta geografica la Russia estesa per migliaia di chilometri con la Siberia confinante in particolare con la Cina, anche se la popolazione di quella vasta area è meno di un terzo di quella complessiva, ed anche l’economia è ancora poco sviluppata ed i trasporti terrestri si reggono ancora sulla centenaria Transiberiana, potrebbe dare all’Europa una certa tranquillità, anche sul terreno economico se avvenisse un maggiore sfruttamento di parte di queste enormi estensioni. Ma recuperare e reinserire la Russia, fermo restando le nostre tradizionali alleanze e la NATO, sarebbe il ritorno a quel grande concerto europeo dove l’impero zarista ebbe, fino al tragico 1917, un ruolo estremamente importante toccando il culmine nel 1815 con la sconfitta di Napoleone, l’ingresso a Parigi dell’Imperatore Alessandro I (1777-1828) ed il successivo Congresso di Vienna, per non parlare delle sue vittoriose guerre contro l’Impero Ottomano, che portarono alla indipendenza della Grecia, della Serbia, della Bulgaria, dell’Albania e della Romania, tutte via via sottratte al dominio turco nel corso dell’Ottocento. Ruolo imperiale e di patrocinio su tutto il mondo slavo ed ortodosso, che fu in parte bloccato dalle altre potenze europee, vedi la guerra di Crimea, nella quale seppe intelligentemente inserirsi anche il Regno di Sardegna, gelose di una eccessiva espansione russa e di un suo sbocco nel Mediterraneo, ma che dopo il 1878 ed il Congresso di Berlino assicurò all’Europa fino al 1914, 36 anni di pace e di sviluppo in tutti i settori.
Ed in questo periodo coincidente con il XIX secolo, la sua cultura, specie nel campo letterario e musicale si intreccia con le altre culture europee, avendo autori la cui fama oltrepassa le frontiere ed i suoi Puskin (1799-1837), Gogol’ (1809-1851), Turgenev (1818-1883), Dostoevskj (1821-1881), e poi Tolstoi (1828-1910) e Cechov (1860-1904), forse superano anche i grandi contemporanei inglesi, francesi e tedeschi, come romanzieri e commediografi, ed egualmente i Glinka (1804-1857), Borodin (1833-1887), Balakirev (1837-1910 ), Cajkovskj (1840-1893), Musorgskj (1839-1881), e poi Rimskj – Korssakov (1844-1908) e infine Stravinskij (1882 – 1917) nel campo musicale si battono quasi alla pari con i musicisti francesi, italiani e tedeschi.
Solo con la caduta dello Zar ed il sanguinoso avvento del comunismo, la Russia, divenuta Unione Sovietica, esce dal concerto europeo, ne diventa estranea, anzi avversaria, costituisce una alternativa ed una minaccia alle altre potenze ed anche quando deve nuovamente allearsi nel 1941 con Regno Unito e Stati Uniti, per respingere l’offensiva hitleriana, dopo l’alleanza del 1939, e vinta la guerra allarga il suo potere dispotico sull’Europa Orientale compresa anche parte della Germania ponendosi dovunque nel mondo, come rivale degli USA, divenuti potenza egemone dell’Occidente.
La caduta del regime sovietico, nel 1991, perciò ha riaperto la possibilità di questi rapporti, anche se dobbiamo riconoscere la difficoltà, dopo 74 anni di comunismo, di una vita parlamentare e democratica eguale a quella dei principali paesi europei. Inoltre per capire il suo attuale nazionalismo è da considerare lo “shock” subito dal normale cittadino russo, dopo il 1991, con la libertà ed indipendenza ripresasi dalle tre repubbliche baltiche, Estonia, Lettonia, Lituania, che avevano vissuto appena un ventennio da stati sovrani dal 1918 al 1939, la indipendenza di alcuni antichi stati caucasici cristiani, nonché delle repubbliche mussulmane, vecchio frutto delle conquiste zariste, il distacco successivo, ancor più doloroso, della Ukraina e le rivolte terroristiche e secessioniste della Cecenia, di fronte alle quali non poteva non esserci una durissima repressione da parte del governo.
Su di un altro piano a non facilitare i rapporti si sono aggiunte più recentemente il distacco della Crimea dall’Ukraina, la lacerazione nella stessa Ukraina tra fautori della indipendenza e nostalgici dell’antica unione, alcuni attentati alla vita di oppositori della attuale presidenza, ma tutto questo se non va sottovalutato e se deve essere rimarcato, non può e non deve impedire il discorso a più largo raggio per il ritorno a rapporti amicali con la Russia, che non deve sentirsi assediata ad Occidente quando ha da sorvegliare migliaia di chilometri di frontiere ad Oriente.
9 giugno 2018

I REGNI DI NAPOLI E DI SICILIA : Un Mezzogiorno senza sole
di Domenico Giglio

Oltre alla attuale continua polemica neoborbonica antirisorgimentale ed antisabauda,vi è anche una contestazione di fondo del processo unitario, parlandone come di una “conquista” di Regni che avevano avuto settecento anni di storia e di autonomia. Bene togliamo al 1860 settecento anni ed arriviamo al 1160. Effettivamente con i Normanni, si era stabilito da circa un secolo un regno in Sicilia, riconquistata agli arabi, e nell’Italia Meridionale. Vi era dunque un Re, ma la dinastia, gli Altavilla, era, all’origine, una dinastia di conquistatori, venuta dall’Europa del nord, anche se presto acclimatatasi e con alcuni Sovrani saggi amministratori. Su questo ceppo si innestò, per via matrimoniale, un’altra dinastia straniera, gli svevi Staufen, ed in Italia, nelle Marche, a Jesi (1196), nacque il futuro Federico II, figlio “?della gran Costanza -, che del secondo vento di Soave -, generò il terzo ed ultima possanza” (Dante: Paradiso- canto III). Effettivamente chiamato “puer Apuliae”, il giovane svevo, cresciuto ed educato sotto la guida di un grande Pontefice, Innocenzo III, dei Conti di Segni, Papa dal 1198 al 1216, anno della sua morte, può essere ritenuto più italiano dei suoi predecessori e non a caso sotto di Lui si svilupperà la “Scuola poetica siciliana”, in lingua “volgare”, e lui stesso forse poetò “?di mio amor vo’ che si ammanti,-e portine ghirlanda”, oltre a scrivere in latino il famoso trattato sulla “falconeria”. Ed è con questo Imperatore, “stupor mundi”, “loico e clerico grande”, come lo definì Dante nel Convivio, con la sua legislazione, le “Costituzioni Melfitane”, la fondazione dell’Università a Napoli, che ancor oggi porta il suo nome, il nuovo vigore dato alla Scuola Medica Salernitana, la costituzione di una “Magna Curia”, che riuniva il fior fiore delle intelligenze del Regno, precorrendo quasi le corti del Rinascimento, con la rinascita di una scultura classicheggiante, per non parlare dell’architettura e dei suoi grandi castelli, che l’Italia Meridionale ebbe i suoi indiscutibili primati e funzionari meridionali imperiali, specie pugliesi, furono mandati a governare città del settentrione. “Ahi troppo breve stagione!” quella di Federico. Incoronato nel 1220, mancato nel 1250, a Castelfiorentino, in quella Puglia che amava, e con la morte, a cui molti non credettero, così che nacque la leggenda del suo ritorno, cadeva anche la sua determinazione di fare un’Italia unita, per la quale aveva cozzato per decenni contro l’implacabile azione contraria svolta dal Papato, per motivi politici e non religiosi. Così un Papa Francese, Clemente IV, chiamò in Italia un principe anche lui francese, Carlo d’ Angiò, e lo scagliò contro il suo successore, Manfredi, il figlio naturale avuto da Federico, con Bianca Lancia, e quindi ancor più italiano del padre, che fu sconfitto ed ucciso nella famosa battaglia di Benevento nel febbraio del 1266, a cui Francesco Domenico Guerrazzi dedicò uno dei più famosi romanzi storici scritti nel XIX secolo ed a cui Dante, rese giustizia nel Canto Terzo del Purgatorio. Con la caduta degli Svevi si interrompeva per seicento anni il sogno unitario e l’ago della bussola della cultura e delle arti si orientava verso il Nord. Nel grande regno federiciano, per diritto di conquista e con vassallaggio alla Chiesa, si insediarono gli angioini, che a causa dei “Vespri siciliani”, persero fin dal 1282 la Sicilia passata agli aragonesi, che successivamente acquisirono anche il trono di Napoli, con Alfonso il Magnanimo (1396-1453), quinto per l’Aragona e primo per Napoli. Come lui, anche altri Sovrani erano stati o furono saggi e prestigiosi, ma erano pur sempre principi stranieri. Poi per oltre cento anni si ebbero i Viceré spagnoli, senza che mai sorgesse una famiglia nobile meridionale che si proponesse come alternativa. Le congiure baronali furono numerose, ma mai che avessero uno scopo liberatorio dal potere straniero ed un fine unitario, ed anche quando, nel 1647, fu il popolo ad insorgere con Masaniello, l’esperimento durò lo spazio d’un mattino e finì con l’uccisione dello stesso capopopolo. E se vi fu un risveglio, tra la fine del 1600 ed i primi del 1700 di studi storici, economici ed amministrativi lo stesso, massimi esponenti Giambattista Vico (1668-1744), e Pietro Giannone (1676- 1748), e da lui venne una schiera di “innumerevoli giannonisti, difensori costanti e intrepidi dei diritti dell’uomo”, fu una fioritura spontanea, non collegata né promossa dai governanti succedutisi in quel periodo, e Napoli, per virtù propria, rappresentò la sede in Italia, come già nel lontano passato, del pensiero e della filosofia, come rileva e scrive Benedetto Croce.
Poi succedette qualche decennio di vicereame asburgico ed infine, nel 1734, la conquista da parte di una nuova dinastia straniera, i Borbone con Carlo III, l’unico a cui si devono importanti realizzazioni in ogni campo, i cui discendenti regnarono fino al 1861, per 127 anni. Tornati Napoli e Sicilia a Regno, questo reame era veramente indipendente? Legato dinasticamente alla Spagna fino alla fine del diciottesimo secolo quale politica autonoma poteva avere? E dopo? Alla Spagna subentra l’Inghilterra che salva il trono dei Borbone dalle invasioni francesi, trasferendo Ferdinando IV, in Sicilia, a Palermo, dove non era mai stato, e dirigendone la politica. E ancora dopo il rientro a Napoli nel 1815, come Ferdinando I delle Due Sicilie, l’Austria manda e mantiene per anni le sue truppe onde evitare la costituzionalizzazione del Regno, concessa e poi tradita. Ed anche quando sale al trono nel 1830 un giovane, Ferdinando II, non trova una classe dirigente altrettanto giovane di età ed idee perché i suoi predecessori avevano scavato un fossato all’epoca, dal 1799 al 1821, con la classe intellettuale, per cui troviamo nel governo e nell’esercito anziani aristocratici e generali, senza particolari slanci, spirito di iniziativa, volontà realizzatrice. E lui stesso approfondisce il fossato con l’intellettualità liberale nel 1848. Dicono ci fossero le migliori leggi, ma quale era la loro applicazione? Dicono ci fossero progetti di strade, porti, ferrovie, dopo la prima modesta realizzazione della Napoli-Portici, 8 chilometri, nel 1838, ma quando furono realizzati? E a fronte di una minoranza culturalmente valida, una percentuale di analfabeti con punte del 90%.Che conta poi che Napoli fosse la città più popolosa d’Italia quando vi regnava miseria di molti e nobiltà di pochi.
Settecento anni di storia, ricca di personaggi, di guerre, di rivolte ed altri eventi, ma quale autonomia politica e statale dopo il 1266? Certamente il processo unitario risorgimentale non fu facile, anche se lo stesso aveva avuto proprio nel Mezzogiorno precursori e protagonisti non certo secondari; certamente nel fenomeno del brigantaggio che era endemico da secoli, si inserì, anche largamente finanziata, la componente legittimista borbonica costringendo il giovane Stato Italiano ad intervenire con durezza per diversi anni, circa un quinquennio dopo il 1860, ma nel frattempo e via via sempre più negli anni successivi si costruirono strade e ferrovie, diminuì l’analfabetismo, si combatterono malattie storiche, ma soprattutto si consentì in tutti i campi quella libertà di pensiero e mobilità di ingegni, che era mancata, se non combattuta nel periodo borbonico, specie per i pensatori politici. Così fin dalla nascita del Regno d’Italia e specialmente dopo il 1870, con Roma capitale, uscendo dal provincialismo e dall’isolamento scrittori come Verga, De Roberto, Capuana e poi d’Annunzio e ancora Pirandello, furono conosciuti, apprezzati, editi in tutta l’Italia, così musicisti come Leoncavallo e Cilea, pittori come De Nittis, Palizzi, Morelli, Gigante, Michetti, scultori come Gemito ed infine nel campo degli studi storici Volpe e Rodolico, in quelli filosofici Spaventa, Gentile, Croce, pure storico insigne, ed infine, ma non certo ultimi per importanza, politici come Crispi, Amari, De Sanctis, Settembrini, Nicotera, Mancini, Fortunato e poi Di Rudinì ( in misura minore), Nitti, Di San Giuliano, Salandra, Orlando, militari come Cosenz, Pollio e Diaz, assunsero, per limitarci al primo cinquantennio dell’Unità, a ruoli ed incarichi della massima importanza e responsabilità nella vita nazionale, elevando il livello intellettuale, culturale e sociale dell’Italia e facendo finalmente risplendere il sole del, e sul, nostro Mezzogiorno.
3 giugno 2018

Bibliografia :
1)              Benedetto Croce, “Storia del Regno di Napoli”, Laterza, Bari, 1958
2)              Benedetto Croce, “Uomini e cose della Vecchia Italia”, Laterza, Bari, 1956
3)              Elena Croce, “La Patria Napoletana”, Adelphi, 1999
4)              Niccolò Rodolico, “Storia degli Italiani”, Sansoni, 1954
5)              Gabriele Pepe, “Lo stato ghibellino di Federico II”, Laterza, Bari, 1951
6)              Eucardio Momigliano, “Federico II di Svevia”, Mondadori, Milano, 1948
7)              Ernst Kantorovicz, “Federico II Imperatore”, Garzanti, Milano, 2000
8)              Luigi Salvatorelli, “Storia d’Italia Illustrata- L’Italia Comunale”, vol. IV, Mondadori, Milano, 1940
9)              Nino Valeri, “Storia d’Italia Illustrata-Signorie e Principati”, vol, V, Mondadori, Milano, 1949
10)            Alessandro Visconti, “Storia d’Italia Illustrata – L’Italia nell’epoca della Controriforma, Mondadori, Milano, 1958
11)            Franco Valsecchi, “Storia d’Italia Illustrata – L’Italia del Settecento”, Mondadori, Milano, 1959
12)            Indro Montanelli, “Storia d’Italia”, vol. 1, anno 476-1250, vol. 2, anno 1250 -1600, vol. 3, anno 1600 -1789, “Corriere della Sera”, Milano, 2003
13)            Indro Montanelli, “L’Italia Giacobina e Carbonara – 1789- 1831”, Rizzoli, Milano, 1978
14)            Indro Montanelli, “L’Italia del Risorgimento – 1831-1861”, Rizzoli, Milano, 1978
15)            Francesco Flora, “Storia della Letteratura Italiana”, 5 volumi, Mondadori, Milano, 1947
16)            G. Edoardo Mottini, “Storia dell’Arte Italiana”, 2 volumi, Mondadori, Milano, 1949

2 giugno: Italia, l’unità e la fazione
di Salvatore Sfrecola

Oggi non si può fare a meno di ricordare quanto ha scritto Indro Montanelli, giornalista e storico raffinato, nell’avvertenza al suo volume “L’Italia della Repubblica”, da poco tornato nelle librerie e nelle edicole ad iniziativa del Corriere della Sera: “di coloro che avevano votato Repubblica? pochissimi si erano resi conto che, con la Monarchia, l’Italia rinnegava il Risorgimento, unico tradizionale mastice della sua unità? scomparso anche quello, il Paese era in balia di forze centrifughe che ne facevano temere la decomposizione”.
Profetico il toscanaccio. Infatti così è avvenuto. Al potere le forze politiche che non avevano partecipato al processo di formazione dello Stato unitario, i comunisti ed i democristiani, anche se il mondo cattolico ha contato nel corso dell’epopea risorgimentale figure illustri di patrioti, i valori unitari cementati dal pensiero degli intellettuali e dal sacrificio dei combattenti sono stati sistematicamente e progressivamente oscurati anche nel linguaggio comune. Bandita la parola Patria, l’Italia è soprattutto il Paese (solo a volte con la “P” maiuscola), mentre anche i simboli che identificano lo Stato sono trascurati, quando non vilipesi, come la bandiere esposte in dispregio delle regole stabilite dalla legge, spesso ridotte a brandelli sudici, esempio particolarmente negativo quando quella miserevole condizione avviene dinanzi alle scuole, laddove si dovrebbero formare i futuri cittadini. Cosa possono pensare quei giovani dello Stato e della identità italiana se le scuole pubbliche vilipendono la bandiera?
È, dunque, certamente meritevole l’iniziativa legislativa della Lega, oggi al Governo insieme al Movimento 5 Stelle, che dispone il ripristino dell’insegnamento dell’Educazione civica nelle scuole abbandonata da tempo. Con l’occasione – e qui non serve una legge ma una iniziativa del nuovo ministro della pubblica istruzione Prof. Bussetti – andrebbero rivisti i programmi di storia il cui insegnamento è oggi relegato in una condizione assolutamente inadeguata. Cominciarono nel 1968 a dire che si doveva contenere il nozionismo, che erano irrilevanti le date ed i nomi dei protagonisti della storia. Con la conseguenza di una gravissima incertezza che annulla ogni interesse a conoscere e a capire. Storia, va detto, che non è solo quella politica, diplomatica e militare. Perché in ogni settore della conoscenza la storia è fondamentale, nell’arte, in primo luogo, e, quindi nell’architettura e nella medicina, anche per capire come nelle varie discipline si è evoluta la conoscenza e la sua applicazione. La storia per imparare anche che ci si deve avvicinare alla conoscenza con una buona dose di umiltà, senza la quale non si ha stimolo ad indagare e apprendere.
Fermo restando, dunque, che la scuola deve preparare alla vita, come dal titolo di un bel libro coordinato da Paola Maria Zerman (Dalla scuola alla vita, editore Pagine) al quale hanno contribuito studiosi e professioni di tutte le discipline, ricorda Luciano Canfora (Gli antichi ci riguardano, Il Mulino) “dentro la cultura classica vi è il cemento dell’unità nazionale, il nesso che mantiene insieme il “corpo della nazione”, secondo le parole di Villari”. E continua: “quando Coppino (Ministro dell’istruzione, n.d.A.) spiega al re nel 1867 i programmi scolastici, rispondendo alla domanda cosa inserire nei programmi del greco e del latino vista l’importanza e la centralità di quegli insegnamenti, già tratteggia un ‘canone'”. Cioè spiega, “che vuol dire “canone”? Gli autori che non si possono non leggere, che si debbono leggere”. Canfora cita anche Antonio Gramsci: “il latino non si studia per imparare a parlare in latino ma per imparare a studiare”.
Insomma, abbiamo svilito la scuola per motivi ideologici, per cancellare la nostra identità che si ricava da secoli di cultura. Sinistre in testa, per combattere i borghesi. Il risultato è una scuola classista perché chi può (compresi i sinistri) fa studiare i figli in costosi istituti privati in Italia o all’estero. I figli del popolo minuto restano nelle scuole pubbliche dove insegnano i sessantottini, quelli che si sono laureati con il diciotto politico studiando poco per cui poco hanno da insegnare.
Nel degrado generale dei valori della identità non sappiamo neppure quando e come è nata l’Italia. Con la legge del 23 novembre 2012, n. 222, relativa alle “Norme sull’acquisizione di conoscenze e competenze in materia di «Cittadinanza e Costituzione» e sull’insegnamento dell’inno di Mameli nelle scuole”, all’art. 1 si legge che “La Repubblica riconosce il giorno 17 marzo, data della proclamazione in Torino, nell’anno 1861, dell’Unità d’Italia, quale “Giornata dell’Unità nazionale, della Costituzione, dell’inno e della bandiera”, allo scopo di ricordare e promuovere, nell’ambito di una didattica diffusa, i valori di cittadinanza, fondamento di una positiva convivenza civile, nonché di riaffermare e di consolidare l’identità nazionale attraverso il ricordo e la memoria civica”.
Belle parole alle quali, come spesso accade, non segue nulla, come tutti possono constatare. Sarebbe dovuta essere, il 17 marzo, la festa dell’unità nazionale. Si sarebbe potuto scegliere il 4 novembre quando con Trento e Trieste l’Italia ha raggiunto i confini che la natura le ha assegnato. Invece si festeggia una ricorrenza, il 2 giugno che – comunque la si intenda – ha diviso a metà gli italiani, anche a ritenere autentici i dati del referendum.
2 giugno 2018

Modeste proposte per governare
di Salvatore Sfrecola

Mi è capitato fra le mani in questi giorni un volumetto di Giuseppe Prezzolini al quale ritorno spesso perché suggerisce sempre importanti riflessioni: “Modeste proposte scritte per svago di mente, fuoco di sentimenti e tentativo di istruzione pubblica degli italiani”. Acconcio all’attuale momento storico, certamente straordinario, espressione di una svolta politica significativa, un governo nel quale due forze politiche, il Movimento 5 Stelle e la Lega, non più a Nord ma espressione, per come l’ha costruita in questi anni Matteo Salvini, degli interessi generali degli italiani.
È evidente che, assai più del M5S, che ha impostato la sua campagna elettorale in vista delle elezioni del 4 marzo, in forma di protesta generalizzata nei confronti della realtà politica ed economica italiana fortemente deludente, la Lega ha saputo assumere, pur avendo prevalentemente personale politico proveniente dalle regioni del Nord, una connotazione nazionale grazie all’azione di Matteo Salvini, del gruppo parlamentare di Camera e Senato e delle iniziative assunte nelle realtà locali da personaggi che hanno saputo valorizzare nella loro azione politica l’attenzione agli interessi economici e sociali dei territori.
Oggi inizia l’avventura, certamente esaltante per i partiti che hanno formato il governo e per gli uomini impegnati nei vari ministeri, una esperienza che, tuttavia, si scontrerà subito con la realtà della burocrazia, che peraltro abbiamo più volte descritto. L’Amministrazione pubblica italiana, che si avvale in ogni settore di riconosciute eccellenze professionali ,è, complessivamente considerata, assolutamente inadeguata al momento storico. E ancor più alla richiesta di novità che emerge dal programma di governo. Perché sappiamo che la sua realizzazione richiederà modifiche normative riguardanti l’organizzazione dei ministeri, la normativa sostanziale da applicare, quella procedimentale, l’adeguatezza degli uomini e delle disponibilità finanziarie. Nel senso che il migliore programma di questo mondo non potrà essere percepito dai cittadini se non sarà possibile per essi verificare, con immediatezza, l’effetto delle decisioni assunte. Infatti l’esperienza ci insegna che i programmi governativi spesso sono stati frustrati da normative confuse, delle quali non era stata evidentemente fatta una simulazione degli effetti, con la conseguenza di una eccessiva dilazione nel tempo delle realizzazioni. Ciò in quanto il legislatore italiano sovente ricorre a norme di delega che richiedono provvedimenti delegati, i cosiddetti decreti legislativi, regolamenti e infine circolari applicative. Accade così, è accaduto quasi sempre così, che norme attese da tempo non siano entrate in vigore nei tempi richiesti, perché il cittadino o l’imprenditore ne percepisse l’utilità a causa di questa sovrabbondanza normativa che fra leggi, regolamenti e direttive ministeriali, da interpretare sulla base di circolari hanno impantanato l’azione della pubblica amministrazione. Si è parlato più volte di compilare testi unici, strumenti essenziali di rappresentazione della normativa vigente in molte materie, ma non se ne è fatto nulla.
È quindi indispensabile che la prima preoccupazione del nuovo governo nel suo complesso e dei singoli ministri, sia quella di fare un check-up dello stato della normazione e della organizzazione amministrativa. Perché in alcuni casi sarà necessario introdurre nuove norme, delle quali si dovrà aver cura che siano facilmente applicabili, mentre si dovrà verificare la praticabilità delle procedure in atto presso le singole amministrazioni per accertare se sono adeguate o meno alle esigenze di funzionalità richieste.
Non è cosa di poco conto, perché i cittadini che attendono dal governo quelle novità che li hanno indotti a votare per i partiti che ne fanno parte, attendono con immediatezza le novità. Ed io più volte ho segnalato l’esigenza che i cittadini e le imprese percepiscano immediatamente che qualcosa di nuovo è all’orizzonte, anzi che già si concretizza, si realizza attraverso l’adozione di provvedimenti in tempi brevi. Il tempo, a volte l’Amministrazione non lo considera, è essenziale ed è un costo per le persone e per le imprese. Purtroppo finora si è potuto constatare l’incapacità della classe politica rispetto a queste esigenze del tutto trascurate, forse perché da troppi anni abbiamo portato al Governo e in Parlamento persone di modesta esperienza e professionalità che mai hanno svolto o anche solo osservato le attività che nella loro responsabilità politica e di governo devono gestire.
Serve modestia, quella che dimostra l’intelligenza delle persone che si fermano per capire, per elaborare un’idea nuova per poi ripartire con maggiore slancio e con maggiore consapevolezza delle possibilità di realizzare ciò che si è promesso.
1 giugno 2018

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