di Salvatore Sfrecola
Accade molto raramente che io non condivida le tesi del Professore Michele Ainis, illustre costituzionalista, attento alle vicende della politica e della legislazione, e di Filoreto D’Agostino, già Presidente di Sezione del Consiglio di Stato, giurista eminente, e mio amico. È accaduto nel caso della astensione dal voto referendario sollecitata da più parti e, in particolare, dalla Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, che per i due giuristi, i quali ne hanno scritto rispettivamente su La Repubblica e Il Fatto Quotidiano, sarebbe passibile della sanzione penale prevista dall’art. 98 del T.U. delle leggi elettorali, recepito dalla normativa referendaria. La norma prevede che “Il pubblico ufficiale, l’incaricato di un pubblico servizio, l’esercente di un servizio di pubblica necessità, il ministro di qualsiasi culto, chiunque investito di un pubblico potere o funzione civile o militare, abusando delle proprie attribuzioni e nell’esercizio di esse, si adopera a costringere gli elettori a firmare una dichiarazione di presentazione di candidati od a vincolare i suffragi degli elettori a favore od in pregiudizio di determinate liste o di determinati candidati o ad indurli all’astensione, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da lire 3000 a lire 20.000”.
Ora non è dubbio che il Presidente del Consiglio sia un pubblico ufficiale e che abbia invitato gli elettori all’astensione. Per Il Prof. Ainis e per il dottor D’Agostino quella indicazione costituisce violazione della norma appena richiamata.
La tesi non mi convince.
Dell’esercizio del voto considerato “dovere civico”, come si esprime l’art. 48, comma 2, della Costituzione, si è scritto molto. Anni fa, Mario Vinciguerra in un polemico libretto, “Il voto obbligatorio nel Paese dei balocchi”, aveva contestato questo dovere presidiato da una norma che, in caso di astensione dal voto, prevedeva che sul certificato penale fosse apposta la dicitura “non ha votato”, disposizione presto omessa dalla competente autorità che Vinciguerra invano aveva tentato fosse applicata nei suoi confronti, denunciandosi ripetutamente. Insomma, voleva che qualche giudice affermasse l’illiceità della sua mancata presenza al seggio.
Venendo, quindi, ai quesiti referendari che ci sono proposti dubito molto che, per effetto del richiamato art. 98, il comportamento della Presidente Meloni sia passibile della sanzione ivi prevista sulla base della considerazione che nello specifico voto referendario è richiesta, ai fini della validità del risultato, che abbia votato almeno il 50% più uno degli aventi diritto al voto. La ragione è evidente. Mentre nelle elezioni per il rinnovo di assemblee parlamentari, regionali e comunali, qualunque sia la partecipazione degli elettori il voto è sempre valido, l’abrogazione di una legge votata dal Parlamento richiede un consenso significativo. In questo contesto, non partecipare alla votazione è espressione di un diritto elettorale che, nel caso, si può manifestare anche astenendosi in quanto così si concorre a non raggiungere il quorum richiesto. Non mi convince, dunque, la tesi di D’Agostino il quale ragionando “su due dati apparentemente contrastanti: la previsione penalistica dell’articolo 98 da un lato e, dall’altro, l’inesistenza di sanzioni per il cittadino che si astiene dal voto” giunge alla conclusione che “i due profili -convivono perché coerenti a una visione democratica delle istituzioni, nella quale l’esercizio del voto come strumento per dotarsi di un’adeguata rappresentanza politica (elezioni) e del concorrere alla formazione e modificazione dell’ordinamento giuridico (referendum) è un valore fondamentale dell’intero assetto”. Con la conseguenza che “ogni atto che possa comprimere o inficiare la libera manifestazione del diritto di voto acquisisce notevole disvalore tale da imporre una grave reazione sanzionatoria, come nella previsione dell’articolo 98, preordinato a impedire ogni possibile alterazione della libertà di voto e del risultato elettorale riconducibile a chi, per la posizione ricoperta, possa in concreto incidere su quegli ambiti”.
La tesi non mi convince in ragione della richiamata regola – né potrebbe essere diversamente – che, in caso di votazione di un referendum abrogativo prevedendo un quorum per la sua validità riconosce il diritto di non votare perché non raggiungere quella misura dei votanti è un obiettivo che legittimamente si può porre qualunque cittadino e, quindi, anche il Presidente del Consiglio che non solo lo esercita astenendosi dal voto ma anche invitando a non votare. Infatti, non è “incoerente esaltare il concetto di nazione e poi invitare i suoi appartenenti a sottrarsi a un dovere che scaturisce proprio da quello”, una volta che abbiamo riconosciuto che anche l’astensione è espressione del diritto di partecipazione alla verifica referendaria.
Così è se vi pare.