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Le toghe rosse rifiutano il sorteggio

Le toghe rosse rifiutano il sorteggio per tenere in scacco la politica

La Guglielmi, segretario di Magistratura Democratica, spara sulla riforma del CSM: “Rischiamo di essere subalterni all’esecutivo”. Nonostante il caos correnti, l’idea del giudice “creatore di diritto” è dura a morire

di  SALVATORE SFRECOLA

Se qualcuno avesse ancora dei dubbi sul ruolo “politico” delle correnti organizzate nella Magistratura, a fugarli ci ha pensato Maria Rosaria Guglielmi, Segretario Generale di Magistratura Democratica, certamente la più ideologizzata, definita da Armando Cossutta, storico leader del P.C.I., “componente marxista e classista”, la cui azione, secondo uno dei suoi più noti esponenti, Livio Pepino, “è consistita nella traduzione, sul piano giurisprudenziale, delle posizioni di non subalternità al sistema, di rifiuto della falsa neutralità”. Per “la promozione di scelte giudiziarie nelle quali si affermi la prevalenza degli interessi funzionali all’emancipazione delle classi subalterne, cui del resto la Costituzione accorda specifica tutela, sugli interessi ad essi virtualmente contrapposti e che non sono protetti da analoga garanzia costituzionale”.

Intervenuta su La Repubblica, nel dibattito sulle ipotesi di modifica del sistema elettorale per la scelta dei componenti togati del Consiglio Superiore della Magistratura, la Guglielmi ha sparato a zero sulla proposta di scegliere la componente magistratuale mediante sorteggio avanzata da più parti, da La Verità, fin dal 9 giugno, e dal Ministro della giustizia Alfonso Bonafede che vi sta lavorando.

L’ipotesi di sorteggio vuol essere una risposta alla distorsione che all’esercizio delle attribuzioni del CSM, individuate nell’art. 105 Cost. (assunzioni, assegnazioni, trasferimenti, promozioni e procedimenti disciplinari), è derivato dal ruolo che hanno assunto le correnti organizzate. Queste scelgono i candidati, contribuiscono alla loro elezione e, quindi, influiscono sulle decisioni che nel Consiglio vengono assunte dagli eletti, indotti a scegliere per posti direttivi nelle Procure, nei Tribunali e nelle Corti d’appello colleghi appartenenti allo stesso orientamento ideologico. Lo dimostra la Guglielmi per la quale l’ipotesi di sorteggio “sovverte del tutto il senso della rappresentanza come aggregazione su idee e visioni diverse (dal ruolo del magistrato nella società, alla modalità di amministrazione della giurisdizione, dal concetto di carriera a quello di dirigenza) e annulla ogni principio di responsabilità (a chi è come risponderanno delle loro scelte i “sorteggiati”?)”. Ed aggiunge che quella riforma costituirebbe “un passo decisivo verso la riduzione del ruolo del Consiglio che, trasformato in organo tecnico amministrativo e di mero governo del personale, è destinato inevitabilmente a essere subalterno alla sfera politica esterna e funzionale alla ristrutturazione in senso verticistico e burocratico dell’ordine giudiziario”.

Anche se all’esponente di MD non piace le attribuzioni del CSM sono amministrative, come abbiamo appena letto nell’art. 105 Cost. e sono di “governo del personale”, funzione per cui “la Magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere” (art. 104 Cost.). Ne consegue, sostiene il magistrato, che “riconoscere le degenerazioni correntizie, e impegnarsi a contrastarle, deve essere la premessa per rivendicare e difendere il ruolo che storicamente i gruppi hanno svolto nel creare una magistratura consapevole, in grado di portare nell’autogoverno il risultato di elaborazioni culturali collettive e di ritrovarsi unita, attraverso il confronto plurale e aperto, nella difesa dei valori costituzionali della giurisdizione”. Pepino immagina la magistratura come luogo di “pluralismo ideale e politico” che si esprime attraverso una interpretazione “creativa” del diritto, con buona pace della sua certezza. Per cui davanti al giudice non ci si deve preoccupare del suo indirizzo interpretativo ma della sua ideologia politica. Operazione “eversiva”, scrive Giuseppe Valditara, ordinario di diritto romano a Torino nel suo “Giudici e legge” (edito da Pagine nella Biblioteca di Storia e Politica diretta da Domenico Fisichella) quella dei giudici “creatori del diritto”. Ora la  “degenerazione correntizia”, la crisi “senza fondo”, come Ernesto Galli della Loggia ha commentato le intercettazioni che davano conto di accordi per nominare questo o quello a seconda del potere delle correnti, che Magistratura Democratica si impegnerebbe a contrastare nasce dal sistema elettorale che aggrega gli elettori sulla base “di idee e di visioni diverse”, sul ruolo del magistrato nella società, sulle modalità di amministrazione della giurisdizione. E alla Guglielmi che si chiede a chi risponderebbe il componente togato sorteggiato diremo che risponde alla sua coscienza di magistrato impegnato, in quel ruolo, a scegliere, senza condizionamenti correntizi, chi merita di ricoprire una determinata funzione per cultura ed provata esperienza professionale. Anche se di idee “politiche” diverse. Solo così gli italiani torneranno ad aver fiducia nella Magistratura il cui prestigio deriva dall’essere i giudici “soggetti soltanto alla legge” (art.101, comma 2, Cost.), con la conseguenza che, come si legge nelle aule di giustizia, “la legge è uguale per tutti”.

Ora, nessuno dubita che il magistrato, come iusperitum, abbia il diritto-dovere di approfondire idee e visioni sul ruolo delle regole del diritto sostanziale e processuale nelle quali si realizza la Giustizia. Può, quindi, ritenere opportune o necessarie riforme più adeguate al momento storico nel quale opera. Tuttavia questa sua opzione “politica” deve rimanere fuori della decisione che egli assume. Diversamente si farebbe egli stesso legislatore, cosa che non gli è consentita in un ordinamento liberale retto dalla regola della distinzione dei poteri: le leggi le fa il Parlamento, la Magistratura le applica, con il solo limite di sollevare eventuali questioni di costituzionalità ove ritenga che la norma sia in contrasto con regole della Costituzione.

Infine va detto che c’è un pericolo alle viste, che la degenerazione che tutti riconoscono possa provocare qualche riforma che limiti l’indipendenza dei giudici, un valore per tutti, il nucleo centrale della democrazia, anche quando nel caso concreto non fa comodo.

(da La Verità del 19 luglio 2019, pagina 13)

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