di Salvatore Sfrecola
“L’Italia è Repubblica! Ancora una volta lo abbiamo sentito ripetere, tratto dalle cronache dei notiziari del giugno 1946. Ugualmente dai giornali, a festeggiare un risultato elettorale neppure scontato, anzi controverso, in una Italia appena uscita da una sanguinosa guerra civile, mentre in alcune aree del Paese persistevano violenze ed intimidazioni che hanno pesantemente condizionato l’esito del voto nel referendum istituzionale.
In un primo tempo sembrava certo che il risultato sarebbe stato diverso, in favore della monarchia, da ultimo ribaltato per l’apporto di voti sui quali molto si è parlato e dei quali non si è potuto effettuare un riscontro essendo state distrutte le schede. Sono note le polemiche che hanno seguito quell’evento. Ne hanno scritto politici e storici. E i dubbi non sono stati fugati. Si disse da molti che un “aiutino” la Repubblica lo aveva avuto e che era servito ad evitare la ripresa della guerra civile da parte dei partigiani comunisti ancora in armi.
Gli italiani ne avevano abbastanza di sangue e di polemiche. Ed erano tutti certi che quel gentiluomo del re Umberto II, che aveva appena assunte le funzioni, non avrebbe mai impugnato la spada per difendere un trono che la sua famiglia aveva donato all’Italia nel 1861, al termine di un impegno iniziato nel 1848 con lo Statuto concesso dal re Carlo Alberto che aveva anche dato il tricolore alle sue truppe in marcia contro l’armata dell’Impero austro-ungarico. Per “tentare” di fare l’Italia, ha scritto Silvio Bertoldi, ciò che sarebbe riuscito al figlio Vittorio Emanuele II.
Ebbene, è proprio al monumento al primo Re d’Italia, che è anche il simbolo dell’unità della Patria, nel ricordo dei sacrifici che furono fatti per realizzarla, come attesta il sacello che racchiude i resti del “Milite Ignoto”, che hanno preso avvio ieri mattina le celebrazioni per la festa della Repubblica, con la deposizione di una corona d’alloro da parte del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Qualche passo indietro le più alte cariche dello Stato, il Presidente del Senato, Ignazio La Russa, della Camera dei deputati, Lorenzo Fontana, il Presidente del Consiglio dei ministri, Giorgia Meloni, e il ministro titolare della difesa, Guido Crosetto.
È un segnale il cui significato non può sfuggire.
L’altare della Patria è il simbolo della continuità dello Stato, da quel 17 marzo 1861, in cui il re di Sardegna assunse la corona d’Italia, finalmente unita dopo secoli nei quali gli italiani erano stati “calpesti e derisi perché divisi”.
La memoria non si può cancellare. Festeggiare la Repubblica, evento che ricorda un momento nella storia d’Italia, non può farci dimenticare che lo Stato unitario è nato ben prima e che gli anni dal 1861 al 1946 non sono stati tutti da buttare, come potrebbe far ritenere il risultato del voto per la forma istituzionale dello Stato. Perché quel Regno nasceva, secondo l’auspicio del suo primo Presidente del consiglio, il Conte di Cavour, che tanto si era speso per realizzarlo, con l’ambizione di diventare un “grande Stato”. Come nel tempo hanno cercato di fare le classi dirigenti al governo, nella prospettiva coloniale di fine ‘800, in Etiopia, e dell’inizio del ‘900, in Libia. All’alba di quel secolo l’Italia realizzò anche importanti riforme di carattere sociale, volute dai governi Giolitti, sollecitati dal re Vittorio Emanuele III. Poi la “grande guerra degli italiani” che completò l’unità del Paese, con l’annessione di Trento e Trieste. E se la parentesi del Fascismo ci fa ricordare soprattutto la follia delle leggi razziali e quella, tragica, della guerra a fianco della Germania nazista, nondimeno l’Italia pre-Repubblica ha avuto una dignità che non può non rimanere nel cuore degli italiani. Per cui, senza escludere di festeggiare la Repubblica, sembrerebbe più opportuno, per valorizzare il senso della Nazione, ricordare, in primo luogo, il 17 marzo, quando l’Italia divenne Stato. Come, del resto, avviene dappertutto in quanto è una ricorrenza che tutti può accomunare, quella da ricordare, anche per dare il senso della continuità alla comunità costituita in stato agli occhi dei cittadini, di quanti ambiscono diventarlo e di quanti, da fuori, ci osservano. Il 17 marzo è oggi festa dell’unità e del tricolore. Quel giorno dovrebbe essere ricordato come si festeggia il 2 giugno.
Né sarebbe una decisione azzardata. In fin dei conti il Capo dello Stato ieri ha reso omaggio all’Altare della Patria, dinanzi al monumento a cavallo del suo primo predecessore, il re Vittorio Emanuele II, che della Patria è indubitabilmente uno dei padri, forse l’indispensabile, nel contesto degli eventi risorgimentali che furono un coro polifonico di patrioti di varia formazione politica e culturale che tuttavia trovarono sempre nel Sovrano sprone, suggerimenti o concreti interventi in funzione dell’unità degli italiani.