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Dicembre 2009

Dialogo di fine anno
Il direttore e  Bruno Lago si confrontano sulla Giustizia e sulla responsabilità dei giudici

     Il 2009 lascia al nuovo anno una eredità pesante su vari temi, dell’economia soprattutto, per la crisi che ancora tarda a rientrare e che pesa sulle famiglie e sulle imprese. Ma vi sono anche nodi politici da tempo irrisolti, come quelli delle riforme istituzionali, necessarie ad avviso dell’uno e dell’altro schieramento, ma per le quali non si trovano soluzioni per i veti incrociati su alcuni spetti fondamentali.
     Uno di questi è il tema della Giustizia  che interessa i cittadini, soprattutto per quanto riguarda il processo civile. Ma ci sono anche conseguenze sul piano istituzionale quando soggetti che ricoprono cariche pubbliche elevate sono sottoposti ad indagini. Accade in tutto il mondo. In Israele il Premier Olmert è stato travolto da una questione di corruzione, nel Regno Unito alcuni personaggi dell’area governativa hanno dovuto lasciare i loro incarichi per irregolarità varie.
     Ovunque, come dimostra la storia, i rapporti tra Giudici e politici sono conflittuali. La classe politica non tollera il controllo della magistratura, assume di essere responsabile solo nei confronti dell’elettorato, trascurando di considerare che una cosa è la responsabilità politica, altra questione è quella del rispetto delle leggi.
     Che la giustizia sia in crisi, lo sanno prima di tutto i magistrati che si rendono conto di non poter dare una sentenza in tempi brevi a chi si rivolge ai Tribunali ed alle Corti per vedere riconosciuto un diritto o un interesse giuridicamente tutelato.
     Gravissima, in particolare, è la lentezza dei processi civili e di quelli amministrativi. La sentenza che arriva dopo anni non è buona immagine non solo della magistratura ma soprattutto dello Stato al quale spetta organizzare il servizio giustizia in modo da rispondere in tempi brevi alle istanze del cittadino e della società. E questo vale per il processo civile soprattutto.
     Ne parliamo con Bruno Lago, già dirigente della Banca Europea degli Investimenti, una lunga esperienza professionale nel settore della finanza.
     LAGO: Ho incontrato l’altro giorno l’amico P. Non lo vedevo da un anno. L’ho trovato invecchiato e stanco, in pensione da qualche tempo, un lampo nei suoi occhi nell’annunciarmi che era stato assolto in appello qualche giorno prima perché “il fatto non sussiste”. Per lui e per una schiera di colleghi, responsabili degli uffici fidi di varie banche. l’accusa di concorso in bancarotta per essere intervenute a sostegno di un gruppo immobiliare si è quindi disciolta come neve al sole dopo otto anni. Quindi l’intervento di sostegno da parte delle banche, qualche anno prima che il gruppo fallisse, è alla fine apparso per quello che in realtà era, non una manovra a scapito dei creditori.
     “E’ stata dura” mi dice l’amico P, “non puoi capire le tensioni di questi anni a cominciare da quando per non finire in galera abbiamo dovuto ammettere con i magistrati una serie di cose su consiglio degli avvocati. Oggi mi ritrovo con un esaurimento nervoso e un incubo ricorrente quasi ogni notte di essere aggredito, il che scatena una reazione motoria inconscia che mi fa scalciare mia moglie nel sonno! Ma tutto sommato mi è andata bene se penso a quanto successo qualche anno prima al mio vecchio capo, morto durante i domiciliari per problemi circolatori dovuti allo stress in una situazione analoga”.
     Secondo il commento di un illustre giurista difensore di un noto banchiere co-imputato,  non poteva che finire così un procedimento assurdo, un “teorema” giudiziario fasullo un po’ per imperizia dei magistrati nel comprendere le procedure delle banche e il mondo della finanza, un po’ forse per il desiderio di protagonismo nell’indagare illustri nomi del mondo dell’ imprenditoria, anche loro assolti in appello. O peggio ancora per la pretesa “di voler raddrizzare il legno storto dell’umanità”, secondo la  definizione di Piero Ostellino sul Corriere della Sera di qualche tempo fa, relativa all’atteggiamento di certi magistrati.
     SFRECOLA: Caro Bruno, la testimonianza del tuo amico e le considerazioni che aggiungi mettono a fuoco una serie di problemi della giustizia che è troppo semplice imputare ai solI magistrati, anche a quelli che possono apparire vittima di un certo “protagonismo” che mi rifiuto di credere sia un sentimento diffuso come pensa Ostellino. Per un motivo semplice. Perché, se può ritenersi che il magistrato che ha tra le mani il “caso” eclatante senta questa responsabilità e desideri definirlo approfondendo i fatti, mi sembra altrettanto evidente che un flop clamoroso a conclusione dell’inchiesta o del processo non dia lustro al P.M.  chi vede assolto l’imputato addirittura perché “il fatto non sussiste”.
     Il fatto è, invece, che i giudici e prima di loro i pubblici ministeri, per rimanere nel penale, si trovano a dover utilizzare strumenti normativi spesso inadeguati, soprattutto quando si tratta di questioni finanziarie nelle quali i comportamenti dei “colletti bianchi” sono spesso al limite della legalità, in quello spazio grigio nel quale una certa disinvolta gestione degli affari non assume le connotazioni del reato. Tutta la materia societaria è così.
   LAGO: “Il fatto non sussiste”: chi pagherà ora i costi di questo maxi-procedimento, chi pagherà per le sofferenze anche personali degli ex imputati e per i danni di immagine inflitti alle banche ? Nessuno, l’amara conclusione è che dopo tanti anni dal celebre film di Sordi “Imputato in attesa di giudizio” la situazione del sistema giudiziario italiano è ancora peggiorata.
     SFRECOLA: La giustizia, si è sempre detto, è espressione del potere punitivo dello Stato che la esercita attraverso i suoi giudici. Per cui è lo Stato che deve pagare in caso di detenzione ingiusta o di irragionevole durata del processo. E di fatto paga.
      Un tempo si paragonava la giustizia ad una spada senza elsa che ferisce anche chi la impugna.
     Quanto alle vicende che tu riferisci, ma più in generale alle grandi inchieste per corruzione che si concludono frequentemente con l’accertamento della prescrizione, si tratta di altrettante sconfitte per la giustizia ma devo anche notare che gli imputati il più delle volte cercano la prescrizione allungando i tempi del processo anziché una sentenza che accerti la loro innocenza.
     LAGO: In questa prospettiva le dichiarazioni pre-elettorali degli esponenti dell’ opposizione sul caso Mills – tutti uniti nel chiedere a Berlusconi di non andare in Parlamento a difendersi politicamente ma di avere il coraggio di farlo giudizialmente in tribunale rinunciando ai privilegi del lodo Alfano – appaiono ridicole e fintamente ingenue. Quale fiducia si può avere nei confronti di un sistema giudiziario dove i magistrati non sono di norma chiamati a pagare per decisioni sbagliate? Sono aspetti ben noti all’opinione pubblica che avverte il problema della politicizzazione della giustizia e la scarsa affidabilità in generale della macchina giudiziaria. Battere questi argomenti in campagna elettorale anziché collaborare a una riforma rischia perciò di rivelarsi una tattica suicida per l’opposizione.
     SFRECOLA: Questo che i magistrati non paghino non è esatto, è frutto di una visione parziale del problema. Anche nell’impiego pubblico e privato gli errori eventuali del soggetto che opera “in nome di o per conto di” ricadono sul datore di lavoro ente pubblico e impresa. Sarà poi all’interno della struttura che il dipendente, il quale ha causato un danno, magari perché l’ente ha risarcito il soggetto danneggiato, ad essere sanzionato disciplinarmente o patrimonialmente. È questo, ad esempio, il compito della Corte dei conti nell’ordinamento italiano.
     Ma è sempre necessario che chi ha sbagliato abbia posto in essere una condotta gravemente colposa, al limite del dolo. Una situazione che obiettivamente non è sempre facile riscontrare. Del resto la limitazione della responsabilità alla colpa grave è regola del codice civile (art. 2236) quando la prestazione “implica la soluzione di problemi di speciale difficoltà”. E non è dubbio che questa sia, in molti casi, la prestazione che il pubblico ministero o il giudice sono chiamati a dare.
     Cosa si vuole, che il magistrato paghi direttamente l’imputato o il convenuto o il ricorrente? Sarebbe un modo per paralizzare l’attività del giudice. Questo non vuol dire, ovviamente, che chi sbaglia per negligenza o imperizia non debba essere sanzionato. Ma questo è compito del Consiglio Superiore della Magistratura che deve accertare che il magistrato ha sbagliato per grave imperizia o negligenza. O sarà la Corte dei conti a chiedere il risarcimento del danno che lo Stato ha subito per effetto del comportamento illecito del magistrato.
     Ma, a proposito, forse che gli ordini professionali, degli ingegneri, avvocati, commercialisti, medici usano la mano pensante sui loro iscritti quando fanno crollare palazzi o ponti, tradiscono la fiducia dei clienti o mandano qualcuno al Creatore? Nei casi eclatanti, quando non è possibile negare l’evidenza, si limitano alla sospensione del professionista per il minimo indispensabile, spesso al termine di un procedimento mal gestito in modo da essere annullato in sede di ricorso.
     “Chi è senza peccato scagli la prima pietra”, dice Gesù nel Vangelo! Vogliamo lapidare solo i giudici?
     Grazie, caro Bruno, per aver favorito questo approfondimento. Certamente ne potremo parlare ancora nei prossimi mesi.
30 dicembre 2009

Gli auguri con firma a stampa
L’orda cafona
di Salvatore Sfrecola

     Torno anche quest’anno sulla abitudine, diffusa specialmente tra i politici, di inviare gli auguri o di rispondere con un biglietto che reca la firma a stampa.
     Non c’è nulla di più cafone e, diciamolo pure, di più stupido. Perché quel gesto è un raro esempio di freddezza in un rapporto che si vorrebbe cordiale, quasi affettuoso, come l’invio di un augurio per le festività di fine anno.
     Per parte mia, ma lo facciamo in molti, quando sospetto che la firma, che sembra scritta a penna, in realtà sia stampata, provo con il dito inumidito e se la scrittura non si macchia, la sentenza è inevitabile, il biglietto va cestinato e la persona cancellata dall’elenco degli amici o dei conoscenti.
     Di fronte a questa mia osservazione non vale dire che molti politici inviano centinaia, a volte migliaia, di biglietti. Non è una scusante, perché aggiungere una firma, anche in maniera sintetica, costa poco tempo e comunque vale la pena per chi fa dei rapporti interpersonali un momento importante della vita di relazione, come un politico, appunto. Senza dire che chi è organizzato ha certamente qualcuno in segreteria che sa imitare la firma. Un motivo in più per scartare chi tiene questo comportamento.
     Ricordo, all’inizio della legislatura, di aver scritto un biglietto di congratulazioni ed auguri ad un ministro, mio amico personale, con l’auspicio di un impegno nel delicato settore di competenza. Ho scritto, caro…ed fo firmato con il solo nome di battesimo. Mi sono visto recapitare un biglietto di ringraziamento interamente a stampa nel quale mi si dava del lei. Ho restituito il biglietto sottolineando in rosso i due svarioni, il lei e la firma a stampa. Aggiungendo che se in segreteria si affida questo delicato compito di relazioni personali a chi non capisce che se un collega dà del tu e firma con il solo nome è evidente che c’è un rapporto personale che esige un trattamento differenziato, quel collaboratore va licenziato. Il Ministro mi ha risposto scusandosi e giustificandosi, a parer suo, con l’argomento che aveva avuto più di settecento biglietti di congratulazioni per la nomina. Non ho replicato, ovviamente, ma non mi è sembrato un argomento valido per le ragioni e le considerazioni organizzative che ho fatto prima.
     Attendiamo, dunque, l’orda cafona anche quest’anno e già si sono distinti alcuni personaggi ai quali vengono attribuite ambizioni istituzionali. Che evidentemente poggiano su una insufficiente capacità di mantenere i rapporti ai vari livelli della società. O su una eccezionale considerazione di se stessi.
     Il senatore Giulio Andreotti, che ho più volte ricordato per la rapidità e la puntualità con la quale risponde di suo pugno, busta compresa, aveva l’abitudine di farsi radere nella barberia della Camera per avere occasione di incontrare i colleghi parlamentari e scambiare qualche parola con loro. Tempo prezioso, che aiuta nei rapporti personali e nella vita politica. Altre persone, altro stile.
30 dicembre 2009

La volgarità, il vuoto delle idee, la mancanza delle ragioni
di Salvatore Sfrecola

     La volgarità dilaga, non da oggi. In televisione, al cinema, nella comunicazione politica, nel linguaggio giornalistico. Non solo con la classica parolaccia, il turpiloquio, ma anche con i doppi sensi che puntano sull’oscenità per colpire l’attenzione di chi assiste allo spettacolo o legge uno scritto. Anche nei titoli, dei film e degli articoli di giornale, il doppio senso o l’assonanza la fanno da padroni. Come nella pubblicità, che ammicca al sesso, anche quando non ci “azzecca”, come si dice con espressione entrata nel linguaggio corrente.
     Così Ernesto Galli della Loggia, alla vigilia di Natale, in un editoriale sul Corriere della Sera che farà discutere, “Film, treni, riflessi di un paese – Parole vuote e un po’ ipocrite”, mette insieme situazioni diverse facendo risaltare un’abitudine certamente italiana (ma non escluderei che altri abbiano gli stessi “gusti”) in un Paese “per vocazione schizofrenico: dove è la regola fare d’ogni erba un fascio e dove però l’arte cavillosa del distinguo raggiunge vette sublimi; la patria del qui lo dico e qui lo nego (o perlomeno lo smentisco), delle apparenze che ingannano. Un Paese schizofrenico, appunto. E di conseguenza votato all’ipocrisia. Ipocrisia che si manifesta tra tanti altri ambiti anche nell’atteggiamento rispetto alla lingua, all’uso delle parole”. Perché, dice Galli della Loggia il Paese, la gente, direi io, ha l’abitudine “di non reagire”. E fa l’esempio della mancanza du reazioni pubbliche “all’ondata di doppi sensi osceni e di turpiloquio che in questi giorni si rovescia ad ogni scena sugli spettatori di “Natale a Beverly Hills”.” E si domanda “se esistano altri Paesi in cui, non un filmetto qualsiasi, ma la pellicola che si prevede come la più vista dell’anno, consista in pratica in una serie ininterrotta di volgarità condite di parolacce: una specie di lunga scritta oscena sulla parete del cesso d’una stazione”.
     Ciò che più stupisce l’editorialista del Corriere, e stupisce noi, è che “un simile film abbia incredibilmente ottenuto dalle competenti autorità ministeriali (come ha raccontato Paolo Mereghetti sul Corriere) la qualifica di film “d’interesse culturale e nazionale”, e dunque il diritto ai relativi benefici economici. Alla suddetta cultura nazionale, bisogna credere, il linguaggio crudo non dispiace”.
     Una critica è venuta, invece, e autorevole, da FareFuturo, la fondazione presieduta da Gianfranco Fini, che boccia il film: “Non ci si può stare… Speriamo che qualcuno dalle parti del ministero della Cultura possa rivedere un po’ le cose, o almeno provarci. Noi quest’anno, per protesta, il cinepanettone lo boicottiamo”.
Insomma, il ministero chiarisca perché darà dei soldi al produttore per un film miliardario che non è certo un prodotto culturale”.
     È una critica alla normativa ed a come è stata applicata che richiede autorevoli chiarimenti da parte del Governo.
     Quel che preme a me è formulare una considerazione della quale sono stato sempre convinto. La parolaccia, l’oscenità, per destare l’attenzione, per incassare consensi o denaro, come nel cinema o nel teatro, è prova di un’evidente mancanza di idee e di proposte concrete che possano sollecitare il pubblico ad una riflessione di maggiore significato culturale.
      Inoltre, anche nella commedia, in un genere teatrale destinato a minori stimoli e riflessioni, si può scherzare e sollecitare l’attenzione ed il sorriso della gente anche con battute che non si basino su parolacce e sulla volgarità dei doppi sensi, come hanno dimostrato illustri uomini di spettacolo.
     Per parte mia, nell’incontro con le persone ho sempre messo da parte chi racconta barzellette volgari, in particolare in presenza di donne, manifestazione evidente di disprezzo nei confronti delle stesse, o chi usa parolacce per dare una presunta maggiore incisività al discorso. Se serve la parolaccia evidentemente n la forza del contenuto è modesta, considerato che la lingua italiana è ricchissima di  espressioni capaci di dare forza al discorso.
     Bene, dunque, queste prese di posizione contro la volgarità e la parolaccia, anche se nel caso di FareFuturo il suo Presidente ha recentemente occupato le prime pagine di giornali e telegiornali proprio per aver detto una parolaccia, non nell’occasione di un vivace dibattito politico, ma nel corso di una chiacchierata a studenti elementari che voleva invitare ad evitare discriminazioni nei confronti degli immigrati.
     L’obiettivo è stato comunque raggiunto. Far parlare di se. Questo, in fin dei conti, è lo scopo di volgarità e parolacce. Tristemente.
27 dicembre 2009

Il Cardinale Scola Presidente del Collegio di indirizzo
Trent’anni della Fondazione Giuseppe Toniolo

     Al giro di boa dei trent’anni la Fondazione di Studi Tonioliani presenta un intenso programma di attività su scala nazionale, con convegni, ricerche, tesi e antologie di scritti di Giuseppe Toniolo. Con larga eco sulla stampa. In particolare da segnalare un lungo articolo de L’osservatore Romano.
     In occasione del compimento del primo triennio di vita della Fondazione Nazionale di Studi Tonioliani, che risulta essere una delle più rilevanti iniziative cattoliche in campo economico e sociale, sono giunte prestigiose adesioni al Comitato Nazionale per la pubblicazione delle opere di Giuseppe Toniolo, tra cui quelle del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, dott. Gianni Letta , del Ministro per i Beni Culturali, dott. Sandro Bondi e del Rettore dell’Università Cattolica di Milano Lorenzo Ornaghi, del prof. Franco Miano, presidente Generale dell’Azione Cattolica Italiana, del prof. Carlo Cirotto, presidente del MEIC e di Andrea Olivero, presidente Nazionale delle ACLI.
     Per sottolineare l’importanza dell’iniziativa l’Osservatore Romano, in questi giorni, ha dedicato un corposo articolo al Toniolo e all’attività della Fondazione.
La Fondazione nazionale di Studi tonioliani, che ha la sua sede legale a Pisa, dove Toniolo visse 40 anni, ha un Collegio di indirizzo che, presieduto dal Card. Angelo Scola, patriarca di Venezia, comprende altresì Mons. Giovanni Paolo Benotto, Arcivescovo di Pisa, Mons. Corrado Pizziolo, Vescovo di Vittorio Veneto, Mons. Giuseppe Zenti, Vescovo di Verona e Mons. Cesare Nosilia, Vescovo di Vicenza.
Presidente della Fondazione è il prof. Romano Molesti, ordinario di Storia del pensiero economico nell’Università di Verona, consulente ecclesiastico Mons. Danilo D’Angiolo. Il Comitato Scientifico della Fondazione è invece formato da venti professori ordinari, titolari di cattedre di materie economiche, sociologiche e storiche, tra cui il prof. Alberto Quadrio Curzio e il prof. Siro Lombardini dell’Università Cattolica di Milano, il prof. Ferruccio Marzano dell’Università di Roma e altri.
     La Fondazione ha già pubblicato due raccolte antologiche di scritti di Giuseppe Toniolo, una con la Prefazione del Card. Scola. Tra le altre attività della Fondazione figurano: lo studio e l’approfondimento dei temi più importanti della dottrina sociale della Chiesa, la pubblicazione di volumi di Giuseppe Toniolo e di altri sociologi ed economisti cattolici, proposte di attualizzazione del loro pensiero, soprattutto in relazione alle tematiche contemporanee, l’organizzazione di incontri, convegni, tavole rotonde, la ricerca e la pubblicazione, sulla rivista della Fondazione “Studi economici e sociali”, di scritti ancora inediti di Giuseppe Toniolo, la promozione di tesi di laurea universitarie sull’argomento.
     La Fondazione è strutturata su scala nazionale, con già quindici sedi in altrettante città italiane, e ha una propria rivista ufficiale, “Studi economici e sociali”, trimestrale che si pubblica da 44 anni. Inoltre, si avvale stabilmente della stretta collaborazione di altre due accreditate riviste: “Nuova economia e storia”, fondata da Amintore Fanfani, e “Il pensiero economico moderno”, che si pubblica da 25 anni.
     In occasione del compimento del terzo anno di vita la Fondazione ha attivato il proprio sito internet, curato da Stefano Zamberlan, responsabile della segreteria nazionale della Fondazione e del bollettino di informazione Newsletter, e visitabile all’indirizzo: www.giuseppetoniolo.com.
26 dicembre 2009

Nessuno si deve impicciare
Se Pio XII è proclamato “beato”
E’ una questione interna alla Chiesa
di Salvatore Sfrecola

     “Gli ebrei non si devono impicciare. E’ una questione interna alla Chiesa”. David Rosen, Rabbino, l’uomo del dialogo con i cattolici, così si esprime in un’intervista di ieri al Corriere della Sera. E aggiunge: “però possono giudicare. Dal nostro punto di vista un Giusto, o se volete chiamare un Santo, è uno che hga agito per salvare gli ebrei. Chiunque non l’abbia fatto, è solo per questo colpevole. Poi c’è chi non sapeva, e io credo che Papa Pacelli davvero non sapesse”.
     Ho voluto riferisce nella sua completezza le frasi più significative dell’intervista per sottolineare la distinzione, che deve essere nettissima, tra le vicende storiche, la loro valutazione ed il giudizio che la Chiesa dà di un suo figlio quando giudica che abbia rivelato nella sua condotta di uomo e di sacerdote virtù “eroiche”, tali da consentirne il culto sugli altari.
     Papa Pio XII ha vissuto quale Pontefice della Chiesa di Roma uno dei momenti più drammatici della storia del ‘900 segnato da comportamenti mai prima di allora tenuti dagli stati e dai singoli, in un periodo nel quale i cappellani militari benedivano le bandiere di eserciti l’un contro l’altro schierati. In particolare la tragedia della Germania Nazista ha coinvolto non solo gli ebrei ma tutti gli oppositori del diabolico regime guidato da Adolfo Hitler.
     Giudicare il comportamento di un Papa che ha cercato di porre in campo tutte le sue capacità diplomatiche a lungo sperimentate anche nella Germania del primo dopoguerra è certamente difficile per gli storici di domani, difficilissimo per quelli di oggi ancora condizionati dalla contrapposizione ideologica che si trascina dai decenni tra le due guerre. E’ certo che il Papa ha cercato di salvare il salvabile in questa situazione nella quale i cattolici erano da tempo ostaggio della furia nazista che mirava ad uno stato dominato da un’ideologia che aveva rispolverato i miti pagani delle antiche popolazioni germaniche. Niente di più lontano dalla predicazione evangelica.
     Ma, poi, quale autorità, se non morale, aveva il Papa in quella tragedia da opporre alla violenza bruta della furia nazista? Un’autorità morale che ha impedito la distruzione di Roma e la stessa occupazione del Vaticano, niente di più. Qualcuno ricorderà la domanda di Stalin ad un suo collaboratore: “quante divisioni ha il Papa?” E’ la logica della forza che nella Chiesa è solo insegnamento di pace e di carità.
     Pio XII è stato un grande Papa. Un solido timoniere nella tempesta della guerra ed un uomo portatore di grandi ispirazioni religiose, in particolare il culto mariano, che lo portò il 1° novembre 1950, in presenza e in comunione con il collegio cardinalizio, con 700 Vescovi e con la folla delle grandi circostanze, ad affermare: Pertanto, dopo aver innalzato ancora a Dio supplici istanze, ed aver invocato la luce dello Spirito di Verità, a gloria di Dio Onnipotente, che ha riversato in Maria la sua speciale benevolenza, ad onore del suo Figlio, Re immortale dei secoli e vincitore del peccato e della morte, a maggior gloria della sua augusta Madre ed a gioia ed esultanza di tutta la Chiesa, per l’autorità di Nostro Signore Gesù Cristo, dei Santi Apostoli Pietro e Paolo e Nostra, pronunziamo, dichiariamo e definiamo esser dogma da Dio rivelato: che l’Immacolata Madre di Dio sempre Vergine Maria, terminato il corso della vita terrena, fu assunta alla gloria celeste in anima e corpo”.
culminate nel 1950 con la proclamazione dell’Immacolata concezione.
     Il Senatore Giulio Andreotti ha sempre difeso Pio XII e ne ha esaltato il ruolo storico e spirituale, respingendo le accuse di reticenza sull´Olocausto.
     Così, intervistato da Repubblica dopo le contestazioni della Comunità ebraica, per  Andreotti “non si apre una polemica politica su una decisione di questo tipo. La reazione degli ebrei mi ha provocato molto dolore. Certi argomenti vanno lasciati agli organi competenti, punto e basta”. E aggiunge, a proposito del Papa,
“l´ho conosciuto bene. La mia ammirazione per lui è straordinaria, sconfinata. Era un sant´uomo. Il processo canonico farà il suo corso, anche lento, e alla fine si dimostrerà ciò che chi ha frequentato Pio XII sa da sempre”. Ero presidente della Fuci negli anni della Seconda guerra mondiale. Frequentavo la Santa sede, incontravo il Papa. So bene, meglio di tanti altri, quali furono i suoi ordini, emanati in quelle settimane alle parrocchie, alle associazioni cattoliche: aprite tutte le porte agli ebrei. Io ricevetti le disposizioni del Papa personalmente. Non ho bisogno di leggere gli atti per capire che non c´è niente di vero nelle accuse di antisemitismo o di silenzio sulle deportazioni”.
     Una conclusione è necessaria. Tutti lascino la Chiesa scegliere i suoi santi evitando prese di posizione indebite su fatti di fede. Indebite e sgradevoli, perché vorrebbero condizionare scelte eminentemente ed esclusivamente religiose attuando un condizionamento che gli storici futuri potrebbero chiamare ricatto e che non fa onore ai fedeli di una religione della quale il Cristianesimo sa di discendere.
25 dicembre 2009

Il cerotto sul naso: da Mussolini a Berlusconi
di Historicus

     L’hanno scritto e detto in molti. L’immagine di Silvio Berlusconi con il naso e lo zigomo sinistro coperti da un cerotto dopo l’attentato di Massimo Tartaglia ha ricordato a molti l’immagine di Benito Mussolini ugualmente fotografato con un vistoso cerotto che gli ricopriva il naso ferito di striscio da un colpo di pistola esploso da Violet Albina Gibson, figlia di Edward Gibson, primo Barone di Ashbourne e Lord Cancelliere d’Irlanda. Era il 7 aprile 1926 quando la Gibson attentò alla vita di Benito Mussolini, all’uscita dal palazzo del Campidoglio, dove aveva inaugurato un congresso di chirurgia. Il giorno dopo l’attentato, Mussolini compì un viaggio in Libia e si mostrò a Tripoli con quel vistoso cerotto, come testimoniano le foto dell’epoca.
     Quell’episodio giustificò una stretta legislativa in tema di misure di sicurezza, necessarie a garantire l’incolumità del Presidente del Consiglio, ma fu anche l’occasione per iniziative illiberali sul fronte della libertà di manifestazione del pensiero con la scusa che alcune critiche al Duce avrebbero potuto muovere iniziative di violenti. Se ne parla anche in questi giorni dai servi sciocchi del potere che desiderano apparire agli occhi del Cavaliere più realisti di lui.
     Due cerotti a confronto, dunque, che suggeriscono qualche considerazione sui due personaggi, pur distanti nel tempo e nell’esperienza politica, e sui movimenti che hanno creato e dominato. Entrambi compositi, con la partecipazione di soggetti provenienti dalla politica e dalla società civile, come si dice oggi, con esperienze spesso assai diverse, portatori di istanze politiche molte volte apertamente contrastanti, una moltitudine tenuta insieme dal carisma del capo e dalla sua capacità manovriera che Mussolini dimostra frenando gli estremisti ed aprendo alla Chiesa ed alla Corona. Ex socialisti, in gran parte repubblicani, insieme ad ex combattenti e nazionalisti, di sicura fede monarchica, borghesi delusi nelle aspettative che avevano maturato con la partecipazione alla Grande Guerra, senza appetibili aspettative di lavoro. E poi commercianti e contadini preoccupati per l’aggressività della classe operaia organizzata da socialisti e comunisti.
     Un partito, quello Fascista, che peraltro rivendica un pensiero politico imperniato sui valori della Nazione e del Risorgimento del quale la guerra di liberazione di Trento e Trieste costituiva agli occhi dei reduci la conclusione necessaria perché la Patria fosse unità dalle Alpi al Lilibeo.
     Ugualmente il movimento fondato da Silvio Berlusconi non è tenuto insieme da una filosofia politica, se si esclude una generica critica allo Stato ed al suo costo sulla base di una “cultura” del privato, che è un assurdo in una Italia nella quale i nostri produttori sono in gran parte assistiti od operano prevalentemente con le pubbliche amministrazioni, il più grande operatore economico del Paese. Vi convergono ex socialisti che hanno ritrovato una casa comune dopo la diaspora seguita alla dissoluzione del partito travolto da tangentopoli. Sono il numero più consistente e che conta di più, come si può constatare dalle posizioni ricoperte nel Governo, nel partito e dei gruppi parlamentari. Molto più degli ex democristiani relegati a ruoli minori o incastonati in posizioni istituzionali che limitano loro la possibilità di parlare di politica, come nel caso di Beppe Pisanu, politico di lungo corso e di altissimo senso dello Stato. Quanto agli ex di Alleanza Nazionale, con  Gianfranco Fini in bacheca, quelli che contano sono ormai passati armi e bagagli sotto l’ala protettrice di Berlusconi, per cui non costituiscono neppure una corrente nel Partito della Libertà. Considerato, in ogni caso, che atteggiarsi a corrente è fortemente sconsigliato in un sistema elettorale nel quale il solo Berlusconi sceglie chi portare in Parlamento.
     Due movimenti compositi e quindi populisti, il Fascista e il Forzista, retti da leader carismatici che, pertanto, cercano bagni di folla della quale chiedono il consenso con slogan accattivanti. Da un lato il Duce contadino, che trebbia, che scia a dorso nudo sulle nevi del Terminillo, che ostenta amore per la famiglia ma fa discretamente sapere che moltissime sono le donne innamorate di lui e, quando può, le soddisfa. Un po’ come il Presidente imprenditore, operaio, ferroviere e, naturalmente, donnaiolo, una cosa che piace agli italiani e alle italiane che non si fanno scrupoli morali o religiosi.
     Anche sul piano istituzionale molte sono le somiglianze tra i due uomini. Innanzitutto l’insofferenza nei confronti per le regole istituzionali, a cominciare da quelle costituzionali. Infatti anche Mussolini aggredisce lo Statuto Albertino avvantaggiato dal fatto di avere a che fare con una costituzione flessibile che può modificare con una legge ordinaria, tanto che istituisce il Gran Consiglio del Fascismo al quale affida anche il compito di pronunciarsi sulla successione al Trono, una lesione alle prerogative sovrane che Vittorio Emanuele III non gli perdonerà quando, con un voto contrario di quell’organo, il Mussolini delegittimato è mandato a casa dal Re. Il quale non aveva neppure gradito di condividere con il Caporale d’Onore della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale il grado di Primo Maresciallo dell’Impero per cui il Re ebbe parole di fuoco nei confronti di Santi Romano, Presidente del Consiglio di Stato, che aveva espresso parere favorevole alla diarchia in tal modo certificata. “I professori di diritto costituzionale – disse in quell’occasione il Re –  specialmente quando sono dei pusillanimi opportunisti come il professor Santi Romano, trovano sempre argomenti per giustificare le tesi più assurde: è il loro mestiere”
     Anche Berlusconi non tollera le regole istituzionali e vuole cambiare la Costituzione. Ha solamente una difficoltà, la nostra Carta fondamentale ha la caratteristica di essere una costituzione “rigida”, cioè modificabile con un procedimento cosiddetto “aggravato”, con doppia lettura delle Camere. I Costituenti non hanno voluto che potesse essere modificata con una maggioranza semplice come era avvenuto vigente lo Statuto del Regno.
     Questo non vuol dire che non vi siano modifiche da apportare sulle quali è possibile un’ampia convergenza. Ad esempio, per quanto riguarda il bicameralismo “perfetto” che rallenta l’attività legislativa e la funzione di controllo sull’esecutivo, che tiene lontane le regioni. Riforme da fare con la prudenza necessaria che è valutazione degli effetti nel tempo. Niente improvvisazioni, come a volte sembra desumersi da dichiarazioni estemporanee di personaggi minori eppure ascoltati, che fanno a gara a compiacere il premier insofferente delle regole. Come nei confronti della Magistratura, che Mussolini ha sempre evitato di prendere di petto, tanto è vero che quando ha voluto “punire” gli oppositori del regime ha creato i tribunali speciali. Ugualmente con gli organi di garanzia Mussolini non ha mai pensato di modificarli perché non proni ai suoi voleri ma ha utilizzato istituti previsti dalla legge, capaci di disinnescare il conflitto. Così l'”ordine scritto” alla Ragioneria e la richiesta di registrazione “con riserva” alla Corte dei conti, un istituto che fa salva la valutazione del provvedimento sotto il profilo della legittimità, consentendo al Governo che l’atto “abbia corso” con contemporanea assunzione della responsabilità politica.
     Diverso l’atteggiamento di Berlusconi, spesso intollerante. La Corte costituzionale boccia il “lodo Alfano”? Va riformata. I Pubblici Ministeri indagano sulle sue pregresse attività d’imprenditore? Vanno separate le carriere, una soluzione peggiore dei problemi che vorrebbe risolvere facendo dei magistrati dell’accusa un ordine a parte, a meno che il passo successivo non sia la sottoposizione dei Procuratori della Repubblica al potere esecutivo. Unica, logica conseguenza finale di quella scelta. Smentita ad ogni piè sospinto, ma scelta inevitabile nella logica illiberale che la sorregge.
     E poi il conflitto di interessi. Mussolini, dittatore e intollerante con gli oppositori, non aveva interessi economici da salvaguardare. E’ finito senza ricchezza in Italia e all’estero. A differenza di Berlusconi il cui impero economico si è accresciuto da quando è al potere. Per lui nessun imbarazzo quando decide in materia economica o quando all’estero promuove le nostre imprese, nonostante è evidente che le decisioni del Governo abbiano comunque una ricaduta inevitabile anche sulle aziende delle quali è in tutto o in parte proprietario.
     Nessun imbarazzo. E pensare che Quintino Sella, divenuto Ministro delle finanze del Regno d’Italia impose alle “imprese di famiglia” di ritirarsi dagli appalti pubblici!
     Infine, l’Italia Fascista subì le limitazioni dovute alla presenza del Re a dimostrazione che occorre un Capo dello Stato dotato di autorità e svincolato dai dal condizionamento dei partiti laddove la Repubblica presidenziale determinerebbe una concentrazione di poteri nel premier che non garantirebbe quell’equilibrio istituzionale che è condizione del buon funzionamento di una democrazia matura.
23 dicembre 2009

Mai la violenza!
di Salvatore Sfrecola

     La contrapposizione politica, anche la più dura, non può mai giustificare la violenza fisica sugli avversari. Non è consentito mai, soprattutto in democrazia della quale il confronto delle idee è il sale, la ragione stessa della moderna concezione dello stato liberale e costituzionale.
     Inoltre, il ricorso alla violenza fisica è la dimostrazione della mancanza di argomenti, dell’incapacità di saper costruire consenso su un ideale politico, su un programma di governo.
     Mai la violenza, ingiustificabile in ogni circostanza, anche quando la contrapposizione porta al limite della rottura democratica. C’è chi la giustifica in casi eccezionali. E’ nota la tesi che ritiene consentito il tirannicidio. Una questione, fortunatamente, di altri tempi.
     La democrazia si basa sul consenso e non è dubbio che il Governo di Silvio Berlusconi goda di un ampio, convinto consenso di vasti strati della popolazione, di tutte le età e di tutte le condizioni sociali. L’analisi del voto non è importante, se, ad esempio,  quei voti siano in parte espressi “contro” la sinistra che non ha ben governato ed ha dato l’idea che si tratti di un vecchio arnese postcomunista con la benedizione di cattolici “di sinistra”. Neppure l’eterogeneità delle forze confluite prima in Forza Italia, poi nel Partito della libertà scalfiscono il senso del consenso che riceve dagli italiani il leader ed i suoi uomini.
     Mai la violenza, dunque. Spetta, tuttavia, ai protagonisti della politica, come ha ricordato più volte il Capo dello Stato negli ultimi mesi, evitare nel dibattito, per infuocato che sia, i toni dell’esasperazione e del discredito per l’avversario, mettendo in campo una polemica sulle istituzioni che in tal modo vengono impropriamente  coinvolte nei contrapposti schieramenti, come se fossero truppe al servizio di questo o di quel partito, mentre, Costituzione alla mano, esse sono al servizio esclusivo della Nazione.
     Si evitino, in sostanza, quei toni che ricordano altri momenti difficili della storia nazionale nei quali fu messa alla prova la tenuta della democrazia liberale che dovette soccombere quando fu chiaro che anche le istituzioni erano divenute fragili cristalli nella cristalliera dello Stato per cui, alla vigilia della Marcia su Roma, al Re Vittorio Emanuele III, che gli chiedeva che posizione avrebbe assunto l’esercito di fronte alla violenza squadrista, il  Presidente del Consiglio, Luigi Facta, soprannominato “nutro fiducia”  per la sua inconsistenza disse al Sovrano “Maestà non mettiamo l’esercito alla prova”.
     Fortunatamente non c’è da mettere alla prova le istituzioni della Repubblica. Ma è bene non coinvolgerle nella polemica politica perché  gli italiani non perdano in esse la fiducia che loro è dovuta o le considerino oggetto di aggressione e ritengano che ci si avvii ad un tempo nel quale  perdano significato le parole. Come evidentemente ha ritenuto, nella sua follia, l’oscuro attentatore di Silvio Berlusconi.
13 dicembre 2009

La Corte costituzionale e la politica
di Salvatore Sfrecola

     Leggo oggi sul Corriere della Sera l’intervista resa da Gaetano Pecorella, avvocato di Silvio Berlusconi e “possibile candidato del centrodestra per la vicepresidenza del CSM”, a Dino Martirano sulla Corte costituzionale.
     “La Consulta agisce da organo politico” sentenzia il Nostro pur affermando in apertura “non dico che le sentenze della Consulta siano dettate da scelte politiche”. Con evidente confusione indotta non da ignoranza ma dal desiderio di compiacere chi lo ha portato in Parlamento, uno di quei “cattivi consiglieri” di cui ho scritto più volte che hanno indotto Silvio Berlusconi, ignaro di principi e meccanismi costituzionali, ma convinto che la sua autorità venga “dal popolo” (meno male che non pretende che provenga da Dio, come nelle monarchie assolute) per essere stato il suo nome inserito nella scheda elettorale e così pretende di modificare non solo le leggi ordinarie, avendone la maggioranza, ma anche la Costituzione, certamente non immodificabile ma da rivedere eventualmente con estrema prudenza, come si deve di tutte le leggi fondamentali che sono fatte per durare nel tempo, spesso nei secoli, come insegna il Regno Unito nel quale vige ancora parte della Magna Charta Libertatum datata 1215.
     Pecorella, dunque, critica la Corte costituzionale per la sua composizione e riscopre che sul punto era contrario anche Togliatti (lo aveva esibito Angelino Alfano ad AnnoZero di Michele Santoro).
     La Corte, com’è noto è formata da quindici giudici, cinque nominati (rectius, eletti) dal Parlamento in seduta comune, cinque nominati dal Capo dello Stato, cinque dalle supreme magistrature, Cassazione, Consiglio di Stato, Corte dei conti. Per due terzi, dunque, la Consulta è formata con criteri politici, nel senso che le Camere votano personaggi scelti con un criterio di rotazione in accordo tra le forze politiche, giuristi indicati dai partiti, mentre il Capo dello Stato individua personalità estranee al mondo dei partiti con un criterio che è sempre stato seguito, quello di individuare soggetti appartenenti a diverse aree culturali. Tutti i Presidenti della Repubblica si sono attenuti a questo criterio, come una piccola indagine sul sito della Corte (www.cortecostituzionale.it) consente a chiunque abbia la pazienza della consultazione, nome dopo nome. Gli altri cinque giudici sono scelti dagli stessi loro colleghi della Cassazione (tre), del Consiglio di Stato (uno) e della Corte dei conti (uno). Inoltre durano in carica un tempo superiore ad una legislatura e alla durata in carica del Presidente proprio per accentuare il distacco da chi li ha scelti.
     La scelta di una Consulta a prevalenza “politica”, nel senso della scelta, deriva dalla necessità di interpretare la Costituzione, una legge ad alto tasso ideologico, con lo spirito di chi, pur ragionando in diritto, deve percepire il valore politico dei principi che la Carta fondamentale ha posto come regole cui si deve attenere il Parlamento nell’attività legislativa.
     Togliatti diceva che la Corte costituzionale si sarebbe sovrapposta alla volontà popolare, cioè a quella delle Camere elettive. E’ un evidente errore di prospettiva in quanto la Consulta non è chiamata a decidere sul merito delle leggi, ma sul rispetto dei principi contenuti nella Carta fondamentale anch’essa, avrebbe dovuto ricordare Togliatti che ne ha fatto parte essendo stato eletto, espressione della volontà popolare, nello stesso modo delle leggi votate dalle Camere.
     C’è poi da dire che le personalità scelte dai partiti e dal Capo dello Stato sono tali, per esperienza e professionalità, che non decidono certamente per “scelte politiche”, come lo stesso Pecorella ammette.
     Che, forse, Berlusconi vorrebbe giudici “di destra” per riequilibrare la presenza di altri “di sinistra”? La tesi è evidentemente stravagante. Non lo pensano neppure i Presidenti degli Stati Uniti d’America che spesso hanno dovuto fare i conti con giudici della Corte Suprema Federale nominati (a vita) da predecessori di opposto orientamento.
     E’ un problema di senso delle istituzioni del quale non brilla il Premier certamente per la sua pregressa attività di imprenditore protesa ad ottenere tutto ciò che rientra nelle sue ambizioni .
     Una cosa è certa. Se il “lodo Alfano” fosse passato indenne dalla Consulta certo non staremmo a dibattere della riforma della Corte costituzionale che negli ultimi anni e mesi ha dichiarato incostituzionali leggi o parti di leggi approvate da diverse maggioranze parlamentari. Torni al suo ruolo istituzionale il Cavaliere e rispetti le leggi, a cominciare dalla Costituzione, per non dire che quando sceglie i suoi consiglieri  ed i candidati giudici non si preoccupi solo della loro fedeltà dal momento che la semplice appartenenza ideologica è troppo poco per partecipare in Camera di consiglio a discutere e decidere su questioni che richiedono un bagaglio culturale ed un’esperienza in fatto di pandette di livello particolarmente elevato.
13 dicembre 2009

Maestri inconsapevoli dell’identità culturale del nostro Paese
Un  Natale residuale in una scuola di Cremona
di Salvatore Sfrecola

     “Festa delle luci”, per non turbare gli studenti di altre confessioni religiose. Così si giustificano i maestri della scuola elementare Alessandro Manzoni di Cremona, convinti di stare nel giusto, che la presenza di un numero rilevante di bambini portatori di altre culture e di diversa spiritualità richieda l’accantonamento delle nostre tradizioni a cominciare dal Natale, con il suo Presepe.
     In buona fede, almeno mi auguro, ma certamente incolti questi maestri che non hanno consapevolezza dell’identità del Paese nel quale operano e per il quale educano giovani a diventare cittadini italiani o altri a vivere in Italia. E non comprendono che la negazione dell’identità culturale non dimostra accoglienza che, invece, si realizza non imponendo le nostre tradizioni a chi proviene da diverse aree culturali ma riaffermando la nostra antica accoglienza. Se noi accogliamo le altre culture vanno riconosciute ma non possono prevalere.
     Il fatto è che la nostra classe insegnante, a cominciare dalla più importante, che è quella della scuola elementare dove si formano le intelligenze e si insegna l’approccio allo studio, il metodo di apprendimento, è stata troppo a lungo trascurata, trattata come una scuola minore, oggetto di sperimentazioni fatte sulla pelle degli alunni per bassi motivi elettorali.
     In ogni caso la scelta dei maestri della Manzoni di Cremona non è stata apprezzata da gran parte del mondo politico. In Ministro della pubblica istruzione, Maria Stella Gelmini, non la condivide. “Una scelta che non trovo utile, pur nel rispetto dell’autonomia di ogni singola scuola – sostiene -. Non si crea integrazione e non la si aiuta eliminando la nostra storia e la nostra identità. In particolare il Natale contiene un messaggio di fratellanza universale. Quindi è un simbolo che non divide ma unisce”.
     Sulla stessa posizione il ministro leghista delle Politiche Agricole, Luca Zaia: “Un altro harakiri culturale perpetrato da un finto educatore sulla pelle dei nostri bambini. Sarebbe il caso, oltre alla dovuta solidarietà a Gesù, Giuseppe e Maria di dare tutto l’appoggio possibile ai bambini vittime di queste capriole buoniste”.
     “È una decisione presa anni fa da noi insegnanti insieme, d’intesa con i genitori e senza mai che ci fossero rimostranze – dice uno dei maestri, Eriberto Mazzotti – corrisponde alla nostra idea di ospitalità. Siamo una scuola interculturale. Abbiamo pensato alla Festa delle luci per non urtare le altre culture, senza comunque rinnegare il Natale”.
     Debolezza culturale, come ho già detto, un segnale pericoloso di un Paese che di problemi culturali ne ha molti. Lo scrivevo ieri a proposito del fondo di Sergio Romano sul Corriere della sera che non riesce a difendere la nostra storia giudiziaria, il nostro sistema giuridico che potrà, come ogni attività umana, rivelare errori ma che non se accorge solo dopo che il condannato ha “espiato” la sua pena sulla sedia elettrica, nella camera a gas o sul lettino stroncato dalla iniezione letale.
13 dicembre 2009

L’eterna commedia del pressappochismo all’italiana
di Salvatore Sfrecola

     Duole molto dover constatare che, di fronte ai gravi problemi che attraversa il Paese tra crisi economica e disagio sociale, ignorato per far posto nelle cronache e nel dibattito politico a questioni di “escort” e di mafia, non solo la politica ma anche la stampa spesso confonda le idee ai lettori, con grave danno per la democrazia se l’opinione pubblica si forma, almeno in parte, su notizie e commenti extravaganti.
    Non si sottrae a questo gusto tutto nostrano di esibire commenti forse dotti ma estranei alla realtà ed alla verità, con l’abilità di dire qualcosa ed il contrario della stessa, neppure il Corriere della Sera attraverso una delle firme più prestigiose, quella di Sergio Romano, già ambasciatore e storico dotato di strumenti critici pregevoli.
     Stavolta, invece, per il gusto di discettare di diritto e di politica, di processi e di mafia, il Nostro  deborda abbondantemente e nel fondo di oggi lascia sconcertati i lettori che abbiano un minimo di cultura giuridica e di senso critico.
     “Una commedia all’italiana”, questo è il titolo, assume che il “Processo all’italiana” sia “tragico e farsesco”, almeno per come “i due ultimi spettacoli sono andati in scena a Perugia e a Torino”, processi che avrebbero “suscitato l’indignazione di molti americani, ma ha soddisfatto gli inglesi”. E già questo dimostra quanto scarsa sia l’obiettività delle valutazioni delle quali Romano si preoccupa, se gli uni (gli americani) criticano perché è stata condannata una cittadina U.S.A. e gli altri (gli inglesi) plaudono perché la pena è stata comminata a chi, secondo i giudici, ha ucciso una cittadina del Regno Unito. Un dibattito evidentemente immiserito dal gusto dello spot che Romano offre ai suoi lettori.
     Mi chiedo quale tipo di messaggio dia Romano nel momento in cui, con una sufficienza degna di miglior causa, parla del processo italiano, certamente ultragarantista, a fronte di un sistema giudiziario, quello made in U.S.A., nel quale il Procuratore Distrettuale, che esercita l’azione penale, è soggetto alle mutevoli opinioni della gente perché da esse dipende la sua elezione o la sua conferma nella carica. Un sistema che, con la nostra sensibilità giuridica e l’eredità del diritto romano appare, senza mezzi termini, barbaro, essendo l’attività punitiva dello Stato rimessa a sensazioni e sentimenti che spesso poco hanno di obiettivo, come può assicurare un professionista che chieda al giudice di applicare la legge senza aver nessun interesse personale nella vicenda se non  il desiderio che sia fatta giustizia.
     Se poi lo stesso Romano riconosce che “non tutti gli osservatori stranieri conoscono i meccanismi delle nostre procedure giudiziarie”, mi sfugge francamente il senso di quest’ennesimo tiro a segno sulle nostre istituzioni che altrove non si riscontra, dacché, anche per un certo patriottismo, si usa ragionare, proprio nella cultura anglosassone, in termini di right or wrong, My country.
     “Perugia e Torino hanno contribuito a diffondere nel mondo l’immagine di una giustizia confusa e pasticciona”. L’affermazione di Romano è gravissima. Non dubita che la pronuncia dei giudici di Amanda Knox sia “pasticciona” nonostante non l’abbia letta per la semplice ragione che nessuno l’ha ancora scritta. Non conosce gli atti del processo se non dai giornali e pontifica, diffondendo nell’opinione pubblica diffidenza nei confronti dell’istituzione giustizia che è la massima espressione dell’autorità dello Stato. Meno male che, secondo il costume tutto italiano di dire di tutto e l’esatto contrario, Romano riconosce che “esistono tuttavia voci più equilibrate. In un’intervista al New York Times sul processo di Perugia, un noto avvocato e professore americano, Alan Dershowitz, ha osservato che Amanda Knox potrebbe essere favorita in ultima analisi dall’esistenza in Italia di un processo di seconda istanza alquanto diverso dall’appello americano. E’ un processo ex novo in cui ogni prova viene nuovamente scrutata e pesata con esami più approfonditi”.
     Ma allora questa giustizia non è poi così pasticciona!
     C’è, comunque, da dubitare di questo Corriere, monumento dell’informazione che scende di molti gradini nella scala del prestigio che si è conquistato in oltre cento anni di storia. Credo di non aver letto mai tanta somma di banalità altamente diseducative.
    Quanto, poi,  al processo di Torino nel quale testimonia Spatuzza, smentito da Graviano, a Romano non viene il dubbio che sia una commedia all’interno di Cosa Nostra per destabilizzare il Paese, complice un Presidente del Consiglio che non ha i nervi saldi per affrontare con serenità i suoi processi, considerato, cosa della quale si vanta sovente a buon diritto, di essere stato ripetutamente assolto.
     La Mafia dice e si contraddice perché questa – dovrebbe saperlo Romano che ha scritto anche della storia della Francia e della sua Rivoluzione – è una strategia per confondere le acque e  gettare scompiglio nell’opinione pubblica. Una strategia che evidentemente funziona se tutti, compreso Silvio Berlusconi, invece di ignorare le dichiarazioni di questo o di quel pentito, attendessero serenamente la conclusione del lavoro dei giudici.
     Se questo non avviene i casi sono due. O è un fatto caratteriale che impedisce al Cavaliere di “fregarsene” delle dichiarazioni dei pentiti, oppure ci sono dei timori, nel senso che scavando scavando, sia pure nel letame, è possibile che qualche schizzo maleodorante vada a colpire il Premier. Il quale, senta un consiglio, ricucia con le istituzioni, smetta di insultare i giudici e di manifestare dubbi sulla Corte costituzionale. Capisco che è contrario alla mentalità dell’imprenditore, ma certo dovrebbe essere il modo di agire di uno statista. Faccia come il Senatore Giulio Andreotti che si è vista troncata di netto la carriera politica e le aspirazioni che l’accompagnavano ed ha reagito con dignità e si è difeso nei processi.
     Inoltre, consideri un pericolo per un uomo politico, che gli italiani comincino a pensare che abbia qualcosa da temere. E allora la sua immagine ne risulterebbe gravemente deteriorata, facendo scendere quella popolarità della quale, giustamente, si vanta
12 dicembre 2009

Nelle parole del Premier dinanzi alla platea del Partito Popolare Europeo
Grave lesione dell’immagine del Paese
di Senator

     “La sovranità in Italia è passata dal Parlamento al partito dei giudici di sinistra”. La Corte Costituzionale si è ormai trasformata in “organo politico”. Silvio Berlusconi a tutto campo dinanzi ai delegati del Ppe riuniti in congresso. E molti s’indignano, a cominciare dal Capo dello Stato, per il Presidente della camera, per i leader dell’opposizione. Il premier sedicente “con le palle”, nel senso che lo dice lui di se stesso, denuncia una sorta di gioco di sponda tra giudici e Consulta per bloccare le leggi “sgradite” alla magistratura, cosa che spiega con la composizione della Corte, in gran parte nominata dagli ultimi tre presidenti della Repubblica, tutti “di sinistra”. Per questo la maggioranza è già al lavoro per cambiare le cose, cioè la Costituzione. Mica dice che quelli di nomina del Centrodestra sono di una modestia imbarazzante.
     Comunque non è questo il modo di ragionare di un uomo delle istituzioni, del Presidente del Consiglio che, sia pure eletto a capo di una maggioranza, deve rispettare le leggi, non modificarle quando sono per lui scomode.
     Getta il sasso e nasconde la mano il Premier, ed a Napolitano che evoca “delicati problemi di carattere istituzionale” e invita a far prevalere uno “spirito di leale collaborazione” non risponde. Affida il compito a Paolo Bonaiuti. “Il presidente Berlusconi – afferma il sottosegretario – ha detto nient’altro che la verità sul funzionamento della Corte Costituzionale”.
    ” Senso dello Stato zero”, usava dire negli anni scorsi Gianfranco Fini. E continua a dirlo ed a pensarlo.
10 dicembre 2009

Civiltà a confronto
Minareti e campanili
di Salvatore Sfrecola

     Secondo Renato Mannheimer,  acuto e attento rilevatore delle nostre scelte il 46 per cento degli italiani approva il divieto di alzare minareti che gli svizzeri hanno sancito nei giorni scorsi con un referendum (Corriere della sera di oggi, a pagina 17). Ed anche nel centrosinistra il 40 per cento degli elettori voterebbe a favore dell’interdizione.
     A me sembra una risposta rozza ad un problema vero e serissimo.
     Cittadino romano, anche se non di sette generazioni, orgoglioso della civiltà che più di ogni altra ha illuminato e continua ad illuminare la storia dei popoli, ho visto, visitando il Foro, i resti di sinagoghe, dei templi di Iside e Osiride e di altre divinità accanto agli edifici di culto dedicati alla Dea Vesta, a Marte, a Giove, alla Dea della Terra, della fertilità e della natura, tanto per esemplificare. I romani, che mantenevano sul trono i re che avevano sconfitto in combattimento solo che riconoscessero l’autorità di Roma, pagassero i tributi ed assicurassero armati per le truppe ausiliarie dell’esercito romano, usavano “importare” nell’Urbe  anche le divinità adorate dai popoli che entravano a far parte della Res Publica o dell’Impero. Con molto rispetto per quei culti e per chi li praticava.
     Non mi disturba, dunque, che a Roma, che pure è la capitale del cristianesimo e sede del successore di Pietro, accanto alle sagome delle cattedrali con i loro campanili si ergano minareti ad ornare le moschee.
     Mi preoccupa, invece, che un atteggiamento arrogante, una vera e propria sfida nei confronti della popolazione cattolica o comunque attenta alla fede degli avi resa evidente da alcune avvisaglie non colte da chi gestisce il potere, come nel caso della pretesa, poi fatta rientrare, di costruire, nell’ambito della moschea di Forte Antenne, un minareto più alto di San Pietro. E mi preoccupa, anche, che  questi luoghi di culto siano o possano diventare, se non c’è una assunzione di responsabilità da parte dei religiosi musulmani, luoghi nei quali si coltiva una ribellione nei confronti dell’Occidente che possono alimentare anche frange estremistiche se non proprio terroristiche.
     Inoltre sento un profondo disagio per le condizioni di difficoltà che vivono i cristiani nei paesi musulmani perché, pur essendo cittadini fedeli di quegli stati, hanno minori diritti di quanti professano la fede islamica. Per cui non si possono costruire nuove chiese ed alcune aree sono letteralmente interdette ai cristiani.
     Se la nostra cultura, se la storia della nostra civiltà è ampiamente tollerante, da sempre, come abbiamo visto, vorrei che fosse assicurata anche dai paesi di provenienza degli immigrati musulmani la stessa tolleranza che guida le nostre decisioni  in materia di luoghi di culto islamici.
     Non è una questione giuridica in senso stretto, è un’esigenza di reciproco rispetto che costituirebbe un significativo passo avanti nella comprensione tra i popoli e tra le nazioni.
     Capisco, dunque, che, in mancanza di questa apertura, una tolleranza a senso unico rivela elementi di debolezza che la minano alla base e sollecitano un risposta interdittiva, anche perché, è bene non dimenticarlo, la storia dimostra che i paesi islamici, imperi, califfati e sultanati hanno avuto nel tempo un atteggiamento aggressivo nei confronti delle popolazioni cristiane e dei loro stati fino a penetrare profondamente nell’Occidente, nel cuore dell’Europa, fin sotto le mura della capitale dell’impero.
     Infine, la preoccupazione che Renato Mannheimer ha identificato nasce da una indubbio calo di tensione ideale e religioso che ha fatto dimenticare alle nazioni dell’Europa le proprie radici culturali e religiose. E’ evidente, infatti, che un popolo che non riconosce una propria identità nazionale sente di non saper rispondere a movimenti culturali e religiosi dinamici e tendenzialmente aggressivi. Gli episodi del muratore di fede islamica che ha murato l’edicola della Madonna o dell’altro che ha decapitato la statua di San Pio da Pietrelcina sono sintomatici di una mentalità irriguardosa nei confronti della popolazione ospitante. Nessuno di noi oserebbe mai venir meno al rispetto che è dovuto alle divinità di altre religioni, si tratti di Maometto o di Buddha ai quali Roma avrebbe certamente dedicato un luogo di culto senza alcun timore per l’identità dei quiriti, forte della storia e della quotidiana gestione dell’Impero.
8 dicembre 2009

Lamberto Sposini a “La vita in diretta”
Va in onda la denigrazione della Magistratura e dello Stato
di Salvatore Sfrecola

     Va di moda da tempo, almeno da quando il Presidente del Consiglio, tra l’indifferenza dei più, ha definito i giudici “persone mentalmente disturbate, altrimenti non potrebbero fare quel lavoro”. Il Presidente del Consiglio, cioè il responsabile primo di uno dei poteri dello Stato, l’Esecutivo non un qualunque personaggio del firmamento politico italiano.
     E così, legittimati da questa “autorevole” valutazione del lavoro nel quale si esprime l’autorità e la sovranità dello Stato, molti giornalisti si sentono in diritto di trinciare giudizi su sentenze mai lette e su inchieste delle quali non conoscono praticamente niente. Eppure intervistano a destra e a manca le “vittime” di questa giustizia quanto meno “pilatesca” per fare audience, così educando i cittadini alla denigrazione non solo della magistratura ma dello stesso Stato.
     In questo sport nazionale si è cimentato ieri l’ineffabile Lamberto Sposini ne “La vita indiretta” intervistando i genitori di Amanda Knox e l’avvocato Luca Maori, difensore di Raffaele Sollecito. E’ andata così in onda una denigrazione a tutto campo, con intervento della corrispondente della CBS, tra gente che, oltre a non aver letto la sentenza, per il semplice fatto che non è stata ancora scritta, non conosce neppure gli atti di causa, le perizie, le testimonianze, i riscontri di laboratorio, ecc. che hanno portato un serissimo magistrato, come Giuliano Mignini, a formulare nei confronti della coppia Sollecito-Knox una richiesta di ergastolo, dopo un’attenta istruttoria ed un lungo dibattimento.
     Così Sposini, rivelatosi inopinatamente un giurista raffinato ed un profondo conoscitore del processo statunitense ha tracciato confronti sui tempi dei due riti, giungendo alla conclusione che l’Italia dovrebbe imparare dagli U.S.A., tranne, bontà sua, per la pena di morte che sovente si scopre essere stata comminata, da quei tribunali velocissimi, a soggetti che avrebbero dovuto essere tenuti in vita perché innocenti.
     Le sentenze si possono criticare, ovviamente. E’ la regola della democrazia e del diritto, ma, almeno, si dovrebbero conoscere. Invece tutti gli intervistati, con qualche pudore da parte di Luca Maori, che ha dovuto fare la parte del difensore che certamente crede nell’innocenza del suo assistito, si sono scagliati contro la sentenza che non conoscono, perché non c’è, definita “pilatesca”, senza prove, e chi più ne ha più ne metta per soddisfare quel gusto alla denigrazione dei giudici indotto dall’atteggiamento del Governo e della sua maggioranza e nitidamente condensata nella frase del Premier che abbiamo ricordato.
     “Senso dello Stato zero”, dovremo ripetere con Gianfranco Fini che del Cavaliere non ha mai apprezzato il disprezzo per le istituzioni, per tutte, a cominciare dal Parlamento, inutile e perditempo, per finire alla pubblica amministrazione, compresa quella di Palazzo Chigi della quale il premier-imprenditore disse subito, era il 1994, avrebbe potuto facilmente fare a meno sostituendo i dipendenti in servizio con Marinella, la sua segretaria, ed un paio di impiegati.
     Le sentenze si possono criticare ma si devono, almeno, conoscere.
    Chi si diletta in quest’orgia di denigrazioni gratuite dovrebbe pensare alle conseguenze che questo atteggiamento di uno dei massimi strumenti di comunicazione, la televisione, determina sull’opinione pubblica. I giudici emettono le loro sentenze “in nome del popolo italiano”, come dice la Costituzione, e sono la massima espressione della sovranità dello Stato. Il danno che ne deriva è immenso. Perdita di fiducia nelle istituzioni, mancanza di percezione della realtà giudiziaria in un caso di estremo interesse, considerato che una degli imputati, condannata, è cittadina statunitense e la vittima, Meredith Kercher, suddita di Sua maestà Britannica.
     La vittima, ecco, nessuno l’ha nominata ieri sera in televisione. E’ questa la misura del giornalismo che certamente in questo caso piace tanto al Cavaliere. Ma attenzione colleghi, in questa orgia di servilismo non dovete dimenticare che Silvio Berlusconi ne ha anche per voi, cioè per quelli che lo attaccano perché sono “gelosi e vorrebbero essere me”.
     Chiaro il concetto?
8 dicembre 2009

PD: l’addio dei cattolici
di Senator

     Più disilluso che deluso. Enzo Carra non smentisce più il suo proposito di lasciare il Partito democratico. “Noi cattolici siamo ospiti sgraditi”, dice al Corriere della Sera di oggi che usa la frase come titolo. Cosa si attendeva? Quali possibilità credeva davvero sarebbero state date ai cattolici “di sinistra” all’interno di un partito che ha stentato ad abbandonare falce e martello, che è guidato da ex comunisti, duri e puri, da gente che ha iniziato nelle sezioni, con rigida disciplina di partito. Ricordate quando il segretario del Partito Comunista Italiano fino all’ultimo dirigente, il giorno delle elezioni andavano in sezione per farsi dire chi avrebbero dovuto votare.
     Questa scuola, questa militanza non possono essere dimenticate solo cambiando nome. Il comunismo in Italia ha una storia di radicamento sul territorio dal quale assume le ragioni di scelte di politica economica e culturale. Ha organizzato le sue strutture produttive e di commercializzazione dei prodotti, dalle Cooperative edilizie alla grande distribuzione, alle assicurazioni, con l’UNIPOL presente prepotentemente in tutte le regioni “rosse”. Ricordate la scalata BNL e l’interessamento, certo legittimo, di D’Alema e Veltroni. Sono sempre loro a governare realmente il PD oggi con Bersani.
     Cosa pensavano di fare i vecchi DC “di sinistra”, di smontare questo monolitico strumento di potere e di impadronirsi del nuovo partito? Con le loro incertezze ideologiche, con un senso di appartenenza più alla parrocchia, con tutto il rispetto per un’istituzione cardine della Chiesa nella società, che allo Stato, con una grave trascuratezza per l’amministrazione e la giustizia, pensavano di poter esprimere un’anima capace di condizionare i “compagni” di strada che li consideravano all’evidenza occasionali partner nella nuova avventura. Con Prodi messo lì a fare da schermo per cercare di dimostrare che, in realtà, il PD non era altro, come ho scritto più volte, il nome nuovo del Partito Comunista di Togliatti e Berlinguer, abbandonate le incrostazioni internazionaliste.
     L’esito infelice dell’esperienza (a proposito che farà la Binetti?) dimostra che aveva visto giusto Pierferdinando Casini nel correre da solo alle elezioni del 2006, come avevo scritto all’indomani della decisione di staccarsi da Berlusconi.
     Rinasce, dunque, il centro, luogo geometrico della politica moderata, delle posizioni di equilibrio, che in Italia sono quelle del cattolicesimo liberale che ha dato unità e prosperità all’Italia del dopoguerra.
7 dicembre 2009

La Mafia non è un fenomeno “contenuto”
di Salvatore Sfrecola

     Ha certamente ragione Berlusconi, la Mafia danneggia l’immagine dell’Italia. Sbaglia Berlusconi quando dice che la Mafia è un fenomeno “contenuto”.
     Capisco le preoccupazioni del Premier, uomo di immagine e comunicazione, ma negare l’esistenza del nemico non significa ridimensionarlo e men che meno contribuire a vincerlo. E la Mafia è il nemico del nostro Paese, non solo perché ne lede l’immagine, ma perché ne condiziona pesantemente la vita economica.
     Mafia, Camorra, Ndrangheta, Sacra Corona Unita sono organizzazioni criminali che, collegate a cosche locali, pretendono il “pizzo” da chiunque abbia un minimo di reddito, industriale, commerciante, professionista, si inseriscono negli appalti delle pubbliche amministrazioni, condizionano l’attività di politici, pur onesti. Il fenomeno non può essere trascurato, non è localizzato soltanto nelle aree dove queste organizzazioni malavitose sono nate e storicamente si sono consolidate, ma è presente ovunque vi sia ricchezza o gestione di denaro pubblico. Ha ramificazioni internazionali e si collega alla malavita di altri paesi.
Patetica la smentita dell’allora Prefetto Serra sulla presenza della Mafia e della Camorra a Roma, subito dopo confermata da altri osservatori. Note le preoccupazioni per infiltrazioni malavitose a Milano, non solo in coincidenza con i lavori per l’Expo’.
     Si tratta di un fenomeno che deve preoccupare e di fronte al quale la risposta dello Stato non sempre è adeguata. Perché mancano le strutture di intelligence adeguate, perché, come ha ricordato Gian Carlo Caselli ieri sera in televisione, molte Procure della Repubblica sono sguarnite di magistrati e molti uffici investigativi a corto di organico. Inoltre, si vedono preoccupanti segnali di cedimento, di cui sono avvisaglie le iniziative dirette a prevedere la vendita dei beni immobili sequestrati se non utilizzati nell’arco di sei mesi. Uno spazio di tempo troppo breve per individuare un possibile impiego di strutture che spesso sono enormi e delle quali non sempre è facile trovare l’utilizzatore pubblico o l’associazione senza fine di lucro in un ambiente ostile, perché dominato dalle “famiglie” dei boss spogliati di quei beni.
     Si deve fare di tutto per utilizzare le risorse provenienti dalle confische per finalità pubbliche, scuole, musei, attività di volontariato, perché mettere quei beni all’asta significa, senza mezzi termini, farli ricomprare dalla stessa cosca criminale alla quale erano stati sottratti, magari attraverso un prestanome.
     Anche questo pericolo ha segnalato ieri sera Caselli, intervistato da Fabio Fazio a “che tempo fa”. Di più, ha sottolineato che mentre è relativamente facile combattere la manovalanza della Mafia ed anche i gradi intermedi dell’organizzazione, quando si sfiora il rapporto tra le organizzazioni criminali e la politica tutto diventa più difficile. Non ho sentito l’intera trasmissione, che ho intercettato facendo zapping, e non so quindi se Caselli ha parlato dell’esperienza del Prefetto Mori il tanto celebrato nemico della Mafia al tempo del Fascismo. Ebbene, proprio il “Prefetto di Ferro”, che Mussolini scelse per combattere la Mafia in Sicilia, avendone sperimentato la fermezza in occasione dei moti fascisti di Bologna che si trovarono di fronte quel capace servitore dello Stato, è buon testimone della difficoltà di quella battaglia. Vinta nei confronti della manovalanza e dei “quadri” intermedi della organizzazione criminale, ma quando si avvicinò a toccare i vertici ed a sfiorare le connessioni con la politica, incappò nel veto dei locali esponenti del regime e fu richiamato a Roma.
     Ricordo, a questo proposito, una vignetta di Giovannino Guareschi su “Candido”. Si vedono due Carabinieri che conducono un cane poliziotto, mentre sullo sfondo s’intravede la sagoma dei monumenti di Roma. Il titolo era “Sulle orme della Mafia”. La didascalia: “fiutando fiutando fino a Roma ci portasti”.
È questa la realtà della malavita, che giunge laddove c’è il potere. Lo condiziona e ne è condizionata.
7 dicembre 2009

Mafia ad orologeria?
di Gianni Torre

     Spatuzza che parla di fatti di sedici anni fa, riferitigli da altri gentiluomini suoi compari, accusando il Presidente del Consiglio ed un suo intimo amico di intese con la Mafia, l’arresto, quasi in contemporanea, di due pericolosi esponenti di Cosa Nostra, da tempo latitanti, faranno discutere a lungo. Per il rilievo che nel dibattito politico hanno assunto le “dichiarazioni” del boss pentito, il quale assume vi sia stata acquiescenza dello Stato nei confronti di “Cosa Nostra”, mentre la Polizia le assesta un colpo subito definito “mortale”. Ma è veramente tale? Veramente la cattura dei due boss, Gaetano Fidanzati e Gianni Nicchi, significa una sconfitta per l’organizzazione criminale che si inserisce negli appalti delle pubbliche amministrazioni, spaccia droga, gestisce estorsioni, ricicla il denaro  così illecitamente guadagnato? Se, invece, i due boss, come altri già catturati,  fossero niente più di pensionati illustri, che le cosche hanno già da tempo sostituito nei ruoli di responsabilità criminale che avevano assunto negli anni scorsi, considerandoli non più operativi per effetto della latitanza ?
     Naturalmente queste domande, che è lecito porsi ed alle quali non è facile dare una risposta, non tolgono niente  all’importanza delle operazioni di Polizia che hanno assicurato alla Giustizia i due boss, conseguenza di lunghe e minuziose indagini, fatte di intercettazioni, appostamenti, pedinamenti di parenti, amici e picciotti.
     Anche la contemporaneità dei due fatti farà a lungo discutere. Si è trattato di un’accelerazione della cattura per compensare, agli occhi della gente, lo sconcerto conseguente alle dichiarazioni del mafioso pentito che a Torino parla di Berlusconi e Delll’Utri? O è stata una consegna della Mafia per allentare la pressione  di Polizia e Carabinieri alla ricerca dei latitanti? Una tecnica alla quale la malavita a volte ricorre per sopravvivere.
    Le domande sono tante, ma la questione vera sta nella necessità di svelenire il clima di tensione e sospetti che sta creando gravi problemi alla democrazia ed al funzionamento delle istituzioni. Il Paese non può permettersi un Presidente del Consiglio azzoppato, costretto a rinviare e trascurare importanti impegni di governo in un momento di particolari difficoltà per il Paese.
     Come uscirne? Non certo prevedendo norme che porterebbero alla prescrizione degli ipotetici reati, sentenze che lascerebbero il dubbio che un politico non può permettersi neppure in questa stagione nella quale i valori dell’onestà e della fedeltà alle istituzioni sono tenuti in non cale.
       A mio giudizio il Premier dovrebbe pretendere dai suoi giudici un processo accelerato, a tappe forzate, giorno e notte, perché nel più breve tempo possibile sia riconosciuta la sua innocenza.
6 dicembre 2009

La competizione Fini Berlusconi
La disgregazione dell’impero?
di Senator

     “Tra me e Fini non c’è alcuna competizione”. La dichiarazione di Berlusconi in margine all’incontro Italia-Russia, che oggi campeggia sulle prime pagine dei giornali, è una evidente bugia politica che mira a stemperare una polemica che sulla stampa va avanti da tempo. Con un andamento carsico. Compare a tratti, poi scompare sotto altre emergenze politiche, per riemergere alla prima occasione nella quale antiche divergenze di opinione, dovute alle diverse storie personali dei due, tornano prepotentemente alla ribalta.
     Berlusconi e Fini, in realtà, non si sono mai amati. Il loro è stato un incontro di necessità, del Cavaliere, appena sceso in politica ed alla ricerca di un partner con esperienza parlamentare e radicamento sul territorio, e del leader di una forza politica a lungo ai margini della vita della Repubblica, usata per formare maggioranze occasionali ed eleggere Presidenti della Repubblica e dei due rami del Parlamento, ma con attenzione ad evitare contaminazioni. Voti richiesti sottobanco, mai pubblicamente.
     Berlusconi “sdogana” Fini e il suo partito. Inizia con quella dichiarazione in favore del leader dell’allora Movimento sociale italiano candidato a Sindaco della Capitale. “Se votassi a Roma voterei Fini”, dice il Cavaliere. E scocca la scintilla, il colpo di fulmine, secondo una lettura superficiale che condizionerà il rapporto sulla stampa ed agli occhi della gente. Un connubio, come ho detto, di necessità niente di più, tra un leader con un retroterra ideologico e culturale ricco, una variegata stratificazione di filosofie politiche riferibili ora alla pregressa esperienza Fascista, a volte riletta in chiave nazionalistica e spesso impropriamente definita di destra, ed un imprenditore, certamente capace ma anche fortunato e intraprendete (l’iscrizione alla Loggia P2), amico e sodale dei politici che contano, che lo assistono nelle sue iniziative e intervengono ad agevolarle. Esemplare la vicenda delle televisioni oscurate dai Pretori pervicacemente intenti a applicare la legge, forse superata, ma vigente, che impone a chi ha tre televisioni di non disporre di giornali. Così Craxi convoca un Consiglio dei ministri per varare un decreto legge che consentirà la ripresa delle trasmissioni.
     Amico dei politici ma non politico, un “bottegaio”, come lo definì Montanelli, il classico “cumenda” intento soprattutto al guadagno, senza molti scrupoli.
     L’incontro Fini Berlusconi avviene quando scoppia tangentopoli ed al Cavaliere cominciano a venir meno i riferimenti politici, a cominciare da Craxi che fugge dall’Hotel Rafhael di Roma sotto una pioggia di monetine, protetto da un nugolo di poliziotti in tenuta antisommossa. Una scena ripresa da tutti i telegiornali e ripetutamente trasmessa negli anni, ieri sera da AnnoZero, a dire della fine di un impero e di un leader di non scarse capacità politiche ma che aveva avallato un sistema di potere alimentato da fiumi di denaro provenienti da imprenditori in qualche misura condizionati dal rapporto con i politici che, ai vari livelli di governo, a Roma e in provincia, avevano il potere di conferire incarichi e di affidare appalti.
     Il Berlusconi che incontra Fini e medita di scendere in politica è un imprenditore con più di qualche difficoltà. A leggere i giornali la sua Fininvest sarebbe indebitata con le banche per alcune migliaia di miliardi. Anche STANDA, che poi venderà. Forse esagerazioni, ma che attestano difficoltà. Ce ne sarebbero anche di giudiziarie, di quelle tipiche degli imprenditori di nuova generazione, qualche sospetto di evasione fiscale o di trasferimento di capitali all’estero, qualche tentativo di ammorbidire i controlli. Tutte cose da accertare, ovviamente, seccature che possono creare problemi in mancanza di quei referenti politici che hanno costantemente assistito l’imprenditore rampante. La soluzione è presto trovata. Se mancano i politici amici è bene entrare direttamente in politica approfittando che sotto le macerie di tangentopoli sono rimasti Democrazia Cristiana e il Partito Socialista Italiano e gran parte della dirigenza.
     Ad Arcore si mette a punto la strategia per la discesa in campo. Si stabilisce il nome della nuova formazione politica, Forza Italia. Già compaiono i primi manifesti e la gente si chiede di chi siano, che finalità  abbiano. Si pensa subito a qualcosa che abbia a che fare con lo sport, l’unica occasione, da anni, nella quale sembra ci si ricordi di parlare d’Italia e di gridare, appunto “forza Italia”. I colori sono quelli nazionali. Chiunque abbia “inventato” il manifesto, pensa la gente, sa lanciare messaggi di immediato impatto sull’opinione pubblica. L’Italia intera è coperta da manifesti. Finalmente si scopre che Forza Italia è un partito che alle elezioni avrà un risultato travolgente tanto che il suo leader, Silvio Berlusconi, viene incaricato di formare il nuovo governo. Durerà poco, per effetto di un incauto avviso di garanzia inviato mentre il premier partecipa ad un’assise internazionale a Napoli, ma soprattutto per la defezione di un alleato ancora irsuto, la Lega Nord, che comincia a raccogliere consensi sempre più consistenti per un mix di populismo e buona gestione locale ovunque vada al potere. Lontana dalla corruzione eclatante della Prima Repubblica. Bossi riceve un avviso di garanzia per violazione del finanziamento pubblico dei partiti. Una minutaglia che fa tenerezza nell’Italia dei pescecani che macinano miliardi di lire provenienti da appalti pubblici e da tangenti.
     Sull’onda del successo Berlusconi già comincia a comportarsi come Fini ha detto qualche giorno fa nel noto “fuori onda”: confonde il consenso con l’immunità. Ad esempio propone Cesare Previsti, il suo avvocato, un personaggio discusso, a Ministro della Giustizia. Lo impedisce Scalfaro, ma la proposta è significativa di una mentalità e di alcune preoccupazioni. Crede di poter tutto perché eletto, fa capire che teme i giudici, così dando l’impressione di aver qualcosa da nascondere. I guai giudiziari di Berlusconi non sono, dunque, recenti, ma antichi, tutti precedenti alla sua discesa in campo.
     La convivenza Fini Berlusconi è stata burrascosa, al di là delle apparenze. Il Cavaliere non ha mai sopportato quello spilungone disinvolto e disinibito che piace alle folle, anche a sinistra. Ha un tratto arrogante, è vero, ma non compare nelle performance televisive e nei comizi. Non è grato a nessuno per quanto gli viene fatto. Ma non fa  niente. Anche il suo entourage è modesto, ma la gente non lo sa. Fini riempie i teatri e le piazze ed i capi corrente di Alleanza Nazionale, pomposamente definiti “colonnelli”, in realtà, piccoli uomini, modestissimi politicanti, quasi delle macchiette nobilitati solamente da una lunga milizia iniziata sui banchi di scuola, tra bastonate e sassaiole, lavorano nel territorio e nei ministeri. Fini li deve tenere. Non ne può fare a meno, ma appena potrà si allontanerà da loro e dalla stesso partito. Mira più in alto. Pensa a succedere a Berlusconi, ma sbaglia spesso la misura e il momento. Quando nel “discorso del predellino” Berlusconi annuncia la nascita del nuovo partito, Fini prende cappello e se ne esce con un insulto vero e proprio: “siamo alle comiche finali”. Ma deve fare subito marcia indietro. Sente il partito sfuggirgli di mano. I colonnelli sono stati già “reclutati” dal Cavaliere, prima Gasparri, poi La Russa, da ultimo Matteoli. Non può fare a meno di confluire ma invece di pretendere, come capo di una componente importante del nuovo partito, una posizione forte nel Governo, un ministero come economia, interni, difesa, sceglie di fare il Presidente della Camera, una vetrina che soddisfa la sua vanità (per lo stesso motivo aveva scelto gli esteri nel 2004). Resta a guardare e capisce che può guadagnare consensi a sinistra per c erte sue prese di posizione a favore dell’indipendenza del Parlamento. Immagina forse di fare come Giuliano Amato, forte senza partito. Non funziona, come non ha funzionato fino in fondo per Amato. Così alza il tono della polemica prendendo schiaffi da Berlusconi. Ora escono delle foto non proprio protocollari, ora Il Giornale gli rinfaccia recenti e più antiche dissonanze rispetto alla politica del PdL.
     Il fatto è che Fini sente che Berlusconi è in difficoltà, che, malconsigliato dai suoi avvocati, si è avventurato in una polemica con la magistratura che può solo danneggiarlo, in una battaglia che non potrà vincere perché dovrebbe essere immacolato, con la conseguenza che rischia in proprio e rischiano le sue aziende ed i suoi figli.
     In questo senso Fini è il classico Maramaldo che uccide “un uomo morto”. Per andare dove? Forse conta su quella sparuta pattuglia di fedelissimi che potrebbero far mancare voti alla maggioranza e far cadere il governo e dare a Napolitano il destro per un governo istituzionale, in modo di avere il tempo per riordinare le fila e sperare in un’elezione di qui ad un paio di anni che, con i resti di Forza Italia, quelli più di destra, l’UDC di Casini e le truppe sparse di Rutelli, sia possibile una coalizione capace di governare il Paese, magari per andare al Quirinale, considerato che non ambisce, ormai è chiarissimo, ad incarichi di governo. Non ha mai voluto assumersi responsabilità di gestione.
     Fini, tuttavia, non fa i conti con l'”ira funesta” del Cavaliere pronto all’estremo sacrificio, del tipo “muoia Sansone con tutti i Filistei”, per morire (politicamente, s’intende) con l’arma in pugno.
     Certo è che s’intravede veramente la fine del Berlusconismo, del Partito, che nessuno sembra in grado di ereditare, neppure Tremonti, che non è certo un leader carismatico, mentre Letta, che potrebbe soddisfare le aspettative dei moderati, sembra fuori gioco.
     Siamo probabilmente alla vigilia del crollo dell’impero, della stesura di quelle pagine della storia che nessuno avrebbe immaginato poche ore prima. Come quando il Cavaliere Benito Mussolini (strana coincidenza quel titolo!), battuto dal voto del Gran Consiglio del Fascismo, recatosi a Villa Savoia per conferire con il Re Vittorio Emanuele III, si sentì licenziare in tronco, essendosi prodotto quel fatto costituzionale del quale il Sovrano aveva bisogno per congedare legittimamente il Duce.
     Siamo al 25 luglio del Cavaliere Silvio Berlusconi? Lo pensano in molti. Certamente Fini che altrimenti non avrebbe preso le iniziative laceranti che ha assunto negli ultimi giorni.
     Come insegna la storia, ogni minuto può accadere di tutto!
4 dicembre 2009

Fini fuori onda: Berlusconi “confonde il consenso popolare con una sorta di immunità nei confronti di qualsiasi altra autorità di garanzia e di controllo”
di Senator

     Fini a tutto campo su Berlusconi in un fuori onda con il Procuratore di Pescara Nicola Trifuoggi, seduto accanto a lui nella giornata conclusiva del Premio Borsellino. Berlusconi, dice il Presidente della Camera, “confonde il consenso popolare, che ovviamente ha e che lo legittima a governare, con una sorta di immunità nei confronti di qualsiasi altra autorità di garanzia e di controllo: magistratura, Corte dei Conti, Cassazione, Capo dello Stato, Parlamento. Siccome è eletto dal popolo…”.
     Registrato a sua insaputa il Presidente della Camera il 6 novembre scorso a Pescara, non sospettando minimamente che i microfoni del tavolo della presidenza fossero aperti e registrassero la conversazione privata parla anche di Spatuzza.
     “Io gliel’ho detto. Confonde la leadership con la monarchia assoluta. Poi in privato gli ho detto: ricordati che gli hanno tagliato la testa a… quindi “statte quieto”” aggiunge il Presidente della Camera replicando così a una battuta del Procuratore che si riferisce al Presidente del Consiglio: “È nato con qualche millennio di ritardo, voleva fare l’imperatore romano”.
     In realtà l’analisi di Fini è superficiale. Berlusconi non confonde il consenso popolare con una sorta di immunità nei confronti di qualsiasi altra autorità di garanzia e di controllo, usa il consenso per garantirsi l’immunità.
     Naturalmente le parole di Fini hanno scatenato la bagarre nel Centrodestra. C’è chi dice che con quelle sue parole si porta fuori dal Partito.
1° dicembre 2009

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