sabato, Maggio 24, 2025
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La Scuola e il merito: quando di un 6 ti potevi gloriare

di Salvatore Sfrecola

Ricordo le polemiche politiche e di stampa seguite alla nuova denominazione del Ministero dell’istruzione alla quale è stato aggiunto “e del merito”. Tanto da “provocare lo sconquasso – come ha scritto Luca Ricolfi nell’Introduzione al suo “La Rivoluzione del merito” – il capovolgimento, il ribaltamento istantaneo… Di colpo, il merito ha cessato di essere il cavaliere buono che lotta contro il privilegio, per diventare il complice di ogni nefandezza e ingiustizia”. E ancor più le critiche alle prime dichiarazioni del Ministro Valditara, tutte più o meno dirette a negare che la scuola potesse valutare il merito, ritenuto selettivo, in una parola discriminatorio, che esclude invece di includere. Eppure l’art. 34, comma 2, della Costituzione stabilisce che “i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”.

Che senso ha, dunque, criticare il riferimento al merito strumento di elevazione di chi sta in basso. È mancanza evidente di percezione del ruolo che l’insegnamento impartito dalle scuole pubbliche deve avere, quello di formare i futuri professionisti, destinati a competere con altri italiani e con quanti, provenienti dall’Europa e da altri paesi, vengono nel Bel Paese a vivere ed a lavorare.

I nostri ragazzi che, secondo un’analisi di cui si è molto scritto, avrebbero, tra tutti i gli studenti europei, la più scarsa capacità di comprensione di un testo non possono essere svantaggiati rispetto ai loro coetanei perché qualcuno ha deciso che agli studenti non deve essere spiegato che non hanno imparato a sufficienza la lezione, che non sanno scrivere ed esprimersi in italiano corretto e far di conto.

Perché in quell’italiano nel quale non si sono esercitati con il classico tema si dovranno pur esprimere per scrivere una tesi di laurea, argomento sul quale ben sappiamo che qualche anno fa ben trecento professori universitari hanno firmato una lettera al Ministro segnalando che nelle tesi si rinvenivano errori non ammissibili in terza elementare. Parliamo della conclusione del più importante ciclo di studi a livello professionale. Quello necessario per ottenere un posto di lavoro al quale si presenteranno avendo redatto uno scritto o rispondendo a voce a domande intese a comprendere quali siano le loro aspettative di lavoro. E saranno tanto più apprezzati quanto meglio sapranno esprimersi. Poi una volta intrapresa la carriera una buona conoscenza della lingua non servirà solo ai letterati perché una relazione, con la quale si propone una iniziativa o si dà conto di un lavoro, è richiesta anche ai tecnici, ingegneri, fisici, geologi, medici e via discorrendo. E magari è proprio una bella frase, con aggettivi adeguati e qualche congiuntivo messo lì ad imbellire l’esposizione ad illustrare ciò che si espone che fa la differenza e che stimola l’attenzione e l’interesse di chi sente o legge.

Bene, dunque, ha fatto il Ministro Valditara a richiamare l’attenzione dei docenti e delle famiglie sulla necessità di impartire un insegnamento più adeguato alle esigenze della formazione. Ponendo l’accento su un maggiore impegno, quanto all’insegnamento della lingua e della cultura italiana, al ritorno agli studi delle poesie anche a memoria e all’attenzione ai riassunti che tutti noi abbiamo considerato un impegno faticoso ma che ci hanno insegnato a sviluppare una capacità di sintesi necessaria nei lavori scritti e nella esposizione orale. E, ancora, a studiare la storia per comprendere da dove veniamo e dove vogliamo andare. Ha scritto Luigi Einaudi che “ricordare quel che è vivo in noi del passato giova a conoscere il presente ed a preparare l’avvenire” aggiungendo che “però: ogni generazione deve risolvere i problemi suoi, che sono diversi da quelli di ieri e saranno superati e rinnovati dai problemi del domani” (Luigi Einaudi, “Italia dove vai? Cambiamento, opportunità e rischi per la società”, a cura di Gianpiero Gamaleri e Enrico Morbelli, introduzione di Roberto Einaudi, Armando Editore, Roma, 2025, pp. 91, € 12,00). La storia, inoltre, non è solo politica, diplomatica ed economica (Einaudi faceva spesso riferimenti alle esperienze del passato per segnalarne i successi e gli insuccessi) perché in ogni settore la conoscenza dell’evoluzione degli studi è essenziale, dalla filosofia alle scienze.

Tornando alle poesie, neglette da tempo, esse non solo arricchiscono la conoscenza della grande letteratura e dei valori civili e spirituali che i versi sottendono ma, se imparate a memoria, sono un esercizio importante per la mente. La misura della sua capacità è certamente una dote naturale di ciascuno ma l’esercizio è fondamentale per mantenerla ed arricchirla. Ed è una grande risorsa nella vita e nel lavoro. Inoltre, imparare a recitare una poesia è un modo di acquisire la consapevolezza di come sappiamo esprimerci in pubblico, anche se è quello limitato dei compagni di classe.

Insomma, nell’interesse dei ragazzi è bene che la scuola sia ragionevolmente severa, che faccia capire che non è un tempo inutile quello che si passa sui banchi di scuola. Ed i giovani che cambiano scuola alla ricerca di quella che immaginano più facile, si fanno male da soli perché non imparano a confrontarsi come dovranno fare spesso nella vita.

Quanto alla severità di un tempo, ricordo che il mio professore di italiano al liceo Tasso di Roma, ai tempi una delle scuole più severe della Capitale, un giorno mi disse “Sfrecola (ci dava del Lei) questa volta ha fatto vari errori di forma”. E prima che manifestassi la mia curiosità su una sentenza tanto severa aggiunse, facendomi vedere l’elaborato: “qui manca una virgola, là non era necessaria. E, poi, “soprattutto” è meglio sia scritto con due “t”, non sopratutto”. Tentai non una protesta, inimmaginabile all’epoca, ma una richiesta di spiegazioni. Alla quale il professore mi disse: “vede, se queste cose non gliele faccio osservare io nessuno lo farà mai più”. Sulle virgole ho mantenuto qualche dubbio, come sul “soprattutto” che il vocabolario indicava come con o senza le due “t” con la precisazione che quella che avevo usato era una forma desueta. Ed anche questo è stato per me un insegnamento.

Ho un buon ricordo di quelle indicazioni ed anche dei voti di quegli anni, di quei 6, un traguardo sempre ambito, che pochi oggi comprenderebbero quando fioccano i 9 e i 10 che confondono le idee. Ricordo un 6, che fu l’unico di tutta la classe, per una versione dal latino nella quale ero stato l’unico a tradurre una frase. “Beati i monoculi in terra caecorum”, commentò la professoressa. Fui onesto. Dissi che avevo trovato la frase tradotta nel Georges. Fui lodato ugualmente perché quel dizionario all’epoca famoso lo avevamo tutti ma i miei colleghi non avevano avuto la pazienza di consultare la voce di riferimento fino in fondo.

Ricordi di esperienze di vita che hanno lasciato un insegnamento. In primo luogo quello che la severità negli studi, che sia ovviamente un esercizio equilibrato e stimolante, induce ad apprezzare i progressi nell’apprendimento e fa comprendere che l’impegno scolastico non è fine a se stesso e deve aprire la mente anche a saperi diversi e complementari rispetto a quelli impartiti dai docenti ai quali, va detto, si deve la responsabilità del profitto dei loro allievi. Nel senso che se un ragazzo ha risultati insufficienti spesso vuol dire che il docente non ha saputo interessarlo, incuriosirlo quanto all’importanza della materia insegnata. Sarebbe comunque ingiusto fare di ogni erba un fascio, ma è evidente che anche la classe docente ha perduto lo smalto che aveva un tempo. Sarà per il 18 “politico” elargito a piene mani in una stagione che ha allevato molti dei professionisti di oggi ed ha mortificato la nostra cultura per iniziativa di quelli uomini di sinistra che, mentre smantellavano la scuola pubblica, inviavano i loro figli in costose scuole private in Italia e all’estero perché fossero all’altezza delle loro aspettative professionali.

Dunque, viva il merito!

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