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Quando nei concorsi pubblici si richiedeva la “buona condotta”

Quando nei concorsi pubblici si richiedeva la “buona condotta”
di Salvatore Sfrecola

Un tempo, neppure molto lontano, per la partecipazione ai concorsi per l’accesso agli impieghi pubblici il candidato doveva allegare il certificato attestante la “buona condotta”. Lo stabiliva l’art. 2 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo Unico delle disposizioni concernenti gli impiegati civili dello Stato). Le Amministrazioni avevano, poi, la possibilità di accertamenti diretti. Ad esempio le amministrazioni militari acquisivano informazioni sulla persona, sulla famiglia e sull’ambiente anche per la partecipazione ai concorsi per allievo ufficiale di complemento. Fu così che un mio amico fu escluso dal concorso sulla base della informativa secondo la quale “ha rapporti con la Massoneria”. In realtà quei rapporti consistevano in una lettera che a lui, come ad altri giovani, era stata spedita in funzione promozionale da quella Associazione.

Al di là di un caso come quello appena ricordato le amministrazioni civili e militari vagliavano i requisiti professionali e morali dei candidati nell’ottica che persone legate a determinati ambienti, anche familiari, nei quali fossero presenti scommettitori, giocatori d’azzardo, protestati, ecc. fossero permeabili ad istanze illecite e, pertanto, meno indipendenti.

Il requisito non è più richiesto. Non deve stupire, pertanto, se tra i dipendenti pubblici, tenuti ad esercitare le loro funzioni con “disciplina ed onore”, come si legge nell’art. 54, comma 2, della Costituzione, emergono fatti delittuosi gravi, come la cronaca ci fa sapere: funzionari del fisco che s’intendono con gli evasori, funzionari che si fanno corrompere, carabinieri, poliziotti e finanzieri che spacciano droga, magistrati che si vendono le sentenze. Tutte situazioni che indignano i cittadini e riempiono di sdegno i colleghi onesti che rappresentano l’assoluta maggioranza dei corpi civili e militari dello Stato. Qualche mela marcia qua e là tra decine di migliaia di persone che ogni giorno fanno il loro dovere fino in fondo con personale sacrificio fino a mettere a repentaglio la stessa vita, come nel caso del giovane vice brigadiere Mario Cerciello Rega che abbiamo saputo essere anche un uomo dedito all’esercizio della carità nei confronti dei più bisognosi, fossero i senza tetto che dormono sotto la pensilina della Stazione Termini o i malati assistiti nei treni diretti a Lourdes, tutte attività che svolgeva come volontario del Sovrano Militare Ordine di Malta.

Perché l’Amministrazione oggi recluta persone delle quali non conosce i requisiti morali? Questo mentre le Prefetture adottano “interdittive antimafia” non solo in caso di coinvolgimento della persona in attività illecite ma anche sulla base di un semplice sospetto derivante dal fatto che una persona possa aver consumato un caffè con un compagno di scuola mai più visto dai tempi delle medie del quale siano note frequentazioni professionali o familiari sospette.

Come spesso accade in questo nostro Paese è difficile stabilire la misura giusta.

Tutto comincia da una interpretazione, a mio giudizio azzardata, della norma costituzionale sulla c.d. “presunzione di non colpevolezza” ricavata dall’art. 27, comma 2 (Responsabilità penale), secondo cui “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”.

Di conseguenza la normativa sul pubblico impiego, disciplinata dal D.Lgs. n. 165/2001, non prevede forme di esclusione per chi ha condanne penali non definitive o procedimenti penali in corso, mentre il D.Lgs. n. 39/2013 (inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le P.A.) prevede l’esclusione dagli incarichi pubblici per coloro che abbiano riportato condanne penali per i reati previsti solo dal capo I del titolo II del libro secondo del c.p. (Delitti contro la P.A.).

Al riguardo il Consiglio di Stato con la sentenza del 26.08.2011, n. 4812, ha affermato che “una condanna penale non è di per sé preclusivadella costituzione del rapporto di pubblico impiego; e ciò non solo perché con la legge 29.10.1984, n. 732 è venuto meno tra le condizioni per l’accesso al pubblico impiego il requisito della buona condotta (che poteva ritenersi escluso dalla condanna penale), ma soprattutto per la considerazione che, in conseguenza della pronuncia della Corte Costituzionale n. 971/1988, la sentenza penale di condanna, così come non può determinare l’automatica destituzione di diritto ex art. 85 T.U. agli impiegati civili dello Stato (richiedendosi a tal fine l’apertura del procedimento disciplinare), così non può considerarsi ostativa alla instaurazione del rapporto d’impiego. Una condanna penale può essere causa di esclusione dalla procedura concorsuale ove ad essa si accompagni una autonoma e specifica valutazione dell’Amministrazione sulla gravità dei reati commessi”.

C’è, dunque, una possibilità per l’Amministrazione di valutare le qualità morali del candidato, ma non le è consentito di prevedere nei bandi pubblici forme di esclusione per reati penali non confermati in sede di giudizio definitivo.

A questo punto mi sembra opportuno richiamare un fatto di molti anni fa, quando una Soprintendenza ai beni culturali aveva assunto come custode e guardia giurata di un’area archeologica una persona che, al momento del rilascio del porto d’arma, risultò essere stato condannato con sentenza passata in giudicato per furto di beni artistici. Si potrebbe dire, celiando, che era la persona adatta, che se ne intendeva. Fu licenziato ma poi riammesso in servizio dal locale Tribunale Amministrativo Regionale.

Non c’è dubbio che si debba trovare una giusta linea di equilibrio tra i diritti costituzionali della persona e l’interesse della P.A., cioè della comunità. È urgente, perché non capitino con la frequenza di cui la cronaca ci informa, fatti illeciti commessi da chi opera in nome dello Stato.

(da www.italianioggi.com7 agosto 2019)

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