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Agosto 2010

L’analisi di Tornielli e del nostro Direttore (nel 2006). La Chiesa scarica Fini?
di Senator

     Leggo su DagoSpia un richiamo a quel che scrive Gianni Caracciolo per Italia Oggi. “Se Andrea Tornielli, vale a dire il vaticanista attualmente più vicino alle alte e altissime sfere vaticane, arriva a scrivere senza mezzi termini che “la chiesa scarica Fini”, beh, fossi in Gianfranco mi preoccuperei, non molto, ma moltissimo”. E aggiunge “pure se fossi un cattolico che volesse avvicinarsi ai futuristi. Nel pezzo si legge, tra l’altro:» Fini non ha alcun seguito nella Chiesa, non ha nessuno a cui appoggiarsi, il suo cambiamento di questi ultimi anni non lo riusciamo a capire…». Il giudizio, pronunciato da un alto e autorevole prelato d’Oltretevere, non lascia spazio a dubbi. E dubbi in proposito non hanno ne i cardinali ne i vescovi, ovvero la Cei”.
     Per cui mi corre l’obbligo, come si dice, di ricordare quello che ha scritto il nostro Direttore nel suo libro Un’occasione mancata (Editore Pagine), a pagina 92, un libro che si rivela ogni giorno più profetico, Il Direttore ci scherza su: “non ho la palla di vetro, ho studiato un po’ di storia e leggo, leggo molto, per cui mi sforzo di interpretare i fatti attraverso i comportamenti dei protagonisti delle vicende politiche”.
     Vediamo cosa aveva scritto nel 2006. “La Chiesa aveva scommesso su Fini, mi dice Arturo Celletti, brillante giornalista di Avvenire, nel corso di un incontro con Luciano Lucarini, che intende pubblicare un libro sulla famiglia in forma di intervista a Fini”.
     “Il nome di Celletti per il libro me lo aveva fatto lo stesso Fini. D’altra parte il tema della famiglia è tradizionalmente centrale nel pensiero di Alleanza Nazionale. Me ne parla a lungo Gustavo Selva nel mio studio, in attesa di incontrare Fini per un chiarimento, dopo la scelta referendaria del Presidente di AN sulla procreazione assistita. Selva, come Fiori, Mantovano ed altri esponenti di AN più impegnati sul versante dei valori propri della dottrina cattolica, sono a disagio per la scelta del leader sul referendum”.
       “Vede, mi dice Selva, al quale porto un’antica, profondissima stima per la sua attività giornalistica, soprattutto per la direzione del GR2 ed i suoi famosi editoriali che hanno segnato un’epoca, vede Consigliere, i documenti di Alleanza Nazionale parlano chiaro. La difesa della vita, fin dal suo concepimento, è impegno che il partito ha assunto tra i suoi fondamentali a Fiuggi”. Perché, si chiede, sinceramente angosciato, siamo venuti meno a quest’impegno?”
        “La scelta è individuale, personale del leader, e non coinvolge iscritti e simpatizzanti, liberi di votare secondo coscienza. Fini lo mette subito in evidenza. Ma è comunque per molti un trauma che lascia un segno. E mette in difficoltà molti. Io stesso, che non solo un politico ma un tecnico momentaneamente impegnato nelle istituzioni del governo con la mia professionalità di magistrato, quindi neutrale rispetto alle scelte politiche o dei politici”
        “La Chiesa aveva scommesso su Fini”… La stessa presenza del Vicepresidente a cerimonie religiose in rappresentanza del Governo, in occasione di beatificazioni o canonizzazioni, da Padre Pio a Monsignor Escrivà, a Madre Teresa di Calcutta, o di ricorrenze, come nel caso della Messa celebrata a Santa Maria Maggiore dal Cardinale Angelo Sodano, Segretario di Stato di Sua Santità, per ricordare le vittime della strage terroristica di Madrid dell’11 marzo 2004”.
        ” La Chiesa aveva scommesso su Fini certamente con ponderata fiducia nelle capacità del leader di costituire elemento di caoagulo di forze moderate, cattoliche e liberali, sul centro destra, oggi e nella prospettiva del dopo Berlusconi. Non c’è dubbio, infatti, che nell’incertezza degli anni a venire, nell’ipotesi di una diaspora di parte dell’elettorato di Forza Italia nel caso Berlusconi facesse un passo indietro, la Chiesa avrebbe volentieri voluto contare non solo su Casini, leader dell’UDC, ma anche su un’altra personalità sicuramente dotata di carisma nei confronti di un vasto elettorato di centro destra, capace di andare oltre, come si usa dire oggi, rispetto all’elettorato cattolico tradizionalmente intercettato dalla Democrazia Cristiana e dai suoi epigoni. Fini, appunto, che di questa vasta area politica aveva mostrato di sapersi fare interprete”.
        “Insomma, Fini per certi versi più affidabile di Casini, e certamente più di questo gradito ad ampie fasce di Forza Italia. Non ha forse detto Berlusconi in occasione della campagna elettorale per l’elezione del Sindaco di Roma che, se fosse stato cittadino dell’Urbe, avrebbe preferito Fini a Rutelli?”
       “Tutto perduto in un momento per un “sì”! È vero che la storia politica rivela cambi di rotta fino ad un minuto prima imprevedibili, straordinarie conversioni e clamorosi perdoni. Ma la perdita di affidabilità in politica si recupera con grande difficoltà. E comunque i perdoni pubblici presuppongono pubbliche ammende, come insegna la vicenda dell’Imperatore Enrico IV fuori delle mura del castello di Canossa, della Contessa Matilde, nel freddo inverno dell’Anno del Signore 1077, rimasto a lungo sotto la neve, privato delle insegne regali, ad attendere che il 28 di gennaio Papa Gregorio VII lo chiamasse dopo tre giorni di penitenza”.
     “È in vista una conversione? L’11 settembre 2006 a Cerignola, in occasione dell’apertura della festa che organizza Fabrizio Tatarella, “va in scena”, scrive Libero “una nuova versione teocon di Gianfranco Fini”. Dopo “lo strappo referendario sulla procreazione assistita, il leader di An rivaluta la tradizione della destra e alcune pagine della storia italiana, come il colonialismo”. Un Fini “tutto Dio, patria e famiglia, quello apparso nella patria di Pinuccio Tatarella, che è piaciuta molto al popolo cerignolano. Tanto da guadagnarsi la targa di Azione Giovani. “A Gianfranco Fini, in anni difficili indomito segretario dei giovani di destra, oggi lungimirante statista che punta sui giovani per disegnare la destra del futuro”, consegnatagli da Fabrizio Tatarella”.
     ” L’augurio che mi sento di fare, nell’interesse del Paese, che ha esigenza di una destra che si riferisca senza tentennamenti e senza ambiguità ai valori cristiani e nazionali, è che la “svolta” sia effettiva e non costituisca un episodio isolato al quale non seguono fatti concreti. Una di quei improvvisi coup de theatre ai quali Fini ci ha abituati, che piacciono tanto ai corsari della politica, meno all’elettorato che ricerca stabilità negli orientamenti ideali”.
     Fin qui la prosa del nostro Direttore. Siano ai primi di ottobre del 2006. Un’occasione mancata sarebbe andato nelle librerie solo un mese dopo, per essere, poi, presentato alla Fondazione Nuova Italia il 6 dicembre da Gianni Alemanno, Marcello Veneziani, Roberto de Mattei, Francesco Perfetti e Carlo Giovanardi, moderati da Luciano Lucarini, l’editore.
     L’augurio è superfluo. Fini si è scoperto laico, un po’ anticlericale, ha imbarcato un radicale come Benedetto Della Vedova, scomposto interlocutore dei cattolici nella vicenda di Eluana Englaro. Ogni scelta, ovviamente, è meritevole del massimo rispetto. Senza equivoci Fini l’ha fatta almeno due volte, quando ha votato sì al referendum sulla procreazione assistita, quando ha lasciato cadere l’iniziativa di presentare il disegno di legge sullo “Statuto dei diritti della famiglia”, cui avevano lavorato per oltre due anni i suoi uffici a Palazzo Chigi.
     Siccome “Dio fa impazzire coloro che vuol perdere”, la pazzia collettiva alla vigilia delle elezioni del 2006 ha fatto trascurare il tema della famiglia che avrebbe potuto assicurare alla coalizione l’appoggio dei cattolici in un confronto elettorale nel quale il Centrosinistra schierava l’ex democristiano Romano Prodi quale candidato alla Presidenza del Consiglio. Per cui a risultati definiti Francesco Storace, avendo letto Un’occasione mancata ha dato la sua versione della vicenda: “ho capito perché abbiamo perso per ventiquattromila voti quando avremmo potuto vincere per due milioni”.
     Non è necessario vincere. E’ importante affermare le proprie idee. E Fini lo ha fatto. Va apprezzata la sua scelta. Per Fini certamente “Parigi non val bene una Messa”. E’ un po’ come Pierre de Cubertin “l’importante è partecipare”, non vincere!.
31 agosto 2010

Gheddafi e l’Europa: il ricatto e l’orgoglio
di Diplomaticus

     Un tempo al ricatto dei predoni del deserto e dei pirati barbareschi, abituati alle scorribande ai confini degli imperi e degli Stati, si rispondeva con le armi e con l’occupazione dei territori ostili. Oggi, in democrazia, e sotto l’osservatorio dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, dove si deve fare i conti con i numeri dell’assemblea, dove siedono i rappresentanti di decine di paesi ex coloniali, si deve rispondere con la diplomazia, anche se l’Europa continua ad essere presente con missioni militari di pace a protezione delle minoranze oppresse e a salvaguardia dei confini incerti.
     Tutto questo è presente al dittatore libico che a Roma, capitale della cristianità, non solo preconizzare un’Europa islamica, ma minaccia non più solo l’Italia, dalla classe politica debole e incerta su tutto, ma il cuore dell’Europa intera, quella che conosce governi di ben altra fermezza dalla Germania di Angela Merkel alla Gran Bretagna di David Cameron, alla Francia di Nicolas Sarkozy.
     Chiede 5 miliardi di euro l’anno il leader libico, per fermare i clandestini diretti in Europa. Una minaccia neppure mascherata, perché il suo discorso significa, attenzione io posso spedirvi milioni di neri, e l’ho dimostrato con l’Italia, sia pure in misura minore. E l’ho convinta a collaborarle, a darmi denaro, motovedette e aiuti economici. Potere del petrolio, certo, ma anche della minaccia terroristica di un paese che ha una lunga storia di copertura se non di istigazione agli attentati.
     Per chi non avesse ancora capito, dietro il terrorismo, le stragi e Al Qaeda, la guerra in Afganistan, le minacce dell’Iran ad Israele sta uno scontro economico, politico e culturale tra l’Occidente opulento, che tuttavia non ha saputo affrancarsi dalla dittatura del petrolio, e chi l’oro nero possiede, ne trae grandi ricchezze, con le quali compra fette di Occidente. Una realtà della quale abbiamo esempi evidenti anche in Italia. con l’acquisizione di partecipazioni azionarie in imprese di grande rilevanza
     L’Occidente che non ha saputo affrontare per tempo il tema della ricerca delle energie alternative, perché gli operatori economici guardano ai guadagni immediati, perché negli Stati Uniti le Sette Sorelle sono legate ai produttori di petrolio arabi, perché i governi sono condizionati dalle regalie che i padroni del greggio di tanto in tanto, in vario modo, destinano ai governanti, deve adesso reagire.
     È un momento cruciale per l’Europa e il dittatore libico le assesta un colpo non indifferente minacciando l’invasione dei neri. Ci sono due modi di rispondere. Non più, ovviamente, quello delle armi, delle cannoniere, delle incursioni militari che ricordano tanto la guerra per il Canale di Suez o la crisi con la Libia quando i Tomcat della sesta flotta americana abbatterono gli aerei libici in perlustrazione nelle acque delle manovre navali.
     Serve fermezza. Una sorta di si vis pacem para bellum, la filosofia che dominava l’atteggiamento di Roma verso i popoli che si confrontavano con lei. Serve un’azione determinata, per rispondere alla provocazione. per reagire all’oltraggio. Serve un recupero di orgoglio, un’azione concreta di contenimento dell’invasione finanziaria dell’Occidente e contestualmente della ricerca, che ormai deve essere serrata, di fonti alternative capaci di sfruttare la ricchezza tecnologica, l’inventiva e la capacità operativa delle imprese occidentali, perché la peggiore delle condizioni politiche è quella di essere tributari di fonti di energia da paesi pronti al ricatto che non considerano il trasferimento di gas metano o di petrolio come una ordinaria operazione commerciale, ma tentano l’aggressione politica o il condizionamento psicologico politico, economico e finanche culturale, perché questo significa proporre o, meglio, minacciare all’Europa, che è cristiana nella sua genesi storica, la islamizzazione.
     Ecco gli effetti della esclusione delle radici cristiane dal Preambolo della Costituzione europea! Si è data l’impressione della rinuncia alle proprie radici culturali. Un segno di debolezza che ha incoraggiato i tipi alla Gheddafi.
Dimostrino i governanti dell’Europa forza e determinazione perché la trasformazione della comunità da economica in Unione Europea nella prospettiva di un’unione politica è l’unica speranza per i paesi del Continente.
     Per quel che riguarda l’Italia come scrive Franco Venturini sul Corriere della Sera di oggi, sono stati valicati i limiti per il buon nome del Paese. Una brutta figura.
31 agosto 2010

Le paure del Cavaliere
di Senator

      Al di là dell’ottimismo di facciata, di tutti politici, e dell’atteggiamento spavaldo che gli è proprio, Silvio Berlusconi sa che il suo governo è alle corde e non potrà realizzare i programmi che gli stanno a cuore. Quelli che dovrebbero fermare i giudici che si occupano di lui e dei suoi amici per le marachelle nelle quali si sono prodotti da imprenditori e uomini di affari. Per cui adesso pretendono l’impunità come uomini di governo. È una realtà che gli italiani stanno percependo dopo l’ubriacatura per il Presidente imprenditore, per l’uomo che si è fatto da sé, affascinati da quell’atteggiamento un po’ guascone di chi è stato abituato a gestire grosse somme di denaro in attività imprenditoriali, costantemente assistito da potenti amicizie politiche. Tutti ricordano il decreto legge con il quale Craxi ha riaperto le televisioni del Cavaliere oscurate con provvedimento del Pretore.
     Così sceso in politica, il “non politico” ha dimostrato di comprendere molto bene i comportamenti degli elettori, soprattutto in questi italiani che tradizionalmente propendono per l’uomo forte, o presunto tale, comunque per chi, per motivi  politici o per disponibilità economica, dimostra di poter fare quel che gli pare.
     Ma la preoccupazione di Berlusconi, che subisce in questo momento il fastidio della spina nel fianco di Gianfranco Fini, il quale si vendica di tutte le angherie che ha subito dal Cavaliere nel corso degli anni, riguarda anche l’attivismo di  Bossi che, a giorni alterni, preme per le elezioni. Il Premier ha capito, infatti, che il successo della Lega al Nord le darà la forza per ridimensionare ulteriormente il Cavaliere che, di fatto, ha accontentato in tutto e per tutto Bossi, il quale lealmente lo contraccambia votando i provvedimenti che stanno a cuore al Presidente del consiglio.
     La situazione in ogni caso è complessa. Nessuno è sicuro di vincere, tranne Bossi e Di Pietro. Ma entrambi sanno che la loro sarà una sorta di vittoria di Pirro in quanto i naturali alleati dei due, Berlusconi e Bersani, se indeboliti, non consentiranno di governare. In sostanza, sia che vinca il centrodestra sia che vinca l’attuale opposizione, la maggioranza al momento ipotizzabile è quella “alla Prodi”, cioè  modesta, almeno in uno dei rami del Parlamento, al Senato. Il Presidente del consiglio ed il Governo non potranno avere un una vita tranquilla, come appunto nell’esperienza del centro sinistra guidato da Romano Prodi tra il 2006 e il 2008.
     Questa situazione di stallo sconsiglia il ricorso anticipato alle urne in tempi brevi, sull’onda di scandali e scandaletti che hanno molto demotivato gli elettori.
     Berlusconi regge ancora per la sua improntitudine che colpisce favorevolmente una fascia dell’elettorato e soprattutto per la sua campagna elettorale, costantemente improntata all’anticomunismo che continua ad essere un argomento trainante per buona parte dell’elettorato di centro destra. Ma fino a quando?
     A settembre molte aziende non riapriranno. La situazione economica denuncia segni di ripresa ma la ripresa dell’occupazione e dei consumi interni è ancora lontana e la gente deve mangiare tutti i giorni del mese.
30 agosto 2010

Ho fatto un sogno:
Berlusconi distribuiva Vangeli alla folla di Tripoli
di Salvatore Sfrecola

     Ho fatto un sogno che, al risveglio, ritengo di difficile realizzazione. Ho visto Berlusconi con la sua t-shirt girocollo, solo, senza scorta né escort, seguito solo da un furgone pieno di copie del Vangelo edizione Mondadori, che il premier distribuiva alla folla del mercato e nelle vie di Tripoli. La Libia tornerà cristiana, declamava il Cavaliere con la sua oratoria di fede e d’amore.
     Dopo secoli di predominanza islamica, la terra che fu il granaio di Roma, una delle prime a rispondere al messaggio della Buona Novella tornerà cristiana, a riconoscersi in quell’insegnamento per cui tutti gli uomini sono figli di Dio, indipendentemente dalla razza, dal sesso, dalle condizioni economiche e culturali. Tutti uguali, con pari dignità.
     Confortato dal sogno ho dormito serenamente. Ma al risveglio sono tornato alla realtà e, accesa la TV, ho appreso dal telegiornale che il Colonnello Ghedddafi, ospite a Roma per festeggiare il secondo anno dell’accordo italo libico che ha chiuso l’annoso contenzioso sui “danni” subiti dalle popolazioni del deserto al tempo della nostra colonizzazione, aveva incontrato cinquecento giovani donne, in vario modo reclutate, sembra anche tramite un’agenzia che fornisce hostess, per far loro una lezione di Corano, e invitarle alla conversione, preconizzando che l’Europa tutta sarebbe diventata islamica.
     Ho ascoltato anche le interviste di alcune delle partecipanti alla lezione del premier libico. Una pena, persone senza cultura e senza identità, figuranti nel circo mediatico del dittatore di Tripoli. Non mi interessa lo show di Gheddafi. Mi deprime questo popolo che non riesce a sentirsi Nazione.
30 agosto 2010

Riflessioni sui collegamenti ferroviari verso il Brennero
Laggiù al Nord
di Bruno Lago

     Stazione Termini di Roma, ore 9:30 di un giorno di agosto: con la ricevuta di pagamento via internet mi avvicino ad un terminale per ritirare il mio biglietto per Fortezza. Vari tentativi ma il software non evidenzia una opzione “emissione biglietto”. Ne parlo in uno dei punti di informazione “Freccia Rossa” ma l’addetta insiste che l’opzione esiste.  Finalmente riesco a convincerla di informarsi telefonicamente e così vado dal capotreno che conferma il problema come riportato da altri viaggiatori. E’ solo l’inizio di una piccola personale odissea ferroviaria.
     Si parte e viaggio comodamente  in una carrozza di standard “europeo” . A Firenze una nota di colore, sale un venditore che strilla lungo le carrozze “panini, acqua, birra, fanta, coca!”. Un viaggiatore davanti a me acquista impavido ed io mi domando  come mai i ferrovieri di servizio lo abbiano lasciato salire. Arrivo comunque a Bologna in poco più di 2 ore e devo cambiare treno per Fortezza perché la linea   del Brennero è “servita”, per così dire, solo da un treno al giorno, la Freccia d’Argento che  arriva però solo a Verona.
     Unica possibilità dunque prendere il treno regionale per il Brennero dal Piazzale Ovest.  Arrivo al binario malgrado le scarse indicazioni e i lavori in corso che mi costringono a zig zagare attraverso un cantiere. Salgo a bordo di una carrozza di standard indefinibile, ma  sicuramente indecente, affollata come può essere un treno regionale. Naturalmente i posti non erano prenotabili via internet ma riesco comunque ad accomodarmi su un sedile consunto e soprattutto lercio. Cerco disperatamente un’alternativa di viaggio via internet con il mio iphone ma al centro di Bologna i collegamenti non risultano possibili!
     Si parte, i passeggeri si lamentano per il caldo asfissiante col capotreno che passa e apre alcuni finestrini.  Faccio appello a tutta la mia pazienza conscio del fatto che, dopo aver percorso circa 380 km ad una media di 180 km/ora, i prossimi 330 saranno percorsi ad una media appena superiore agli 80 km/ora con ben dieci fermate tra Bologna e Verona ed altre 11 fino a Fortezza. Prezzo complessivo del viaggio 76 euro, una enormità per viaggiare ad una media di 110 km/ora sull’intero percorso in sei ore e trentaquattro minuti.
     Ebbene sì, per quanto incredibile, queste sono le condizioni in cui si viaggia  nel nord Italia, non in Sicilia attenzione, ma lungo il mitico corridoio 1 di cui favoleggiano politici ed euro burocrati, corridoio che unendo Berlino con Palermo, sarebbe il motore di sviluppo per tutte le regioni attraversate grazie ad un maggiore volume di traffici di persone, beni e servizi derivante dal (futuro) potenziamento delle infrastrutture .
     Come mai ci ritroviamo invece con servizi ferroviari così scadenti in una delle aree più sviluppate del Paese? Che ne è stato del tanto sbandierato “quadruplicamento” da parte delle FS della linea Bologna/Verona? Che dire poi della politica delle Ferrovie di mantenere al minimo i collegamenti lungo questa tratta, magari per esercitare pressioni sulle due regioni Veneto e Trentino Alto Adige per ottenere una maggiore partecipazione al finanziamento dei treni regionali per i pendolari?
     E’ ben noto agli addetti ai lavori che, pur essendo lontana l’entrata in servizio del Tunnel Ferroviario del Brennero, i ritorni attesi dipendono anche dalla fidelizzazione dei traffici su questa direttrice. Invece il collegamento Bologna Brennero rimane inspiegabilmente trascurato dalle FS al punto da essere servito con una coppia di treni giornalieri dalle ferrovie austriache e tedesche tra Bologna/Milano e Monaco. Una strategia incomprensibile quella di FS, ma almeno i viaggiatori e turisti italiani cominciano a utilizzare questi treni, scarsamente pubblicizzati, ma di standard sicuramente europeo trovando una alternativa ad un servizio di pessima qualità.
     Quello che colpisce di più in questa situazione è il silenzio della politica locale ed è inevitabile domandarsi come sia possibile che i descritti collegamenti da terzo mondo siano accettati dal sindaco di Verona, Tosi, cosi attivo nelle rivendicazioni leghiste per la Padania, dal governatore Zaia, dai presidenti delle provincie di Trento e Bolzano, le aree settentrionali del Paese attraversate dal corridoio 1. Possibile che questi politici non levino le loro voci per perorare la causa dei loro territori così malamente  collegati dalla ferrovia? Posso immaginare che alcuni di questi signori siano più interessati dai collegamenti est ovest, magari per andare a Ponte di Legno, ma come si fa a trascurare dal punto di vista economico per le aree suddette l’importanza di un collegamento efficiente con Bologna, Firenze o Roma? Perché penalizzare l’accessibilità turistica e commerciale di province come Trento e Bolzano, strozzate dai perenni ingolfamenti dell’Autostrada del Brennero?
     E’ triste concludere che il problema dei collegamenti ferroviari in queste aree, a giudicare dalle polemiche estive sui giornali nelle passate settimane, non è importante per l’opinione pubblica come la questione del bilinguismo sui cartelli turistici che indicano i rifugi alpini in Alto Adige!
29 agosto 2010      

Italia fanalino di coda in Europa
Spese per la famiglia e la maternità solo l’1,4% del Pil (2,5% in Francia, 2,8% in Germania)
di Paola Maria Zerman

      Nel 2009 l’Italia ha speso per famiglia e maternità l’1,4% del Prodotto interno lordo (Pil), un dato che colloca il nostro Paese ai livelli più bassi in Europa, anche se rispetto al 2007 (1,2%) un modesto 0,2% può fornire qualche elemento di fiducia.
     Lo si ricava dalla Relazione sulla situazione economica del Paese, pubblicata dal Ministero dell’Economia e delle finanze. Il documento mette a confronto la spesa sociale dei vari paesi europei nel 2007, anche se la Relazione offre “un aggiornamento al 2009 dei soli dati relativi all’Italia”.
     L’1,4% dice che siamo in coda alla classifica, molto lontani dal 3,7% sul Pil che si spende in Danimarca o dal 3% della Svezia, dal 2,8% della Germania o dal 2,5% della Francia, paesi che spendono il doppio per la famiglia rispetto al nostro Paese.
     Anche per quanto riguarda la quota di spesa nell’ambito di tutte le prestazioni di protezione sociale il dato non è confortante. Tra i 27 Paesi dell’Unione europea la media complessiva è dell’8%. Mentre nel nostro Paese la quota per la famiglia e la maternità, nell’ambito della spesa per welfare, pesa il 4,7%, così superando appena la Polonia il 4,5%.
     La spesa per invalidità, vecchiaia e pensioni ai superstiti, invece, è più elevata (17,1%) che negli altri Paesi: la media dei 27 è del 13,7%. La quota di spesa per queste voci è pari, nel nostro Paese, al 67,1% del costo totale delle prestazioni.
     La Relazione sulla situazione economica del Paese fotografa, pertanto, una condizione già da noi altre volte segnalata, la disattenzione per la maternità, che contribuisce a collocare l’Italia in coda ai paesi europei in fatto di natalità, con conseguenze più volte denunciate anche in sede politica per la tenuta dei conti sul sistema complessivo della previdenza.
     Conseguenza di politiche sbagliate, che non considerano i figli una risorsa per il Paese, che contraddicono a precise disposizioni costituzionali che pongono la famiglia, “società naturale fondata sul matrimonio”, al centro della società, che trascurano il valore sociale dell’educazione e dell’istruzione affidato alle famiglie come momento fondamentale della crescita della società e della preparazione dei futuri cittadini e lavoratori.
     Il fisco, soprattutto, strumento da sempre di politica economica, trascura di considerare, attraverso un equilibrato sistema di detrazioni e deduzioni, l’esigenza delle famiglie, specie se numerose, che pure la Costituzione prescrive di aiutare, alle quali va riconosciuto un ruolo virtuoso nell’educazione dei figli, nel risparmio e negli investimenti, quel ruolo che ne fa un sollecitatore dell’economia del quale i governi si dovrebbero ricordare quando lamentano, perché protestano i commercianti, la contrazione dei consumi interni. Come dovrebbero consumare le famiglie se l’aumento del costo della vita, incrementatosi in assenza di adeguati controlli dell’autorità pubblica, limita le risorse disponibili, che spesso non consentono di giungere alla fine del mese?
     Se Governo e Parlamento non prenderanno atto che la famiglia è il motore dell’economia ed il sensore più evidente delle sue disfunzioni, alla prossima Relazione sulla situazione economica del Paese torneremo a commentare dati desolanti che assegnano all’Italia il poco nobile posto in coda ai paesi civili dell’Europa e del Mondo.
     E’ il momento di rimboccarsi le maniche. Quella che interessa la famiglia è una riforma importante per il futuro del Pese, una di quelle che effettivamente urge avviare e portare a termine, mentre la classe politica si divide su problemi personali dei protagonisti della vita pubblica o sugli interessi di questa o di quella lobby.
29 agosto 2010

APPELLO PER L’UNINOMINALE

     Pubblichiamo l’appello dell’Associazione per l’uninominale, con sede in Roma, via di Torre Argentina, 76, www.uninominasle.it, documento sottoscritto già da numerosi studiosi e politici, che intende battersi per la riforma delle legge elettorale in senso uninominale, per restituire al popolo il potere di scelta dei suoi rappresentanti in Parlamento, oggi impedito da una legge partitocratica che mette nelle mani dei segretari dei partiti e dei capicorrente la composizione delle Camere, un meccanismo che è la negazione della democrazia e che pertanto piace tantissimo agli oligarchi che ritengono le istituzioni “cosa loro”.
     L’appello dell’Associazione per l’uninominale  ha anche la funzione di risvegliare negli italiani l’interesse per la politica, intesa come massima espressione della partecipazione democratica alla vita della Nazione.
Salvatore Sfrecola

APPELLO PER L’UNINOMINALE

Per ottenere finalmente anche nel nostro Paese quella stabilità e certezza delle leggi elettorali che gli standard democratici internazionali raccomandano e in qualche misura esigono, approdare a una riforma elettorale effettiva, durevole e orientata nel senso del collegio uninominale indicato in modo nettissimo dagli italiani a grande maggioranza nel referendum del 1993, poi in larga parte disatteso dal legislatore, adottare finalmente anche in Italia un sistema elettorale ispirato ai modelli sperimentati ormai da secoli in regimi civili – quali quelli anglosassoni – che si sono rivelati tra i più fecondi sul piano della democrazia, della sicurezza e del benessere dei propri cittadini, dare agli elettori la piena libertà, l’effettivo pieno potere e la piena responsabilità di scegliere il Governo e gli eletti, assicurando un rapporto personale efficace dell’eletto con chi lo elegge, promuovere in questo modo, al tempo stesso, l’autonomia della società civile e la laicità dello Stato, intesa come metodo indispensabile di cooperazione per il bene comune tra persone di fedi o ideologie diverse, ridurre il costo delle campagne elettorali e tagliare il costo – divenuto insostenibile – delle rendite che gli apparati dei partiti si assegnano quando si consente loro di assumere la funzione di tramite tra i cittadini e i parlamentari, Primi firmatari dell’appello
Pietro Ichino, giuslavorista nell’Università di Milano, senatore PD; Mario Baldassarri, economista, senatore FLI; Alfredo Biondi, avvocato, già Vice Presidente della Camera; Antonio Bonfiglio, Sottosegretario di Stato alle Politiche agricole e forestali; Emma Bonino, Vice Presidente del Senato; Marco Cappato, Segretario dell’Associazione Luca Coscioni; Stefano Ceccanti, costituzionalista nell’Università “La Sapienza” di Roma, senatore PD; Umberto Croppi, Assessore alla Cultura del Comune di Roma; Sergio D’Elia, Segretario di Nessuno Tocchi Caino; Franco Debenedetti, economista, opinionista; Benedetto Della Vedova, deputato FLI; Stefano De Luca, Segretario del Partito Liberale Italiano; Michele De Lucia, Tesoriere di Radicali italiani; Giuseppe Di Federico, processualista nell’Università di Bologna; Salvo Fleres, senatore PDL; Jas Gawronski, giornalista, parlamentare europeo PPE; Roberto Giachetti, deputato PD; Maria Ida Germontani, senatrice FLI; Domenico Gramazio, senatore PDL; Giovanni Guzzetta, Professore di Istituzioni di diritto pubblico, Università di Tor Vergata, Roma; Ignazio Marino, chirurgo, senatore PD; Antonio Martino, economista, deputato PDL; Enrico Morando, senatore PD; Magda Negri, senatrice PD; Francesco Nucara, segretario del Partito Repubblicano Italiano, deputato Gruppo Misto; Federico Orlando, politico e giornalista, condirettore di Europa; Tullio Padovani, penalista, Scuola Superiore di Studi Universitari Sant’Anna di Pisa; Angelo Panebianco, politologo nell’Università di Bologna, saggista e opinionista; Marco Pannella, Partito radicale transnazionale; Gianfranco Pasquino, politologo nell’Università di Bologna; Mario Patrono, professore di diritto pubblico e di diritto comunitario, Università La Sapienza di Roma; Mario Pepe, deputato PDL; Stefano Rolando, saggista, economista nell’Università IULM; Nicola Rossi, economista nell’Università di Tor Vergata – Roma, senatore PD; Michele Salvati, economista nell’Università di Milano, opinionista; Carlo Scognamiglio, economista, già Presidente del Senato; Mario Staderini, segretario di Radicali italiani; Sergio Stanzani, già senatore, Presidente del Partito radicale transnazionale; Marco Taradash, Consigliere regionale della Toscana, PDL; Giorgio Tonini, Senatore PD; Silvio Viale, medico, direzione Associazione Luca Coscioni; Valerio Zanone, già segretario del Partito liberale
Hanno inoltre già aderito i Parlamentari della Delegazione Radicale nel gruppo del PD e i Consiglieri regionali del Lazio Marco Beltrandi, Rita Bernardini, Maria Antonietta Farina Coscioni, Matteo Mecacci, Marco Perduca, Donatella Poretti, Maurizio Turco, Elisabetta Zamparutti; i Consiglieri regionali del Lazio Rocco Berardo e Giuseppe Rossodivita; e Mina Welby.
28 agosto 2010

L’Italia continua a trascurare la direttiva europea sul 112
Che fine ha fatto il “numero unico delle emergenze?”
di Salvatore Sfrecola

     Nei giorni scorsi, in televisione, un film poliziesco di produzione tedesca, Squadra speciale Cobra 11, metteva in scena autovetture di soccorso sulle cui fiancate campeggiava il numero 112. Ugualmente recentemente, nel corso di un telegiornale, si è vista un’ambulanza turca, la Mezzaluna Rossa, che recava sulla fiancata, visibilissimo il numero 112. Si sa che la Turchia aspira ad entrare nell’Unione Europea.
     Proprio dell’Unione Europea, infatti è il numero unico delle emergenze, il 112 appunto, introdotto nel 1991 per mettere a disposizione un numero di emergenza unico per tutti gli Stati membri, in aggiunta ai numeri di emergenza nazionali, e rendere così più accessibili i servizi di emergenza, soprattutto per i viaggiatori. Dal 1998 la normativa dell’UE impone agli Stati membri di garantire che tutti gli utenti di telefonia fissa e mobile possano chiamare gratuitamente il 112. Dal 2003 gli operatori di telecomunicazioni devono fornire ai servizi di emergenza informazioni sulla localizzazione del chiamante per consentire loro di reperire rapidamente le vittime di incidenti. Gli Stati membri hanno inoltre il compito di sensibilizzare i cittadini sull’uso del 112.
     Per garantire l’operatività del 112, la Commissione ha lanciato 17 procedure d’infrazione contro 15 paesi in cui esso non era disponibile, non era attiva la funzione di localizzazione del chiamante o la gestione delle chiamate risultava inadeguata. La maggior parte di tali casi sono stati chiusi a seguito dell’adozione di misure correttive.
     Solo un europeo su quattro, tuttavia, è a conoscenza del fatto che questo numero salva-vita esiste in altri Stati membri e quasi tre persone su dieci, tra quelle che hanno chiamato il 112 in altri paesi, hanno avuto problemi linguistici.
     La Commissione, d’intesa con il Parlamento europeo e il Consiglio, ha dichiarato l’11 febbraio “Giornata europea del 112” al fine di promuovere il numero unico di emergenza dell’UE e spingere le autorità nazionali a renderlo più multilingue.
“Il numero di emergenza europeo dovrebbe cessare di essere il segreto meglio custodito d’Europa. Disponiamo di un numero unico, il 112, che funziona per tutte le emergenze e per ogni Stato membro e cittadino che ne ha bisogno. Ma è inaccettabile che meno di un quarto dei cittadini conosca questo numero o che le barriere linguistiche impediscano ai viaggiatori che chiamano il 112 di comunicare con l’operatore” ha dichiarato Viviane Reding, Commissaria europea responsabile delle telecomunicazioni.”L’UE deve sforzarsi di garantire la sicurezza dei suoi 500 milioni di cittadini con lo stesso impegno con cui si è adoperata per garantire loro la possibilità di viaggiare liberamente tra i 27 paesi. La prima giornata europea del 112 dovrebbe sensibilizzare le autorità nazionali circa la necessità di aumentare il numero di lingue disponibili nei loro centri di emergenza ‘112’ nonché promuovere la conoscenza di questo numero.”
     Un sondaggio, condotto in tutta l’UE per conto della Commissione europea, mostra che il 94% dei cittadini europei ritiene sia utile disporre di un numero unico di emergenza accessibile in tutta l’Unione. Il sondaggio Eurobarometro ha messo inoltre in evidenza i settori in cui è ancora possibile apportare miglioramenti.
     Tuttavia, solo il 24% degli europei interpellati è stato in grado di identificare spontaneamente il 112 come il numero a cui rivolgersi per ottenere servizi di emergenza in tutta l’UE. Ciò costituisce un miglioramento del 2% rispetto al febbraio 2008, ma la conoscenza del numero di emergenza dell’UE varia notevolmente da un paese all’altro, dal 3% in Italia al 58% nella Repubblica ceca. Molti Stati membri informano i propri cittadini e i visitatori in merito al 112. In particolare:
–       in Finlandia la giornata del 112 si celebra annualmente l’11 febbraio;
–      i viaggiatori che si recano in Bulgaria ricevono un SMS di benvenuto contenente informazioni sul 112;
–       il 112 è pubblicizzato lungo le autostrade e presso i caselli autostradali in Austria, Grecia e Spagna, nonché nelle stazioni ferroviarie e negli aeroporti di alcuni paesi fra cui il Belgio, la Repubblica ceca, l’Estonia, l’Irlanda, la Grecia e i Paesi Bassi;
–       in Svezia, prima dell’inizio della stagione turistica, vengono organizzate campagne di informazione nei media che informano i cittadini in merito al 112.
     Per garantire la conoscenza del 112 in tutta l’Europa la Commissione europea, d’intesa con il Parlamento europeo e il Consiglio, sono impegnati a pubblicizzare il 112, soprattutto in prossimità delle vacanze estive.
     Benché in genere il 112 completi gli altri numeri nazionali di emergenza esistenti, la Danimarca, la Finlandia, i Paesi Bassi, il Portogallo, la Svezia e di recente la Romania hanno deciso di farne il loro principale numero di emergenza nazionale. In altri paesi, il 112 è il solo numero disponibile per determinati servizi di emergenza (ad esempio in Estonia e Lussemburgo per le ambulanze o i vigili del fuoco). Informazioni si possono leggere su http://ec.europa.eu/information_society/activities/112/index_en.htm
     E in Italia? Il 112  è il numero dell’Arma dei carabinieri, forse per questo la solita ritrosia italiana a coordinarsi con altri non fa decollare questa importante direttiva comunitaria destinata, nella impostazione della Commissione e delle altre istituzioni dell’U.E., a rendere l’Europa percepibile anche in un settore delicato come quello delle emergenze, mettendo a disposizione dei cittadini europei uno strumento formidabile in caso di necessità.
     Da noi “il Governo del fare” non ritiene evidentemente di dover fare in questo settore perché, a leggere l’impegno comunitario e quel che fanno in altri stati membri, noi siamo talmente indietro che la questione 112 è nota solo a pochi e ogni tentativo minimo di attivare il “numero unico”, come un’esperienza di qualche anno fa in provincia di Salerno, rimane un caso isolato.
     Troppo impegnati a litigare tra loro i nostri politici!
27 agosto 2010

IL “FATTORE E”
Stop alle ipotesi di voto: la paura dei partiti
di Senator

     Alla vigilia del vertice di Villa Campari Bossi era stato esplicito: “Silvio il bersaglio sei tu. Meglio andare a votare”. Ma al termine del colloquio la decisione è stata quella di proseguire nell’esperienza di governo ma, è da immaginare, con molta cautela, per evitare che i seguaci di Fini si sfilino dalla maggioranza e determinino quella situazione di crisi che Berlusconi teme perché sa che dietro l’angolo c’è inevitabilmente il tentativo di Napolitano di costituire un governo per preparare le elezioni.
     Tuttavia è evidente che stare fuori dal governo, anche per pochi mesi, per i componenti dell’attuale maggioranza avrebbe effetti disastrosi. Per chi è abituato agli annunci di riforme o di successi, tutti comunque da verificare, uscire dalle stanze dei bottoni costituisce un grave handicap nella vigilia elettorale. Paradossalmente, inoltre, gli italiani potrebbero percepire che l’assenza di un governo “politico”, ma rissoso al suo interno e polemico, anche pregiudizialmente, nei confronti dell’opposizione,  non sempre è un male, in qualche misura ha effetti positivi sull’economia.
     Dice infatti bene oggi Paolo Franchi sul Corriere della Sera, a proposito del vertice (“La scommessa”) di cui non si conoscono nel dettaglio le decisioni, per cui “le sorti di governo e legislatura restano incerte oggi proprio come lo erano qualche giorno fa, quando Bossi, ragionevolmente convinto di essere l’unico di avere tutto da guadagnare (almeno in termini di percentuali elettorali) in caso di voto anticipato, sembrava non voler sentire ragioni in proposito, è il Pdl, che altrettanto comprensibilmente questa certezza non la nutre, lanciava segnali di fumo a Pier Ferdinando Casini”.
     In realtà, la decisione di cercare in tutti i modi di rinviare di qualche mese una crisi politica nell’aria da tempo è stata una decisione che non poteva essere evitata. Infatti, se Bossi pensa di uscire vincitore in una campagna elettorale nella quale presenta fra l’altro le roccaforti del Piemonte e del Veneto saldamente in mano ai suoi Governatori, con i successi di Maroni al Ministero dell’interno, con buona possibilità di fare man bassa di voti nel Nord, per il Cavaliere le prospettive non sono altrettanto rosee. A livello nazionale per il Pdl la situazione potrebbe configurarsi come fortemente incerta. E’ molto probabile, infatti, che il successo della Lega sarebbe ottenuto in gran parte a danno di Berlusconi, mentre al Centro e al Sud, tra Partito Democratico, che manterrà le sue posizioni nelle tradizionali roccaforti della sinistra, e una possibile ripresa del movimento che ruota intorno a Fini al quale, fra l’altro, Bossi ha fatto nei giorni scorsi un grosso piacere quando ha detto che il Presidente della Camera chiede i soldi per portarli al Sud. Con la conseguenza che potrebbe aversi un risultato elettorale “alla Prodi” che vanificherebbe di fatto il successo della Lega.
     In sostanza, chi ha gettato acqua sul fuoco dopo averlo fatto divampare, cioè il Cavaliere, è perfettamente consapevole della difficoltà di bissare il successo elettorale del 2008 che lo ha riportato a Palazzo Chigi con una maggioranza consistente ma evidentemente minata da forti dissidi e dalla scarsa valentia politica dei suoi componenti, tanto che siamo arrivati alla situazione di crisi di questi giorni.
     Accadrà quindi che il governo continuerà a tirare a campare, come si diceva al tempo della prima Repubblica, per cadere e all’inizio dell’anno e consentire a Napolitano, dopo una rapida consultazione o un tentativo di formare un governo per le elezioni, di andare al voto in primavera. In questo caso, anche se fuori dal governo per due o tre mesi, probabilmente Berlusconi riuscirebbe a conservare gran parte del credito che vanta con una parte degli italiani.
    A Villa Campari, in sostanza, è stato scelto il male minore. Rimane un teatrino della politica che l’Italia non può permettersi e che gli italiani non meritano perché nei prossimi mesi, probabilmente, non solo non avremo un governo degno di questo nome ma dovremo assistere ad iniziative che continueranno a dividere gli italiani soprattutto in materia di giustizia penale e stavolta anche civile, perché anche quella civile preoccupa ambienti vicini al Cavaliere e lui stesso. Per cui ci troveremo con una lunga campagna elettorale fatta di spot e di allargamento o dei cordoni della borsa in alcuni settori, per alcune esigenze elettorali di questo o di quel personaggio della maggioranza.
      Ciò che di peggio non si potrebbe immaginare.
26 agosto 2010

Su La 7 confronto Cota – Binetti per parlare del nulla
di Senator

     “Sono stata sempre di sinistra”. Su E-Polis Paola Binetti ribadiva le ragioni della sua scelta di candidarsi nel Partito Democratico, sponsorizzata da Francesco Rutelli.
     Poi la sua difficile battaglia per affermare, in un partito di ex comunisti, la sua identità cattolica, anche se con le venature populiste dei cattolici “di sinistra”, che non sono quelli che dal centro guardano a sinistra, come diceva De Gasperi. Cattolici certamente, ma politici dalle idee scarse e confuse che occupano la scena spesso senza consenso elettorale, senza che qualcuno, che non fosse il segretario del partito li abbia scelti e collocati in posizione “utile” nella lista. Non accade in nessuna democrazia  occidentale.
     Per cui, non avendo un suo elettorato oggi Paola Binetti si colloca al centro e ne difende il ruolo, quello che fino alla sua trasmigrazione criticava duramente.
     E si confronta con Cota, su La7 su “In onda”, che, invece, di consenso ne ha avuto nelle elezioni regionali, che si professa cattolico ma sostiene che un giornale cattolico, Famiglia Cristiana, non può criticare il governo. Una enormità della quale evidentemente non si rende conto, il senso di una politica che non ama il confronto perché spesso non sa su cosa confrontarsi.
     Significativa la performance dei due che hanno parlato di tutto tranne che dei problemi del Paese, della gente, quella in nome della quale dicono di parlare, sul piano dei valori e degli interessi. Il fatto è che i primi sono confusi ed i secondi non li conoscono. Vivono in un mondo tutto loro, quello della politica, con la “p” minuscola, perché quella alla quale ci avevano abituato i nostri amici di qualche decennio fa, quando, alla ripresa dopo la miseria della guerra, si rimboccarono le maniche per costruire case, strade, scuole, per favorire l’iniziativa imprenditoriale ovunque in Italia. E fu il boom economico. Quei politici non ci sono più, non hanno lasciato eredi degli di questo nome.
     Così  in una serata noiosissima Roberto Cota e Paola Binetti fanno prove di inciucio, ma solo per esigenze di copione, perché, in realtà, sono su posizioni diverse, il Governatore piemontese, espressione della destra più popolare, meno ideologizzata, dalle aspettative semplicistiche, l’intellettuale cattolica integralista senza esperienza di governo. Direi senza percezione di cos’è il governo delle cose che interessano alla gente. Sì, c’è stato un riferimento al “quoziente familiare” messo lì insieme ad altre cose di quella che i due ritengono sia la politica. Cioè l’aria fritta della quale un po’ tutti, da destra a sinistra, amano riempirsi la bocca. Aumentando il disgusto dei cittadini!
25 agosto 2010

Taccuino di viaggio
Irlanda: l’inno e l’orgoglio
di Salvatore Sfrecola

     Una permanenza di pochi giorni a Dublino, per motivi di studio, mi ha consentito, complici alcune letture “propedeutiche”, di percepire la storia del popolo irlandese di ammirarne l’arte e di innamorarmi della natura, del verde intenso delle sue valli e delle colline che delimitano il paesaggio, dei fiori che adornano e circondano le case, che ingentiliscono le strade della Capitale. Una storia, quella dell’Irlanda, distaccatasi dalla Corona d’Inghilterra al termine di un percorso di liberazione fatto di pensiero e d’azione, di rivendicazioni culturali e di atti eroici, che ricordano il nostro Risorgimento.
     Una viaggio culturale tra storia ed attualità, il mio, in un Paese che ha detto la sua anche nell’Unione Europea, per la verità non sempre apprezzato per alcune iniziative che sbrigativamente (e già ne chiedo venia) potremmo definire euroscettiche, ma che forse rivelano la speciale sensibilità di un popolo orgoglioso della sua autonomia di fronte ad un’Europa che entra spesso troppo nelle prerogative degli stati membri per le quali non c’è stata cessione di sovranità. Per cui la bocciatura del Trattato di Lisbona che tuttavia non ne ha impedito l’entrata in vigore.
     Scriverò ancora degli stimoli che ho ricevuto dalla breve esperienza di Dublino in fatto di arte, cultura e rispetto della natura. Così come delle sue istituzioni, in un momento di fervida riflessione sulla nostra Costituzione e sull’attualità di alcuni istituti.
     Voglio, tuttavia, iniziare da un dato che si ricollega all’orgoglio nazionale, quel sano, legittimo orgoglio che i popoli consapevoli della propria storia e della propria identità non intendono perdere.
     Recatomi ad assistere ad uno spettacolo di canti e balli irlandesi, le tradizionali ballate che tante volte abbiamo ammirato nei film americani sull’epopea del Far West, ho seguito l’ottima performance di cantanti, chitarristi e suonatori di timpani e cornamuse. Con una sorpresa finale. Prima di iniziare l’ultimo pezzo il chitarrista cantante ha invitato tutti ad alzarsi in piedi. Ho presto capito che avrebbe suonato l’inno nazionale. E’ seguito un applauso di tutti i presenti, intenso e prolungato.
         Mi sono chiesto se sia immaginabile in Italia uno spettacolo in un locale pubblico che si chiuda con il suono dell’Inno di Mameli, con la gente in piedi che applaude. Non potrebbe accadere. Ancora non è retorica patriottarda, come si usava dire un tempo, Forse molti considererebbero eccessivo quel pezzo musicale eseguito a chiusura di uno spettacolo. Siamo sempre un po’ eccessivi. C’è voluto il Presidente Ciampi perché nelle cerimonie militari si cantasse l’Inno nazionale e non si riesce a sentire due strofe da quei signori milionari che vestono la maglia azzurra della nazionale di calcio ed ai quali nessuno rimprovera le figuracce che da qualche tempo fanno fare ai nostri colori.
24 agosto 2010

Quando troppi si servono dello Stato
Francesco Cossiga: “Un onore aver servito la Patria”
di Salvatore Sfrecola

     Frase d’altri tempi, si direbbe, in una stagione politica nella quale  molti, troppi, si servono dello Stato a fini privati, di interesse per le “caste” e le “cricche”, come dimostrano le cronache quotidianamente. Frase autentica, sintesi di una vita spesa nelle istituzioni per le istituzioni alle quali si avvicinava col rispetto di chi sa che quelle cariche pubbliche sono funzionali agli interessi della comunità, cioè per il bene comune.
     La sua “carriera” politica è stata esemplare di un grande uomo di Stato, che ha servito Governo e Parlamento e l’intera comunità nazionale quale Presidente della Repubblica, eletto al primo scrutinio dal Parlamento in seduta comune.
     Credeva nelle istituzioni e nel loro ruolo. Così ha calato il piccone non sulle strutture del Governo e del Parlamento ma su chi ne interpretava in modo anomalo il ruolo, coloro che, come dicevamo, si servivano di esse anziché servirle. Sempre vigile, questo autentico liberale, cattolico fortemente credente ma laico come i grandi statisti che hanno lasciato un segno nella storia d’Italia, non si è mai sottratto al confronto, all’interno della Democrazia Cristiana e con gli altri partiti e con le personalità che li incarnavano nell’agone politico, da Berlinguer a Craxi. Con lui la politica, che in Italia ha spesso assunto le caratteristiche di una rissa da cortile, ha raggiunto livelli elevati di approfondimento, sempre con attenzione agli interessi della gente, Che lo ha capito. La cui volontà Cossiga ha interpretato proprio con le sue picconate, colpendo là dove le cose non funzionano. Indicando anche dove si doveva intervenire per riformare.
     Uomo politico attento e consapevole della complessità del funzionamento delle istituzioni si è sempre circondato di collaboratori di valore, grand commis con lunga esperienza, grande capacità di lavoro e, come lui, rigorosi servitori dello Stato. Ne voglio ricordare alcuni che ho conosciuto da giovane funzionario ed incontrato successivamente. Arnaldo Squillante, Consigliere di Stato, suo Capo di gabinetto a Palazzo Chigi, l’Ambasciatore Sergio Berlinguer suo Consigliere diplomatico e poi Luigi Zanda, Capo dell’Ufficio Stampa, Enzo Mosino, Prefetto e poi Consigliere della Corte dei conti che ancora gli faceva da Capo di gabinetto a Palazzo Giustiniani. Per limitarmi ad alcuni con i quali ho avuto dimestichezza e rapporti di amicizia. Ricordandoli per il loro impegno a fianco del Presidente viene spontaneo il confronto con la modestia di molti dei “consiglieri” che circondano il Presidente del Consiglio e molti ministri. Modesti, anzi modestissimi, scelti perché solo con questi livelli professionali alcuni dei nostri politici sono disposti a lavorare.
     Rispettoso delle istituzioni nella realtà, non solo nella forma. Ricordo che, nominato Ministro dell’interno in una stagione particolarmente difficile della vita politica italiana, quella dell’aggressione terroristica allo Stato (ricordiamo che si dimise dopo la morte dell’amico Aldo Moro), uno dei suoi primi atti fu quello di far visita al Consigliere della Corte dei conti delegato al controllo sugli atti e sulle contabilità del Ministero.
     Ci mancherà Francesco Cossiga con la sua ironia, con la sua passione per la battuta, con i riferimenti storici di uno che capisci subito averla studiata a fondo. Uomo colto, di vaste letture, ottimo oratore, penna felice, come dimostra la sua prosa, l’attenzione che metteva anche nei comunicati stampa.
     Ha lasciato libri ed interviste. Anche di recente il suo “Fotti il potere”, scritto con Andrea Cangini con un significativo sottotitolo “Gli arcana della politica e dell’umana natura”. Torneremo sulle picconate del Presidente emerito della Repubblica le richiameremo ogni qualvolta la politica politicante dimostrerà i suoi limiti, l’incapacità di guardare lontano, alla prossima generazione, anziché alle prossime elezioni, come amava dire Alcide De Gasperi per dire ciò che distingue i politici dagli statisti.
17 agosto 2010

Con l’attacco a Napolitano
Si alza il tono della polemica
di Senator

     Gli osservatori più attenti e sereni avevano visto nelle parole di Napolitano, all’indomani del suo ritorno dalle ferie, una mano data al Presidente del Consiglio. L’invito ad “abbassare i toni”, a “compiere uno sforzo di responsabile ponderazione tra le esigenze della chiarezza politica e quelle della continuità della vita istituzionale, guardando al paese che ha bisogno di risposte ai propri problemi anziché di rese di conti e di annunci minacciosi nell’arena politica cui non consegua alcuna prospettiva generatrice di fiducia” è sembrato un richiamo ad una moderazione responsabile, a pensare soprattutto al Paese. Non potrebbe non essere considerato un intervento di attenzione per le ragioni del governare.
     Non si comprende, pertanto, l’attacco pesante e decisamente scomposto che l’On. Maurizio Bianconi, Vice Capogruppo del Pdl a Montecitorio, ha sferrato al Presidente, così sintetizzato nel titolo dato da Il Giornale del 15 agosto all’intervista raccolta da Paola Setti: “Finge di rispettare la Carta, ma la tradisce”. Che si è meritata la risposta dura e stizzita del Quirinale. “Essendo questa materia regolata dalla stessa Carta (di cui l’on. Bianconi è di certo attento conoscitore) – si legge nella nota del Colle – , se egli fosse convinto delle sue ragioni avrebbe il dovere di assumere iniziative ai sensi dell’articolo 90 e relative norme di attuazione. Altrimenti le sue resteranno solo gratuite insinuazioni e indebite pressioni, al pari di altre interpretazioni arbitrarie delle posizioni del Presidente della Repubblica e di conseguenti processi alle intenzioni”.
    “Giorgio Napolitano sta tradendo la Costituzione” aveva esordito Bianconi. Aggiungendo “la Costituzione la puoi tradire non rispettandola, oppure fingendo di rispettarla”.
     L’accusa è grave. Quel “fingendo” un tempo, tra gentiluomini, si sarebbe regolato sul filo di una spada.
     Cambiati i tempi, certamente in meglio da questo punto di vista, l’onore delle persone si difende nei tribunali. Non può farlo, però, Napolitano e questo dimostra la maramaldesca iniziativa del parlamentare, del quale, per la verità, non avevo mai sentito parlare prima. Evidentemente la sua attività politica non è stata oggetto di attenzione da parte della stampa.
     Il fatto che abbia avuto licenza di insultare il Capo dello Stato, perché di questo si tratta, dimostra che si intende alzare il tono della polemica, che il Cavaliere non vuole puntare su quella tregua, su quell’invito alla moderazione alla quale era improntata l’intervista di Napolitano al ritorno da Stromboli. Berlusconi non l’ha apprezzata o comunque ha fatto finta di niente e come il lupo che superior stabat ma voleva ugualmente provocare l’agnus, accusandolo di aver fatto diventare torbida l’acqua del fiume che stava bevendo, al solo fine di mangiarselo, ha incaricato o, più probabilmente, ha fatto incaricare Bianconi di sferrare un attacco al Presidente della Repubblica, a freddo, per attizzare il fuoco e provocare la ribellione della sinistra. Un modo come un altro per far intendere agli italiani, che il Cavaliere ha conquistato anche con l’anticomunismo, che il Capo dello Stato, che ha militato nel PCI, in fin dei conti sia ancora legato a quella ideologia.
     Probabilmente anche per neutralizzare quella stima che gli italiani, secondo un sondaggio di Renato Mannheimer di recente pubblicato dal Corriere della Sera, riversano su Napolitano che espressione della più alta delle istituzioni.
     Il Cavaliere sa leggere i sondaggi e quel risultato deve averlo preoccupato. Sta a vedere, avrà pensato, che gli italiani sono pronti a seguire l’interpretazione della Costituzione dà il Presidente.
     E così Bianconi “spiega” come e perché Napolitano tradirebbe la Carta.
     Richiama la formazione del governo Berlusconi, quando incaricò il premier “nel giro di tre ore”. Ricorda, in proposito che”Napolitano spiegò il perché. Disse che in questo sistema bipolare, col premier indicato sulla scheda, è il risultato elettorale a determinare l’assegnazione degli incarichi”.
     Pertanto, secondo Bianconi,”Napolitano smentisce se stesso, con un atto di incoerenza gravissima, dicendo no al voto anticipato e sì alla ricerca di un governo tecnico”.
     È vero che il Presidente della Repubblica non ha detto quelle parole. Ma per Bianconi è “un falso problema. Se è per quello ci sono stati governi balneari, ponte, di transizione, monocolore d’attesa. Come lo chiami lo chiami, la politicità non sfugge. Il punto è che non è il governo uscito dalle urne”. E ancora “non può più tornare indietro, perché si è autovincolato. Se tu stesso hai garantito una Costituzione materiale basata sul risultato elettorale, cercando un governo diverso in parlamento non stai rispettando la Costituzione, ma solo contraddicendo te stesso”.
     E a proposito di Fini: “se il presidente della Camera fa politica in prima persona, diventa capofazione, ispira e anima gruppi parlamentari e addirittura un partito parallelo con tanto di coordinatori sul territorio come Generazione Italia e determina la sua connotazione pubblica come il capopopolo contro il premier, ecco, allora è lui stesso a esporsi agli attacchi”. E fa riferimento alla circostanza che “prima della votazione sulla fiducia a Giacomo Caliendo, fu il portavoce della presidenza della Camera Fabrizio Alfano a spiegare che i finiani avrebbero ricevuto indicazione su come votare da Fini, un minuto prima di entrare in Aula”. Per giungere alla conclusione che “non si usa il portavoce istituzionale per fare comunicazioni da capofazione!”.
     Partiamo dalla coda. Non c’è dubbio che le osservazioni su Fini siano corrette, anche noi abbiamo detto che, se vuole fare il capo partito, Fini deve lasciare l’incarico istituzionale. Si troverebbe in imbarazzo a moderare un’assemblea della quale fanno parte i suoi, parte ribelle della maggioranza.
     Su Napolitano, invece, Bianconi ha torto, come si può leggere su questo giornale poco più sotto. L’attacco al Capo dello Stato si giustifica solo con una contemporanea iniziativa parlamentare di impeachment. Se, invece, Bianconi non va avanti è come chi tira il sasso e nasconde la mano e contribuisce ad avvelenare la situazione politica. L’unica spiegazione è che il Cavaliere vuol premere l’acceleratore delle elezioni anticipate perché si rende conto che il tempo è contro di lui. Alla ripresa dopo le ferie gli italiani faranno i conti con la crisi economica sarà pure in via di esaurimento, ma ancora miete imprese e posti di lavoro, una miscela pericolosa che fa intravedere un autunno caldo ed un rallentamento della domanda interna. E lui preferisce distrarre gli italiani invitandoli alla lotta “anticomunista”, una tecnica che gli ha reso molto, considerata la insulsa opposizione che si trova di fronte.
17 agosto 2010

Ha ragione Alemanno
Manifestazioni: chi le organizza contribuisca
alle spese del Comune e chi sporca paghi!
di Salvatore Sfrecola

     Non solo. Ma anche contribuisca alle spese che il Comune e la comunità cittadina devono sopportare per le legittime manifestazioni autorizzate all’interno della Città.
     L’iniziativa del Sindaco di Roma, certo da definire sul piano dei vari adempimenti giuridici richiesti, è senza dubbio opportuna. E non cozza, come qualcuno incautamente ha sostenuto contro la libertà di manifestazione, propria de4lle democrazie occidentali.
     Un corteo, un comizio, un concerto comportano un impegno straordinario della Polizia Municipale in funzione di regolazione del traffico e di sicurezza dei partecipanti. Un impegno straordinario che va, almeno in parte, posto a carico degli organizzatori. Come la pulizia straordinaria dei luoghi dove la manifestazione è stata tenuta.
     Ricordo che, da procuratore della Corte dei conti, mi sono occupato, ormai parecchi anni fa dei danni recati alla città di Venezia dal concerto del Pink Floyd. Danni al patrimonio storico artistico determinati dal fatto che, incautamente, centinaia di migliaia di persone erano state fatte confluire in Piazza San Marco con effetti visibili su colonne, sul tetto delle prigioni, ecc. Inoltre l’azienda comunale della nettezza urbana aveva dovuto svolgere un lavoro straordinario per oltre 300 milioni di lire per portare via lattine, bottiglie cartacce e quant’altro la cattiva educazione dei partecipanti al concerto aveva lasciato in una delle piazze più belle del mondo.
     Bene, dunque, l’iniziativa di Alemanno. Un contributo per le spese dell’Amministrazione e per la pulizia delle aree interessate è un fatto di civiltà che gli organizzatori non possono rifiutare. E, soprattutto, non possono qualificare come una limitazione del diritto di manifestare.
     Come spesso in Italia si confondono i concetti e le responsabilità.
17 agosto 2010

Le diverse interpretazioni dell’intervista del Presidente
Napolitano, “pompiere” o schierato?
d Senator

     “Questo è il momento di abbassare i toni, di compiere uno sforzo di responsabile ponderazione tra le esigenze della chiarezza politica e quelle della continuità della vita istituzionale, guardando al paese che ha bisogno di risposte ai propri problemi anziché di rese di conti e di annunci minacciosi nell’arena politica cui non consegua alcuna prospettiva generatrice di fiducia”. L’intervista rilasciata dal Capo dello Stato a Marcella Ciarnetti de L’Unità, al termine del suo soggiorno estivo a Stromboli, denuncia “un clima di polemiche e contrapposizioni esasperate sul piano politico” e il “senso di grave precarietà e incertezza per quel che può accadere sul piano della governabilità” che si va diffondendo anche con riferimento alla “capacità di risposta delle istituzioni ai problemi del paese”.
     Giorgio Napolitano sottolinea anche i “segni recenti, positivi e incoraggianti, di ripresa produttiva, di ritorno alla crescita pur se il quadro mondiale resta critico: occorre però consolidarli e rafforzarli – ha aggiunto il Capo dello Stato – e far fronte alle tante difficoltà e incognite che restano, farvi fronte con visioni politiche e azioni di governo adeguate e coerenti. Ma, chiedo, se invece si va verso un vuoto politico e verso un durissimo scontro elettorale quali possono essere le conseguenze per il paese?”.
     Preoccupa il Presidente della Repubblica il “serio conflitto politico” che si è aperto “dentro la coalizione uscita vincitrice dalle elezioni del 2008 e quindi dentro la maggioranza di governo”. “Non posso, naturalmente, entrare nel merito di quel conflitto – aggiunge Napolitano –  né esprimere valutazioni o previsioni circa la sua possibile composizione. Le mie responsabilità istituzionali entreranno in giuoco solo quando risultasse in Parlamento che la maggioranza si è dissolta e quindi si aprisse una crisi di governo. Compirò in tal caso tutti i passi che la Costituzione e la prassi ad essa ispiratasi chiaramente dettano”. E aggiunge: “sarebbe bene che esponenti politici di qualsiasi parte non dessero indicazioni in proposito senza averne titolo e in modo sbrigativo e strumentale”.
     Infine, quanto agli attacchi nei confronti del Presidente della Camera, Napolitano ritiene che “nessun contrasto politico debba investire impropriamente la vita delle istituzioni. Perciò è ora che cessi una campagna gravemente destabilizzante sul piano istituzionale qual è quella volta a delegittimare il Presidente di un ramo del Parlamento e la stessa funzione essenziale che egli è chiamato ad assolvere per la continuità dell’attività legislativa”.
     Un intervento a tutto tondo, da “pompiere”, come si dice di chi cerca di spegnere gli incendi della politica. Un ruolo generalmente apprezzato dai vari schieramenti. Stavolta ci sono stati dei distinguo, tra “condivisione e fastidio, plauso e nervosismo”, come riassume Monica Guerzoni sul Corriere della Sera di oggi riferendo delle reazioni di Cicchitto, di Bondi e Gasparri che dice “non c’è nessuno spazio per cambiare la legge elettorale e Napolitano lo sa benissimo. O Berlusconi o il voto”. Per la verità il Capo dello Stato non aveva parlato di cambiare la legge elettorale né aveva fatto cenno ad eventuali governi per questo adempimento. Anzi proprio il Corriere, a pagina tre, titola “Napolitano e i governi tecnici: esistono soltanto quelli politici”. Per cui la reazione del Presidente dei senatori del Pdl è un po’ fuori misura, poco meditata, e denuncia quel “fastidio” per l’intervento di Napolitano, già colto dal giornale.
     L’impressione è che il Pdl abbia visto nell’intervento del Capo dello Stato una presa di posizione che, in qualche modo, non sia propriamente neutrale. Come scrive Francesco Perfetti che su Il Tempo di oggi giudica l’intervento di Napolitano “un atto irrituale e, per molti versi, sorprendente”. “Sia per i contenuti sia per la sede”, aggiunge Perfetti. In particolare per aver contestato il diritto di “esponenti politici di qualsiasi parte” di parlare di elezioni anticipate. Affermazione – incalza Perfetti – “che non sembra affatto rispondere alla logica, all’equilibrio e all’imparzialità che debbono caratterizzare le prese di posizione della suprema carica dello Stato”. La tesi è che il Presidente abbia in sostanza censurato, attraverso la critica a giornalisti e politici che hanno parlato di “possibili elezioni anticipate”, “una loro più che legittima analisi della situazione politica italiana”. In questo senso certamente inammissibile. Per cui, a giudizio dell’editorialista de Il Tempo, “le dichiarazioni del Capo dello Stato sono state un preciso intervento politico che ha recepito le argomentazioni di un settore preciso del mondo politico italiano, contrario ad ogni ipotesi di ritorno alle urne”.
     Ugualmente Perfetti critica le considerazioni di Napolitano sul “vuoto politico” e sul “durissimo scontro elettorale”, ritenute “pretestuose”, “perché “gli scontri elettorali, soprattutto in un sistema di tipo bipolare, sono sempre molto duri come hanno dimostrato tutte le ultime elezioni. E come avviene, del resto, anche in tutti i paese dove esiste una democrazia di tipo concorrenziale fondata sostanzialmente su confronto fra due ipotesi alternative”.
     Vediamo di capirci un po’. Cominciando da quell’invito ad “abbassare i toni”, a ” compiere uno sforzo di responsabile ponderazione tra le esigenze della chiarezza politica e quelle della continuità della vita istituzionale, guardando al paese che ha bisogno di risposte ai propri problemi anziché di rese di conti e di annunci minacciosi nell’arena politica cui non consegua alcuna prospettiva generatrice di fiducia”. Perché i “segni recenti, positivi e incoraggianti, di ripresa produttiva, di ritorno alla crescita” siano consolidali e rafforzati. Per cui la preoccupazione per un possibile “vuoto politico” accentuato da “un durissimo scontro elettorale” che gli fanno intravedere “conseguenze per il paese”.
     È difficile leggere queste parole come suggerite da intenti di parte. La chiarezza politica e la continuità della vita istituzionale sembrano piuttosto suggerire una ricomposizione all’interno della “coalizione uscita vincitrice dalle elezioni del 2008 e quindi dentro la maggioranza di governo”.
     Quanto, poi, al monito agli “esponenti politici di qualsiasi parte” perché non diano indicazioni a proposito dell’ipotesi di elezioni anticipate, Napolitano ha evidentemente voluto esclusivamente ricordare che quella decisione spetta soltanto a lui “quando risultasse in Parlamento che la maggioranza si è dissolta”. Ha, pertanto, diffidato tutti dal brandire l’arma delle elezioni anticipate come strumento di lotta politica, quasi che chi le evoca fosse in grado di pretenderle. Un ragionamento che è coerente con il ruolo del Capo dello Stato in un sistema parlamentare bipolare ma non bipartitico, che consente comunque, legittimamente, una ricomposizione delle coalizioni e della maggioranza di governo nella considerazione che “ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”, come dice l’art. 67 della Costituzione, per cui possono formarsi, nel corso della legislatura, maggioranze diverse rispetto a quella che ha vinto le elezioni, nella considerazione che il voto è per i partiti ma soprattutto per le persone che comunque rispondono delle loro scelte al corpo elettorale.
     Un intervento, certamente difficile, quello del Capo dello Stato, in un contesto di contrapposizioni che squassano la maggioranza, che non merita censure per la sede dell’intervista, l’Unità, il giornale dell’ex Partito Comunista del quale Napolitano è stato esponente qualificato, una scelta sulle cui controindicazioni il Presidente avrà senza dubbio riflettuto per il rischio di essere considerato “di parte”. Argomento polemico, tuttavia, di scarsa presa, tanto che, dopo essere stato proposto, “è stato lasciato cadere”, come ha scritto Stefano Folli nel suo editoriale di oggi su Il Sole 24 Ore dal titolo significativo, “Napolitano contro il suicidio della politica”, preoccupandosi soprattutto dell’effetto delle sue parole. Quel riferimento al “vuoto politico” che, sottolinea Folli, “ha avvelenato l’estate e che potrebbe avvelenare l’autunno. Soprattutto nel momento in cui lo scontro si trasferisce in Parlamento e diventa resa dei conti, senza esclusione di colpi, tra il presidente del Consiglio e il presidente della Camera”. Una giusta preoccupazione del Capo dello Stato, dacché, scrive Folli, “elezioni anticipate giocate sullo sfondo di un duello rusticano e distruttivo fra i due co-fondatori del Pdl, senza un progetto o una proposta chiara da offrire al paese, sarebbe la conseguenza e l’epilogo” del “suicidio collettivo della classe politica”.
     Resta il punto dell’intervista di Napolitano nel quale sembra difendere Fini. Una presa di posizione che Perfetti ritiene grave perché finisce “per censurare la libertà di stampa e di informazione” e perché dà “l’impressione di una inaccettabile e incomprensibile parzialità”. Laddove Folli ritiene che il Presidente abbia “difeso piuttosto la terza carica dello Stato, sforzandosi di preservarla dal fango che potrebbe sommergerla”. E qui, per la verità, non possiamo nasconderci che siamo di fronte ad una sorta di “lodo Alfano” dell’informazione, dacché forse sarebbe conveniente che il Presidente della Camera, che assume legittimamente la veste di capo di una fazione, lasciasse lo scranno più alto di Montecitorio per avere maggiore libertà d’iniziativa politica.
     Niente affatto parziale, dunque, l’intervento del Capo dello Stato che, semmai, ha offerto un contributo di chiarezza che lo stesso Cavaliere deve aver certamente apprezzato per il riferimento alla “coalizione uscita vincitrice dalle elezioni del 2008” e che, invece, sembra aver dato fastidio ai berluscones, meno avvezzi al confronto delle idee i quali non hanno pensato che, come scrive Folli, “contribuendo ad abbassare la tensione politica e istituzionale, il presidente della Repubblica offre al premier l’opportunità di riprendere il cammino del governo”. Magari su basi nuove, in un accordo con Fini, in una gestione a tre della maggioranza, come sarebbe stato se l’ex leader dell’ex Alleanza Nazionale avesse opportunamente evitato di cedere alle lusinghe del Cavaliere e al miraggio del “partito unico del centrodestra”, come aveva intuito in un primo tempo dopo il “discorso del predellino” (ricordate? “Siano alle comiche finali”) per non essere co-fondatore non di un partito ma co-gestore di una coalizione nella quale far valere la storia di un’esperienza politica nazionale, diffusa sul territorio, che è stata, invece, imprudentemente svenduta. Con le conseguenze che stiamo vivendo in questi giorni.
     Non mi è mai piaciuto dire “l’avevamo detto”. Ma, in verità, è proprio così, Anche perché lo avevamo scritto.
14 agosto 2010

L’emergenza che nasce dal “non fare”
di Publicus

C’era da attenderselo. Alla Protezione Civile non è piaciuta la precisazione dell’Ufficio Stampa della Corte dei conti che ha detto, in parole povere, che la Corte dei conti in sede di controllo di legittimità non si è pronunciata sulla conformità a legge dell’ordinanza con la quale si attribuivano al Commissario delegato per l’area archeologica “poteri… rientranti nella competenza del Dipartimento della Protezione civile”.
Il ragionamento contenuto nella deliberazione della Corte dei conti, come tutti possono verificare dalla lettura del testo (è molto semplice. La situazione di Pompei non deriva da una calamità naturale ma dal ritardo con il quale le istituzioni hanno operato in un’area archeologica di straordinario interesse che dovrebbe essere fruibile nelle migliori condizioni da tutti gli amanti dell’arte e dai turisti che a milioni vi si recano, provenendo da tutto il mondo.
Inoltre la Corte dei conti contesta che in sede di controllo “preventivo” di legittimità si possa pronunciare su un provvedimento “qualora l’esecuzione avvenga in via di mero fatto”. Infatti non serve un giurista per capire che il controllo è “preventivo” in quanto deve essere svolto “prima” che l’atto che abbia esecuzione. I manuali di diritto amministrativo precisano che questo tipo di controlli interviene su un atto perfetto ma non ancora efficace. Nel senso che l’esito favorevole del controllo è condizione di efficacia. I detti manuali spiegano che in questi casi nel procedimento amministrativo si inserisce una fase “integrativa dell’efficacia”, quella, appunto, del controllo.
Vediamo adesso cosa ha dichiarato il Capo dell’Ufficio legislativo del Dipartimento, l’Avvocato dello Stato Giacomo Aiello, che, tra l’altro, è intervenuto all’adunanza della Sezione del controllo della Corte dei conti per sostenere le ragioni del Dipartimento (Corriere del Mezzogiorno Napoli, 13 agosto 2010): “l’articolo 14 del decreto legge 80 del 2008 che espressamente prevede l’esclusione del controllo preventivo di legittimità sulle ordinanze della Protezione civile, siano esse relative a grandi eventi o a stati di emergenza. Poi, dal punto di vista del Legislatore l’esercizio della Protezione civile è legittimo perché sulla base di una valutazione politica del Consiglio dei ministri è stato stabilito che a Pompei vi fossero i presupposti per lo stato di emergenza (degrado, rischio di incolumità per i turisti, la fatiscenza delle strutture, il pericolo di crollo, il personale della Sovrintendenza allocato in container dal tetto in eternit). Per la struttura di Bertolaso “I giudici contabili si spingono su giudizi di legittimità che sollevano conflitti di attribuzione”, Nel corso degli anni, sin dal 1992, alla Protezione civile sono state affidate una serie di competenze che vanno oltre gli stati classici dell’emergenza, contemplando anche le condizioni di estrema criticità. Di esempi potrei farne a decine aggiunge Aiello : dall’emergenza rifiuti in Campania a quella del traffico; dall’emergenza del passante di Mestre a quella sanitaria in Calabria; dall’emergenza della laguna di Orbetello alla bonifica del sito di Serravalle Scrivia”.
L’Avvocato Aiello sembra non abbia letto con attenzione la pronuncia della Sezione del controllo. Lo dice bene il comunicato della magistratura contrabile. “La Corte ha, inoltre, ritenuto non giustificabile l’intervento del Dipartimento della Protezione civile per iniziative che non possono inquadrarsi nel concetto di tutela della vita dei beni, degli insediamenti e dell’ambiente dal rischio di gravi danni, iniziative che avrebbe potuto porre in essere un Commissario straordinario in regime non derogatorio”.
Una lezione, in ogni caso, va ricavata dalla vicenda. Il Governo “del fare”, come pomposamente lo definisce il Cavaliere, in carica quasi ininterrottamente dal 2001, con il breve intermezzo del Governo Prodi, ha fatto incancrenire i problemi creando una situazione che non ha ritenuto di affrontare con i poteri, estesissimi, di un “semplice” Commissario Straordinario. Gli ha voluto conferire i poteri propri della Protezione Civile in deroga a tutto. Questo, con buona pace del Premier, è il governo “del non fare” le cose di ogni giorno per provocare l’emergenza ed intervenire con costosissime iniziative “derogatorie”. Come per l’emergenza rifiuti. Ma quando mai si è visto un governo serio attendere che una città come Napoli fosse ricoperta di monnezza per poi intervenire “in deroga”.
Non esistono analoghi esempi nelle democrazie occidentali, negli stati bene ordinati.
Torniamo nell’ordinario, quella “ordinaria amministrazione” che è la regola dei governi che hanno cura dei problemi della gente, del bene comune, come si dice.

13 agosto 2010

In un comunicato Stampa
a proposito delle ordinanze di protezione civile su Pompei
La Corte dei conti smentisce Bertolaso
di Publicus

     Con riferimento ad alcuni articoli di stampa che hanno riportato un comunicato del Dipartimento della Protezione civile, nel quale si afferma che la Corte dei conti nell’esercizio del controllo preventivo su alcune ordinanze della Protezione civile avrebbe riconosciuto la legittimità dell’operato della Protezione civile stessa, la Corte dei conti, in un comunicato a firma del Magistrato responsabile dell’Ufficio stampa, Consigliere Cinthia Pinotti, “a fini di chiarezza e completezza di informazione”, come si legge nelle premesse, ha formulato le seguenti precisazioni:
     “La delibera n. 16/2010 della Sezione del controllo di legittimità, cui fa riferimento il comunicato della Protezione civile, ha affrontato il tema dell’assoggettabilità a controllo dei provvedimenti emanati ai sensi della normativa sulla protezione civile”.
     “Come si evince dalla lettura della delibera stessa, la Corte, impregiudicata l’eventuale questione di legittimità costituzionale della norma che ha previsto l’esenzione del controllo dei provvedimenti stessi (art. 14 d.l. n. 23 maggio 2008 n. 90 convertito con modificazioni nella Legge 14 luglio 2008 n. 123), ha escluso la natura di atto politico non sindacabile della dichiarazione dello stato d’emergenza, e nel merito, che nel caso dell’area archeologica di Pompei sussistessero i presupposti per la dichiarazione dello stato di emergenza”.
     “La Corte ha, inoltre, ritenuto non giustificabile l’intervento del Dipartimento della Protezione civile per iniziative che non possono inquadrarsi nel concetto di tutela della vita dei beni, degli insediamenti e dell’ambiente dal rischio di gravi danni, iniziative che avrebbe potuto porre in essere un Commissario straordinario in regime non derogatorio”.
     “Pertanto, alla luce di quanto sopra precisato, non appare corretta l’affermazione che la Corte dei conti avrebbe riconosciuto la legittimità dell’operato della Protezione civile”.
     Stringato, con riferimenti normativi essenziali, il comunicato stampa della Corte dei conti, l’organo, di “rilevanza costituzionale”, come lo qualifica la dottrina, che la Carta fondamentale della Repubblica ha posto al centro del sistema dei controlli di legittimità sull’operato del Governo, ha inteso chiarire innanzitutto che la magistratura contabile non ha riconosciuto la legittimità dell’ordinanza di protezione civile e, pur non dichiarandola illegittima per effetto della normativa che ha sottratto l’esame di detti provvedimenti alla Corte (questione sub iudice perché deferita alla Corte costituzionale) e avendo disatteso la “richiesta del rappresentante del Dipartimento della protezione civile, di considerare cessata la materia del contendere, atteso che lo stato di emergenza è stato revocato con decorrenza 10 giugno 2010”, non ha ritenuto di pronunciare, in sede di controllo preventivo, su un atto che aveva già avuto esecuzione. “Non può ignorarsi che, di fatto,  – spiega al riguardo la deliberazione – tutti i provvedimenti di cui è stata chiesta (inutilmente) la trasmissione al controllo preventivo di legittimità hanno già compiutamente esaurita la propria operatività, sicché occorre domandarsi se, in tali circostanze, abbia ancora un senso sottoporre in via postuma quegli atti ad un controllo che, per definizione, dovrebbe essere preventivo”.
     Resta il fatto che la Corte dei conti ha ritenuto inappropriato l’uso dello strumento dell’ordinanza di protezione civile per l’area archeologica di Pompei considerato che “non possono certo inquadrarsi nel concetto di “tutela dell’integrità della vita, dei beni, degli insediamenti e dell’ambiente dal rischio di gravi danni”, e che ben avrebbero potuto essere poste in essere da un Commissario straordinario, incaricato di coordinare – in regime non derogatorio – le autorità istituzionalmente competenti”.
13 agosto 2010

Che brutta l’Italia dei dossier!
di Salvatore Sfrecola

     Non è di oggi e neppure della prima Repubblica. L’uso dei dossier a fini di lotta politica ha attraversato la storia d’Italia, preannunciando o affiancando gli scandali della politica. Accadeva anche ai tempi del Regno d’Italia. Lo sanno bene i personaggi della politica e della finanza coinvolti nello scandalo della Banca Romana, lo ha provato Francesco Crispi quando, nel bel mezzo di un tentativo di impeachment, si sentì dare del bigamo, un appellativo che molti ripetevano al suo indirizzo a mo’ di insulto, anche se non sempre sapevano cosa volesse dire.
    Più di recente lo scandalo del Sifar, il Servizio informazioni delle Forze Armate, accusato, con una buona dose di fantasia, addirittura di golpismo. Sul finire degli anni ’60 quelle vicende scossero gli italiani. Non tanto per quel “Piano solo”, che secondo l’Espresso avrebbe dovuto rappresentare un intervento anomalo del Quirinale, dove sedeva Antonio Segni, sulle forze politiche. Niente fu dimostrato in proposito.
     Emerse, tuttavia, che il Servizio assumeva notizie su personalità della vita politica e delle professioni, compresi industriali ed alti prelati. E questo parve scandaloso di per se, senza pensare che, come ebbe a spiegare il Generale De Lorenzo che di quel Servizio era stato a capo, che tutti i paesi della NATO usavano lo stesso metodo quanto alle informazioni raccolte, considerato che personalità del Governo o delle Istituzioni, se ricattabili, potevano costituire un pericolo per la sicurezza nazionale in un mondo diviso in due blocchi contrapposti, in piena “guerra fredda”. Basti pensare che solo pochi anni prima uno scandaletto sessuale aveva costretto alle dimissioni il potente Ministro della difesa del Regno Unito, nel Governo di Harold Macmillan, John Profumo, che aveva avuto la debolezza di accompagnarsi con Christine Keeler, la quale aveva avuto una relazione con Eugenij Ivanov, attaché presso l’Ambasciata sovietica di Londra. I motivi delle dimissioni furono formalmente nelle dichiarazioni non veritiere del Ministro alla Camera dei Comuni, cosa gravissima in quel Paese. In realtà l’uomo politico avrebbe potuto rivelare, nell’entusiasmo dell’amplesso, faccende segrete della difesa delle Forze Armate di Sua Maestà. E questo decretò la fine politica di colui che era considerato l’enfant prodige dei Tory. Che sia stato un collega di partito ad infilargli la Keeler nel letto?
     Torniamo al Sifar ed ai suoi dossier. Furono identificati e bruciati. Qualcuno dice, dopo essere stati accuratamente fotocopiati. Ma forse, questa, è solo una malignità.
     Tuttavia non rimase segreto il loro contenuto, sia pure generico, senza riferimento a persone specifiche. Perché il Ministro della Difesa, il socialdemocratico Roberto Tremelloni, un politico all’antica, già MInistro delle finanze, ebbe a riferire in Senato sul contenuto di alcuni dossier che davano conto di esportazioni illegali di capitali, tresche sessuali, favori lautamente retribuiti ed altro che ben poteva interessare la sicurezza dello Stato.
     Venendo ai nostri giorni, in questa estate che fa la felicità dei futurologi, tra alluvioni e incendi di dimensioni bibliche, i dossier che circolano e quelli che si preannunciano, che finiscono per coinvolgere tutti i giornali, al di là del solito Il Giornale, Libero e Dagospia, riguardano soprattutto il premier ed i suoi uomini, Fini ed i transfughi dal PdL che lo hanno seguito. Lo ha preannunciato l’On. Granata, denunciando che alcuni giravano per la Sicilia a chiedere notizie di lui e di altri finiani. C’è, poi, la vicenda dell’appartamento di Montecarlo sulla quale si va scavando alla ricerca dei riscontri alle precisazioni del Presidente della Camera o per trovare imprecisioni in questa o in quella affermazione.
     Che brutta l’Italia dei dossier! Per la loro utilizzazione a fini di lotta politica e per il loro contenuto. In sostanza va respinto l’uso dello scandalo per colpire l’avversario politico, ma va anche detto che da queste “rivelazioni” emerge una classe politica affollata di individui estremamente modesti, dediti soprattutto agli affari e ad avventurette di sesso poco edificanti, anche se spesso esilaranti, che rivelano personalità fragili, alle quali non affideremmo neppure la gestione di un condominio. Mentre amministrano comuni, province, regioni e perfino lo Stato.
     Mala tempora, ha intitolato Giovanni Sartori una sua raccolta di polemici editoriali scritti per il Corriere della Sera. Non ci sentiamo di dargli torto.
11 agosto 2010

Nel ricordo di Cavour
Nobiltà della politica
di Salvatore Sfrecola

     Se non fosse intervenuto Ernesto Galli della Loggia con il suo editoriale (“Nostalgia di Cavour”) sul Corriere della sera, forse nessuno si sarebbe ricordato che oggi ricorrono 200 anni dalla nascita di Camillo Benso, Conte di Cavour.
     10 agosto 2010, il primo Presidente del Consiglio dell’Italia unita e certamente uno che di politica se ne intendeva, come servizio alla Nazione, al bene comune. Un’idea della politica quale dovrebbe essere e che ci piace ricordare in un momento storico nel quale sembrano prevalere gli interessi privati, le lobby, “le cricche”.
     Un personaggio poco popolare il Conte, come osserva Galli della Loggia, in un’Italia nella quale conta l’apparire e l’annuncio del fare, rispetto ad un uomo che ha fatto, spesso in silenzio, contribuendo come pochi all’unità del Paese, “artefice non unico ma certo massimo” dello straordinario periodo storico che ha fatto una Nazione di quella  che con sommo disprezzo il Principe di Metternich aveva definito “un’espressione geografica”, in una nota inviata  il 2 agosto 1847 all’Ambasciatore Conte Dietrichstein.
     Forse Metternich non scrisse e non disse quella frase, sostengono alcuni storici, eppure essa rendeva bene l’idea di una terra erede di una grande tradizione politica e culturale, per secoli vittima di dinastie e oligarchie che non riuscivano a guardare al di là della cerchia delle mura cittadine o dei confini del contado. Spesso tributarie di potenze straniere con l’aiuto delle quali tentavano di prevalere sul vicino. In una visione miope della politica che paurosamente si affaccia nelle ubriacature federaliste di alcuni che non sanno cogliere l’importanza dell’unità nella diversità ma  curano il proprio particulare con egoistica soddisfazione.
     Cavour era piemontese, orgoglioso dei progressi dello Stato e del Re che serviva, ma aveva nettissima la percezione degli interessi civili ed economici della sua terra ai quali aveva dedicato, infaticabile, l’impegno di ministro dell’agricoltura e delle finanze. Bisognerebbe rileggere i suoi discorsi al Parlamento Subalpino per percepire  il divario che separa quella concezione del servizio allo Stato dall’odierna, diffusissima, ahimé, abitudine di “servirsi dello Stato” per interessi privati e delle consorterie meno nobili.
   “La scarsa popolarità di Cavour è innanzitutto l’esito naturale della scarsa conoscenza- popolarità che da noi ha il Risorgimento, cioè quella parte della nostra storia che riguarda la nascita della nazione”, scrive Galli della Loggia. Verissimo, dacché non riusciamo ad essere orgogliosi della nostra storia e della nostra lingua. Orgogliosi senza quello sciovinismo dei fanatici privi del senso della misura, ricordando che Roma ha insegnato al mondo il diritto e continua ad insegnarlo, che le arti e le scienze hanno trovato nel “bel Paese” un habitat naturale e non si sono fermate in questa o quella regione, ma sono state coltivate ovunque, sempre con grande successo.
     Perché questo Paese è oggi così gravemente degradato che dobbiamo spesso vergognarci degli amministratori pubblici che pure abbiamo votato, a volte, è vero, come diceva Montanelli “turandoci il naso”? Perché non riusciamo ad esprimere una classe politica di elevate capacità professionali e di specchiata onestà?
     Perché deleghiamo senza mai impegnarci in prima persona se non – e non sempre – nelle assemblee di condominio, quando dovremmo sentire il desiderio di interloquire con i partiti e gli uomini politici per dire la nostra, sulla base della nostra esperienza umana e professionale e della nostra cultura?
     Qualunque idea abbiamo del Risorgimento, in quella stagione politica i Cavour e gli altri che con lui hanno guardato, forse anche in una progressione guidata dagli eventi, all’unità d’Italia, si sono sempre impegnati in prima persona, spesso rischiando, nella convinzione che la testimonianza delle proprie idee è essenziale espressione della personalità di ciascuno.
     L’italiano, che affida  al capo carismatico la soluzione dei suoi problemi, si chiami Benito Mussolini o Silvio Berlusconi, dimostra di non credere in se stesso e finisce per accettare anche quell’ignobile legge elettorale, non a caso definita dal suo autore “porcellum”, che lo ha privato del primo diritto politico, quello di scegliere i propri rappresentanti. E continua a giudicare la politica una cosa “sporca”, mentre dovrebbe essere il centro della elaborazione e soluzione dei problemi economici, sociali e culturali di una comunità. “Si aggiunga – scrive della Loggia – la dissociazione da ogni dovere collettivo e il disprezzo qualunquistico- anarcoide verso lo Stato in quanto tale che nutre tanta parte del Paese, comprese le sue classi elevate. In misura significativa l’impopolarità di Cavour non è altro che l’impopolarità presso tanti italiani dello Stato italiano”.
     Parole pesanti come pietre. Una condanna senza appello per gli ipocriti, gli ignavi e gli opportunisti dei quali siamo infestati e dei quali vorremmo volentieri fare a meno ma che purtroppo allignano ovunque, come dimostrano le polemiche politiche e giornalistiche di questi giorni nelle quali è assente del tutto l’Italia, con i suoi problemi economici e sociali, con l’angoscia delle famiglie che vedono la generazione dei padri perdere il posto di lavoro e quella dei figli non avere mezzi per conquistarli. Un’Italia nella quale la moralità pubblica è una variabile residuale.
     Concludo, riprendendo alcune riflessioni di Galli della Loggia su Cavour: “proprio perciò attualissimo. La consapevolezza della nostra storia, il senso della cosa pubblica, un’idea alta ma vera e realistica della politica, la rimessa in vigore di certe virtù civiche: non è forse di queste cose che nell’accavallarsi disordinato delle lotte dei partiti, dello scontro di tutti con tutti, ha bisogno oggi più che mai il Paese? Non ha forse bisogno l’Italia di ritrovare il senso originario della sua esistenza come Stato libero e moderno? Lo so bene: invocare un ritorno a Cavour suona solo patetico, prima ancora che vano. Almeno sia consentito, però, sentirne fino in fondo una disperata nostalgia e ripeterne con gratitudine il nome per trasmetterlo a chi in futuro si dirà ancora italiano”.
     Vorremmo fosse ricordo, non nostalgia. Anzi ispirazione permanente, per alimentarci nel nostro vivere pubblico attraverso quelle radici che una classe politica modestissima ha cercato di essiccare ma che non ha potuto tagliare, tanta è la forza della storia.
10 agosto 2010

Si scaldano i muscoli per il confronto politico di settembre
Quale idea di Repubblica?
di Senator

     C’è una frase nel concettuoso editoriale di Angelo Panebianco, oggi sul Corriere della Sera (“Berlusconi, l’Opposizione e la Lega – Tre idee opposte di Repubblica”): “Berlusconi, a differenza di de Gaulle e di altri capi carismatici – scrive Panebianco – , ha fallito (ammesso, ma non è sicuro, che i suoi scopi andassero oltre le situazioni contingenti), non ha saputo dare uno sbocco istituzionale alla democrazia plebiscitaria”.
     È il succo del problema sul quale ci troviamo a confrontarci in questa stagione politica nella quale vengono al pettine i nodi irrisolti del rapporto tra politica e istituzioni, nel senso che una parte politica, cioè quella che fa capo a Silvio Berlusconi, non accetta l’attuale assetto istituzionale della Repubblica come definito nella Carta fondamentale.
     Una Carta, è bene dirlo, che manifesta alcune rughe dovute all’età, poche, ma significative, essenzialmente riferite ai poteri del governo ed al sistema bicamerale perfetto, che incide negativamente sui tempi di formazione delle leggi.
     Ora non è dubbio che i governi, tutti, non solo quello di Silvio Berlusconi hanno costantemente lamentato difficoltà nell’esercizio della delicata funzione di portare a compimento, in tempi rapidi, il programma approvato dal Parlamento all’atto della formazione dell’esecutivo in sintonia con l’indirizzo politico emerso in sede elettorale.
     Difficoltà varie, soprattutto pastoie burocratiche, ma anche imboscate parlamentari, spesso più che dell’opposizione delle correnti dei partiti di maggioranza, in particolare, nei decenni passati, del partito di maggioranza, quella Democrazia Cristiana che risultava, pur nella comune radice cattolica, articolato in gruppi di orientamento spesso assai diverso, si pensi alla Sinistra di Base, ai Dorotei, ai Centristi, per non fare che qualche esempio.
     Di qui i tentativi, affidati a ben tre Commissioni Bicamerali, di rivedere le norme che definiscono i poteri dell’esecutivo e del Premier, anche nella scelta e nell’eventuale revoca dei ministri. Poteri da definire, perché il governo possa operare con la celerità e l’efficienza che sono imposti dall’esigenza di operare. Naturalmente con un sistema di controlli, di legalità e di efficienza, calibrati in relazione alla natura ed all’urgenza dei provvedimenti. Considerato che i controlli politici, quelli del Parlamento, danno poco affidamento, considerato che la maggioranza parlamentare è la stessa che, con il suo voto, regge il governo. Per cui è impensabile che lo metta in crisi contestando la politica del Governo o aspetti significativi di quella politica.
     Così all’aumento dei poteri del Governo fanno da contraltare, nel sistema liberale, pesi e contrappesi individuati nei poteri del Presidente della Repubblica e nel ruolo della Corte costituzionale.
     Se il governo attende una revisione dei poteri costituzionali per meglio operare, anche le Camere del Parlamento da tempo denunciano la farraginosità del bicameralismo “perfetto”, fondato su due Camere del tutto identiche nelle attribuzioni, non sufficientemente distinte sul piano della loro composizione, per l’età degli elettori (18 alla Camera, 25 al Senato) e per il sistema elettorale, che determina effetti diversi solo per il premio di maggioranza.
     L’Italia dal 2001 è una Repubblica federale, anche se molti fanno finta di non essersene accorti, e sarebbe giusto che la seconda Camera fosse rappresentativa delle regioni, un “Senato delle regioni” con poteri differenziati rispetto alla Camera dei deputati in un sistema armonico che globalmente possa consentire l’espressione migliore della volontà popolare e gli interessi delle autonomie.
     Di tutto questo si parla da anni in ogni assise, politica e tecnica, senza che si faccia un passo avanti, essendo venuta a mancare quella visione globale delle possibili riforme che, in un assetto diverso rispetto all’attuale, fosse capace di mantenere l’equilibrio tra i poteri dello Stato, legislativo, esecutivo e giudiziario ed il ruolo di garanzia del Capo dello Stato.
     Torniamo, dunque, all’affermazione di Panebianco, dalla quale abbiamo preso le mosse. Berlusconi sembra interessato dalle riforme solo per problemi contingenti, quando se la prende con il Capo dello Stato o la Corte costituzionale, rea, essendo, a suo giudizio, “di sinistra” di bocciare alcune delle leggi con le quali tenta di forzare principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale. Mai, tuttavia, che ringraziasse la Consulta che quasi ogni giorno boccia leggi regionali impugnate dal Governo!
     Berlusconi, in sostanza, dà l’impressione di voler travolgere il sistema costituzionale negli aspetti che, a suo giudizio, ostacolerebbero la realizzazione del programma di governo, mai disponibile a riconoscere gli errori suoi o dei suoi collaboratori che mai come in questo periodo hanno portato in Consiglio dei Ministri o in Parlamento provvedimenti amministrativi o legislativi carenti non solo sotto il profilo della conformità ai principi della Costituzione, ma anche confuse nel linguaggio e nella tecnica giuridica, come ha osservato Valerio Onida, già Presidente della Corte costituzionale, in un recente convegno di studi. Non si è visto mai nulla di così scadente, ha detto l’illustre giurista, come quel che esce ogni giorno dagli uffici di  Palazzo Chigi.
     In queste condizioni la contrapposizione tra Pdl e Lega, da una parte, PD e IDV, dall’altra, con finiani e UDC al centro, condita con una buona dose di diffidenza, non fa intravedere nulla di buono. Anche perché la “democrazia plebiscitaria”, che incarna il leader carismatico, è vista con notevole perplessità. E non c’è bisogno di ricordare il Cavalier Benito Mussolini che, pur avendo ben operato in moti settori, specie di carattere sociale e nell’organizzazione dell’amministrazione pubblica, aveva limitato fortemente i diritti dei cittadini e financo le prerogative statutarie del Sovrano che gli rese pan per focaccia il 25 luglio 1943, accettando le dimissioni da Presidente del Consiglio a seguito del voto negativo del Gran Consiglio del Fascismo, quell’organo costituzionale con la quale il Duce aveva contribuito a manomettere lo Statuto Albertino.
     Un richiamo che ci permettiamo di fare per sottolineare il ruolo imprescindibile del Capo dello Stato in una democrazia parlamentare, anche se fossero opportunamente potenziati i poteri del Governo e del Premier.
     Dice bene Panebianco, Berlusconi non ha messo in campo un’ipotesi equilibrata di riforma e questo rende difficile, se non impossibile, il confronto tra le forze politiche. Per cui la “violenza verbale che accompagna il conflitto è spiegata dal fatto che a duellare sono idee diverse di repubblica”. Assolutamente inconciliabili.
9 agosto 2010

Al rientro dalle vacanze estive 70 mila posti di lavoro a rischio
di Oeconomicus

     Al rientro dalle vacanze estive 70 mila lavoratori potrebbero perdere il posto. È quanto afferma in una nota la CGIA di Mestre, di cui rifersice l’Agenzia ASCA.
     ”Nell’ultimo trimestre di quest’anno – spiega Giuseppe Bortolussi, segretario della CGIA di Mestre – stimiamo che potrebbero essere circa 70.000 i posti di lavoro a rischio in Italia. Un numero importante che però non offusca i segnali positivi registrati da alcuni indicatori economici che ci dicono che ci stiamo allontanando dalla fase più acuta della crisi. Quindi, non dobbiamo fare nessun catastrofismo. Anche perché è da 4 anni che nel 4* trimestre l’occupazione registra picchi negativi ben più significativi di quelli previsti nei prossimi mesi”.
     Infatti, analizzando i dati Istat, spiega ancora la CGIA, si riscontra che il 4* trimestre presenta sempre dei cali occupazionali molto evidenti: nel 2007, rispetto al trimestre precedente, la contrazione occupazionale fu di 91.000 unità; nel 2008 di 169.000 e nel 2009 di 89.000.
     ”Con la probabile perdita di questi 70.000 posti di lavoro – sottolinea Bortolussi – quest’anno dovremmo registrare 181.000 occupati in meno rispetto al 2009.
Pertanto, i senza lavoro dovrebbero toccare quota 2.258.000, facendo attestare il tasso di disoccupazione al 9 per cento ”.
     Più in generale, osserva la CGIA, negli ultimi 2 ultimi anni la crisi economica ha bruciato 561.000 posti di lavoro facendo aumentare il tasso di disoccupazione di 2,3 punti.
     Infatti, se nel 2008 la disoccupazione si era fermata al 6,7 per cento , alla fine di quest’anno, come dicevamo più sopra, si attesterà al 9 per cento .
     Infine, gli artigiani mestrini sottolineano con preoccupazione l’aumento degli inattivi. Ovvero, di coloro che hanno deciso di non cercare più attivamente un posto di lavoro. Al 30 giugno di quest’anno, il tasso di inattività (nella fascia di età compresa tra i 15 e i 64 anni) ha toccato il 37,6 per cento . In termini assoluti invece sono aumentati, rispetto al 2009, di 103.000 unità (pari al +0,7 per cento ), raggiungendo la quota assoluta di 14.876.000.
     Sono in gran parte coloro che alimentano il “lavoro nero”, quello che evade il fisco ma mantiene molte famiglie. Un dato che dovrebbe far riflettere il Ministro Tremonti, da sempre alla ricerca di un modo per far quadrare i conti, limitando la spesa pubblica improduttiva senza gravare ulteriormente sul cittadino in termini di imposte e tasse.
     In realtà il cittadino viene gravato dalla riduzione dei servizi pubblici o dall’aumento del costo delle prestazioni. Ne soffrono soprattutto le famiglie delle quali tutti, a parole, si preoccupano, senza peraltro fare nulla per restituire capacità di spesa ai nuclei familiari. Tranne, poi, a lamentare la riduzione dei consumi interni.
     Consumeranno solo i lavoratori “in nero”. Una realtà, soprattutto nelle aree dove è più sviluppata l’economia parallela, prevalentemente di provenienza illecita. Che fosse l’ora do riequilibrare l’imposizione fiscale in favore delle imposte indirette?
9 agosto 2010

Massacro dei taleban:
Uccisi perché  cristiani
di Salvatore Sfrecola

      Uccisi “perché cristiani”. La stampa, quasi all’unanimità, ha titolato così la notizia dei medici stranieri (sei americani, un britannico ed un tedesco) di una ong cristiana brutalmente assassinati a colpi d’arma da fuoco insieme a due accompagnatori locali nell’Afghanistan  nord-orientale dai talebani che hanno rivendicato il gesto accusando le vittime di aver svolto proselitismo. Li hanno messi in fila e fucilati, ha raccontato un interprete che è stato salvato perché si è messo a recitare il Corano.
     “I volontari di questa associazione sono persone molto preparate – ha detto il medico afghano Aref Oryakhail, impegnato con la Cooperazione italiana – e il loro lavoro è molto apprezzato negli ospedali dove operano a Herat, Kabul e Jalalabad”. Terminato il lavoro in Nuristan il gruppo si è messo in viaggio per rientrare a Kabul.
Il portavoce degli insorti Zabihullah Mujahid ha sostenuto che i “missionari cristiani” facevano proselitismo ed “avevano Bibbie in dari da distribuire alla gente”.
     Uccisi “perché cristiani”. Ogni commento è superfluo. E dovrebbe far riflettere molti sull’apertura senza remore ad una cultura che si esprime nelle masse solo con intolleranza.
8 agosto 2010

 Tutto diventa segreto per abolire le gare
Appalti pubblici: una legge per gli imprenditori amici
di Salvatore Sfrecola

“Caro Stato non ci meriti”, così titolava ieri Il Tempo, quotidiano romano da sempre vicino agli imprenditori della Capitale, in specie a quelli del settore edilizio.
Il titolo è la sintesi di interventi di Giovanni Malagò, Presidente del Circolo canottieri Aniene, oggetto di indagini per i lavori dei mondiali di nuoto, di Eugenio Bettelli (ACER), Massino Tabacchiera (ATAC) e Lorenzo Tagliavanti (CNA), tutti polemici con gli enti pubblici, in particolare con lo Stato, per le tante pastoie che caratterizzano le procedure relative agli appalti di lavori e forniture nei quali il committente è un ente pubblico.
Il tema è di quelli che non possono essere sottovalutati. Ma va anche affrontato approfonditamente, cosa che non si può fare in un articolo di giornale.
Ci limiteremo, dunque, ad enunciare qualche questione che tutti, peraltro, conoscono.
Ad esempio che il tempo di realizzazione di un’opera pubblica è sempre più lungo di quello di un’opera commissionata da privati. Opere, inoltre, più costose perché richiedono, sembra inevitabilmente, perizie di variante e suppletive che, tra l’altro, innalzano enormemente i costi. In molti casi, nel corso o al termine dei lavori, le amministrazioni e l’impresa ricorrono a un arbitrato per dirimere le controversie insorte. Arbitrato che, nella maggior parte dei casi, l’amministrazione perde, con ulteriori oneri.
Ancora, in molti, troppi, casi i lavori vengono affidati a trattativa privata. E quando, invece, nel rispetto della normativa interna ed europea, si segue una procedura concorsuale accade sovente che le imprese entrino in conflitto tra loro contestando il comportamento della commissione di aggiudicazione. Così la vicenda passa al vaglio del Giudice amministrativo, in primo e secondo grado. Il tempo passa e spesso l’amministrazione dà esecuzione al contratto ancora sub iudice, con la conseguenza che, poi, potrà essere chiamata a risarcire l’impresa che, al termine del giudizio dinanzi al giudice amministrativo, avrà ottenuto l’annullamento dell’aggiudicazione.
Così vanno spesso le cose, per non dire di un’altra variabile della quale gli imprenditori che si lamentano dello Stato non dicono. Quella che le imprese attuano cartelli per dividersi il mercato. Questo appalto lo vince Tizio perché Caio e Sempronio fanno un’offerta economicamente svantaggiosa. Un altro appalto lo vince Caio, l’altro Sempronio. In ogni caso è possibile che il “vincitore” inserisca nei lavori un’impresa “vicina” a quelle che hanno perduto l’appalto.
C’è poco da lamentarsi dello Stato e degli enti pubblici. Le imprese dominano il mercato. Spesso sono loro, con il sistema dell’aggiudicazione all’offerta economicamente più vantaggiosa che determinano il prezzo dell’appalto. E anche la sua realizzazione. Nel senso che se l’aggiudicazione avviene con forti ribassi, intorno al 50 per cento, è evidente che o il prezzo a base d’asta era eccessivamente alto o l’imprenditore dovrà “risparmiare” per rientrare nei costi. Oppure s’inventerà, d’intesa con l’amministrazione, perizie di variante e suppletive che gli consentiranno di recuperare sui nuovi lavori.
Accade spesso che, poiché le amministrazioni – soprattutto quelle locali – sono altamente politicizzate, i componenti della Commissione aggiudicatrice, scelti dal sindaco o dall’assessore, possono pilotare la procedura di aggiudicazione di un appalto il cui bando di gara, magari, è stato fatto a misura della ditta “amica”. Con la conseguenza che le altre spesso non protestano per evitare di rimanere fuori anche in altre occasioni.
Tangentopoli aveva dimostrato ampiamente questa situazione. Che è rimasta tale. Anzi una buona mano per aiutare gli imprenditori amici l’ha messa lo stesso patrio legislatore, più esattamente il governo, nell’ultimo decreto legge, il n. 78 del 31 maggio 2010.
“Decidono direttamente i burocrati: distribuzione a pioggia (stato, province, comuni) di poteri “secretati”. I magistrati che studiano le regole del “comma 10″ temono la chiusura del cerchio dell’illegalità. Perché maggioranza ed opposizione fanno finta di niente? Il metodo Bertolaso diventa legge: secretati gli appalti, ogni funzionario capo può trattare senza controlli” ha scritto di Aldo Cerulli in http://domani.arcoiris.tv/il metodo bertolaso diventa legge secretati gli appalti ogni funzionario capo può trattare senza controlli. Spiegando che “qualsiasi capo-settore della burocrazia potrà decidere un proprio personalissimo elenco di “opere, servizi e forniture da considerarsi “segreti” oppure “eseguibili con speciali misure di sicurezza”. Una distribuzione a pioggia dei poteri di “secretazione” che, dopo tanti scandali svelati dalle inchieste sulla Protezione Civile, rischia d’innescare una moltiplicazione delle “cricche””.
“In realtà – prosegue Cerulli – gli appalti secretati sono già ora una torta ancora più grande di quella distribuita dalla Protezione Civile”, denuncia il senatore Antonio Rugghia, capogruppo Pd in Commissione Difesa: “La semplice dichiarazione di segretezza o sicurezza dell’opera ha consentito in questi anni di assegnare centinaia di appalti plurimilionari a trattativa privata e senza alcuna pubblicità”.
“In molti casi – ad esempio per i tre affari da 200 milioni per le nuove carceri in Sardegna – queste procedure eccezionali risultano aver premiato le stesse ditte che sono inquisite per gli appalti della Protezione Civile alla Maddalena. Ora, con il comma 10, si cancella anche quel poco che resta dei canoni di trasparenza e concorrenza che erano stati sanciti dalla legge Merloni per far uscire l’Italia da Tangentopoli””.
“I pochi magistrati e giuristi che hanno cominciato a studiare il comma 10, a questo punto temono una specie di chiusura del cerchio dell’illegalità. Anche per l’ampiezza della norma. Le procedure segrete possono essere decise direttamente dai burocrati, infatti non solo per contratti delicatissimi (ad esempio per forniture militari o tecnologie da 007) ma anche per qualsiasi opera che richieda “misure di sicurezza”, come carceri o caserme. Lo strano silenzio istituzionale sia della maggioranza che dell’opposizione fa riflettere?..!”
Fin qui la prosa di Cerulli.
Ma cosa dice la norma? Il 10 è un comma dell’art. 16 del decreto legge n. 78 del 2010 recante “Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica”, che nel testo coordinato con la legge di conversione 30 luglio 2010, n. 122, nel quale è scritto testualmente: “Al fine di rafforzare la separazione tra funzione di indirizzo politico-amministrativo e gestione amministrativa, all’articolo 16, comma 1, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, dopo la lettera d), è inserita la seguente: «d-bis) adottano i provvedimenti previsti dall’articolo 17, comma 2, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, e successive modificazioni;
1. I dirigenti di uffici dirigenziali generali, comunque denominati, nell’ambito di quanto stabilito dall’articolo 4 esercitano, fra gli altri, i seguenti compiti e poteri: «d-bis) adottano i provvedimenti previsti dall’articolo 17, comma 2, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, e successive modificazioni (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE”. Si tratta dei “contratti segretati o che esigono particolari misure di sicurezza (artt. 14 e 57, dir. 2004/18; art. 21, dir. 2004/17; art. 4, d.lgs. n. 358/1992; art. 33, legge n. 109/1994; art. 82, d.P.R. n. 554/1999; art. 5, d.lgs. n. 157/1995; art. 8, d.lgs. n. 158/1995; art. 122, d.P.R. n. 170/2005; art. 24, co. 6, legge n. 109/1994, art. 24, co. 7, legge n. 289/2002)
1. Le opere, i servizi e le forniture destinati ad attività della Banca d’Italia, delle forze armate o dei corpi di polizia per la difesa della Nazione o per i compiti di istituto nonché dell’amministrazione della giustizia e dell’amministrazione finanziaria relativamente alla gestione del sistema informativo della fiscalità o ad attività degli enti aggiudicatori di cui alla parte III , nei casi in cui sono richieste misure speciali di sicurezza o di segretezza in conformità a disposizioni legislative, regolamentari e amministrative vigenti o quando lo esiga la protezione degli interessi essenziali della sicurezza dello Stato, possono essere eseguiti in deroga alle disposizioni relative alla pubblicità delle procedure di affidamento dei contratti pubblici, nel rispetto delle previsioni del presente articolo. (comma così modificato dall’art. 1, comma 1, lettera b), d.lgs. n. 113 del 2007, poi dall’articolo 4, comma 4-bis, legge n. 102 del 2009)
2. Le amministrazioni e gli enti usuari dichiarano con provvedimento motivato, le opere, servizi e forniture da considerarsi «segreti» ai sensi del regio decreto 11 luglio 1941, n. 1161 e della legge 24 ottobre 1977, n. 801 o di altre norme vigenti, oppure «eseguibili con speciali misure di sicurezza».
3. I contratti sono eseguiti da operatori economici in possesso, oltre che dei requisiti previsti dal presente codice, dell’abilitazione di sicurezza.
4. L’affidamento dei contratti dichiarati segreti o eseguibili con speciali misure di sicurezza avviene previo esperimento di gara informale a cui sono invitati almeno cinque operatori economici, se sussistono in tale numero soggetti qualificati in relazione all’oggetto del contratto e sempre che la negoziazione con più di un operatore economico sia compatibile con le esigenze di segretezza.
5. L’operatore economico invitato può richiedere di essere autorizzato a presentare offerta quale mandatario di un raggruppamento temporaneo, del quale deve indicare i componenti. La stazione appaltante o l’ente aggiudicatore entro i successivi dieci giorni è tenuto a pronunziarsi sull’istanza; la mancata risposta nel termine equivale a diniego di autorizzazione.
6. Gli incaricati della progettazione, della direzione dell’esecuzione e del collaudo, qualora esterni all’amministrazione, devono essere in possesso dell’abilitazione di sicurezza.
7. I contratti di cui al presente articolo posti in essere da amministrazioni statali sono sottoposti esclusivamente al controllo successivo della Corte dei conti, la quale si pronuncia altresì sulla regolarità, sulla correttezza e sull’efficacia della gestione. Dell’attività di cui al presente comma è dato conto entro il 30 giugno di ciascun anno in una relazione al Parlamento”.
Da notare che il 27 luglio 2010, in sede di audizione dinanzi alle Commissioni riunite I e II del Senato, il Presidente della Corte dei conti, Luigi Giampaolino, chiamato ad esprimere valutazioni in ordine al disegno di legge anticorruzione, in discussione a Palazzo Madama, faceva notare che il comma 10, all’epoca ancora in coso di approvazione, “consentirebbe a qualsiasi dirigente ministeriale di affidare appalti (sia pure a certe condizioni) con procedure segrete. Si verrebbero ad allargare le eccezioni alle regole della trasparenza, in contrasto con l’obiettivo perseguito dal disegno di legge ora in esame”. E ricordava che “a tutela della pubblicità e della trasparenza, la Corte si è espressa più volte, sia in sede di controllo preventivo di legittimità (Sez. centrale n. 1/7/2008/p del 7.2.2008), sia in sede di controllo sulla gestione, con gli ultimi referti adottati dalla Sezione centrale sulle “Opere segretate” ed imposti alla Sezione, come noto, per legge)”
Gli interventi di Cerulli e di Giampaolino sono eloquenti e non richiedono ulteriori commenti. Se non l’ipocrisia, datata 1993 (decreto legislativo n. 29 del 3 febbraio), della separazione delle responsabilità politiche da quelle di gestione, affidate ai dirigenti. Cioè ai dirigenti scelti dal ministro, dal sindaco o dall’assessore, nominati per il tempo che questi politici scelgono (tre o cinque anni, giusto per poter essere loro a confermarli), con la retribuzione che graziosamente definiscono, tutti in attesa di conferma. Di quale indipendenza possono godere questi dirigenti? Lo spoil system all’italiana attua l’appropriazione del potere da parte dei politici senza responsabilità penale e amministrativa. Lì sta la distinzione delle funzioni politiche da quelle amministrative.
Per rimediare a questo sfascio ed alla caduta di efficienza della Pubblica amministrazione occorre restituire autonomia alla dirigenza pubblica, come in Gran Bretagna dove nessun politico potrebbe osare di toccare un “funzionario della Corona”. Altro ordinamento, soprattutto altro stile nel rispetto del denaro pubblico. Un paese dove il Primo Ministro, in tempo di crisi, sale su un volo di linea per venire a Roma ad incontrare Silvio Berlusconi, con il rischio, com’è avvenuto di arrivare in ritardo a Palazzo Chigi.

8 agosto 2010

Uccisa per strada a pugni senza che nessuno intervenisse
Una generazione senza coraggio e dignità
di Salvatore Sfrecola

     Lasciato dalla fidanzata, un giovane ucraino, che per hobby fa il pugile, è sceso in strada e ha massacrato di botte la prima donna che ha trovato, una filippina di 41 anni, sposata, che, quando è stata aggredita, stava andando verso casa, dall’altra parte della città, dopo aver lasciato il figlio in una piscina.
     E’ accaduto a Milano. Sembra che l’uomo abbia sofferto in passato di problemi psicologici e di depressione.
     L’uomo ha colpito la donna talmente tante volte e con tale forza da sfondarle le ossa del viso, scorticandosi le mani fino all’osso, e procurandosi la frattura di più nocche.
     La  donna è deceduta all’ospedale Fatebenefratelli, dove era giunta in gravissime condizioni.
     Sono i dati scarni e terribili della cronaca. Me ce n’è un altro che deve fare riflettere. A quanto leggo dai giornali nessuno è intervenuto per salvare la donna dalla furia omicida. Capisco che di fronte a tanta violenza chiunque abbia timore di intervenire, ma possibile che non ci fosse per strada un giovane, di quelli che passano molto tempo in piscina o in palestra che potesse alzare la voce ed assumere un tono capace di dissuadere l’uomo. Un giovane o più giovani insieme.
     A questa generazione manca il coraggio e la dignità di difendere una persona debole e aggredita, la capacità di esprimere una qualche ribellione alla violenza gratuita, per continuare a credere in se stessi e guardare gli altri in faccia contenti di stare al mondo.
     Non è spirito da boy scout, che comunque esprime una cristiana attenzione per gli altri, è dignità di uomo che vorrei fosse più diffusa in questo Paese di Santi e di Eroi.
7 agosto 2010

Al voto! Sì, no, forse! Ma…
di Senator

     In origine lo prevedeva a novembre, mese piovoso nel quale non si usa votare. Adesso sembra prevalere l’ipotesi che alle elezioni per il rinnovo del Parlamento, giudicato inevitabile praticamente da tutti, seppure temuto dai più, potrebbero tenersi in primavera.
     Con quale scenario, in quali condizioni?
     Se il governo cade è inevitabile che sia sostituito da un esecutivo “di tregua”, “istituzionale” o “tecnico”, presieduto da una personalità pubblica, il Presidente o un ex Presidente del Senato, della Corte costituzionale, il Governatore della Banca d’Italia, un ex Commissario europeo. Nessuno impegnato in politica direttamente.
     In questo caso sarebbe dura per Silvio Berlusconi una campagna elettorale di sette-otto mesi senza alcuni vantaggi della poltrona ministeriale che per i suoi ministri diventerebbe particolarmente onerosa. A cominciare dagli aspetti più modesti della campagna elettorale, gli uffici a disposizione, le auto blu delle segreterie, i tanti collaboratori di staff pagati dallo Stato. E poi l’appeal della carica ministeriale, un ricordo che agli occhi dell’elettorato va rinverdito di giorno in giorno. Un’impresa se, per caso, una riforma elettorale reintroducesse, come tutti chiedono, non sempre sinceramente, le preferenze individuali.
     Una corsa per tutti, anche per il premier, con il rischio di arrivare con l’affanno alla vigilia del voto, attraverso mesi di polemiche, insinuazioni, scandali.
     C’è anche un’altra ipotesi, quella che Berlusconi e Fini si mettano d’accordo per una tregua, sia pure armata, che consenta al Governo di  proseguire la sua corsa verso la inevitabile scadenza elettorale in un clima di minore tensione.
     Resta il dubbio sulla procedura. Un voto di sfiducia in ogni caso ci vuole. E se gli altri si coalizzassero per sostenere un esecutivo di transizione? Tutto slitterebbe ancora, con danni per il Paese che ha bisogno di essere governato.
     Oggi registriamo con soddisfazione l’andamento della produzione industriale. Tirano le esportazioni o forse hanno tirato nel momento della debolezza dell’euro.
     Si stabilirà questo trend positivo? Ce lo auguriamo, ma per ora la disoccupazione non accenna a diminuire, le famiglie ansimano e questo deprime i consumi interni.
     Attenzione, le statistiche, necessarie per governare, vanno lette con attenzione e giudicate anche alla luce dei dati di base. Perché, ricordiamoci che se un’azienda produce un ombrello l’anno, quando ne produce due sul piano statistico l’aumento è del 100 per cento. Ma sono sempre due ombrelli.
     Abbiamo motivi per riflettere e seguire l’evoluzione dei fatti della politica e dell’economia.
7 agosto 2010

Governo senza maggioranza certa
Chi ha fatto male i conti?
di Senator

     299, 17 in meno di quelli che, alla Camera, fanno maggioranza. E il Governo dei grandi numeri, che tuttavia doveva ricorrere continuamente a maxiemendamenti ed a voti di fiducia, nel corso della votazione sulla mozione che chiede le dimissioni del Senatore Giacomo Caliendo da Sottosegretario alla Giustizia si ritrova nel guado, dal momento che i finiani non abbandonano lo schieramento ma si riservano di decidere, di volta in volta, come votare su singoli provvedimenti. Per cui sulla mozione di sfiducia a Caliendo si sono astenuti.
     Si comprende come il Cavaliere sia tra l’irato ed il preoccupato. L’incertezza dei numeri rende il Governo fragile, difficile l’elaborazione delle iniziative che, ancorché espressione dell’indirizzo politico parlamentare uscito dalle urne, vanno comunque definite nel dettaglio delle norme che lo compongono.
     La situazione, in ogni caso, è conseguenza della concezione che Silvio Berlusconi ha della politica e della gestione del partito nel quale non si discute, ma si esegue quello che il Capo ha deciso. La varietà delle opinioni è ammessa se non interferisce con le scelte del Cavaliere. Lo ha dimostrato proprio la vicenda di Fini, messo fuori brutalmente nel momento in cui ha pubblicamente fatto conoscere le sue critiche ad alcune iniziative legislative del Governo ritenute dall’ex leader di Alleanza Nazionale in contrasto con alcuni principi, soprattutto in tema di legalità, ritenuti irrinunciabili.
     Intendiamoci bene. La regola della democrazia vuole che all’interno dei partito, che dovrebbero essere associazioni di cittadini uniti da un idem sentire su un’ampia piattaforma programmatica, si discuta, anche animatamente, per raggiungere una posizione comune su singole iniziative per poi sostenerle in Parlamento. Con la conseguenza che chi dissente su profili politici essenziali si mette automaticamente fuori  del partito.
     Accade, invece, nel Popolo della libertà, una qualificazione, quella di libertà, come l’altra della quale il Cavaliere abusa, liberale e liberalismo, che in quel partito le scelte non maturino a seguito di un dibattito, per cui il dissenso non emerge nella fase di definizione dell’iniziativa legislativa per essere ricomposto da decisioni assunte con le regole della democrazia interna. Per cui quando Fini ed i suoi si sono ritrovati con norme, per tutte quelle sulle intercettazioni, difficili da digerire, anzi indigeribili, la critica si è fatta più vivace fino a far esplodere contrasti che hanno inciso sulla compattezza del partito.
     Da questo punto di vista non c’è dubbio che Berlusconi si sia fatto male da solo avendo sottovalutato le reazioni di parte degli ex di AN non disponibili a rinunciare ad alcuni principi propri della loro storia politica.
     Per cui i numeri ricordati iniziando pongono il  problema della ricomposizione della maggioranza, adesso a tre (Pdl, Lega e Futuro e libertà) in vista dell’attuazione del programma di Governo, una situazione di instabilità che al Cavaliere non piace e che gli fa pensare ad un ricorso anticipato alle urne, una scelta che già avrebbe intrapreso se non temesse un risultato elettorale “prodiano”, quello che ha costretto il Professore bolognese a vivacchiare per alcuni mesi e poi cadere alla prima difficoltà.
     Inoltre Berlusconi sa che la gestione della eventuale crisi non è nella sua disponibilità. Di qui l’attacco al Capo dello Stato, poi ridimensionato,, e alla Corte costituzionale, le istituzioni di garanzia che il Cavaliere non tollera limitino la sua libertà di azione, tanto è vero che vorrebbe sull’una e sull’altra intervenire con una riforma costituzionale. Una concezione “liberale” della democrazia affatto singolare.
     Non è dubbio, infatti, che Berlusconi e il suo partito non vivono nella democrazia britannica dove, in  virtù dell’antico biparitismo, di recente manifestatosi in forma di bipolarismo a seguito del successo dei liberali, il Primo ministro, leader della maggioranza, quando lo ritenga politicamente utile, chiede alla Regina di sciogliere la Camera dei comuni e di indire nuove elezioni.
      In Italia il Presidente del Consiglio, per dimettersi deve avere un voto di sfiducia delle stese Camera che a suo tempo gliel’hanno conferita. Per cui il Capo del Governo che si dimettesse per un voto parlamentare su un singolo provvedimento si verrebbe invitato dal Capo dello Stato a tornare in Parlamento per chiedere un voto di fiducia, in assenza del quale non si apre la crisi.
     Non è sufficiente, in particolare, come vorrebbe il Presidente del Consiglio e capo della coalizione (Pdl – Lega) che ha avuto la maggioranza dei consensi, che un gruppo di parlamentari esca da uno dei partiti e formi un gruppo autonomo e magari si ritrovi a votare contro facendo venir meno la maggioranza in occasione di un voto parlamentare.
     Non basta. Il Capo dello Stato, infatti, ha il dovere di verificare se in Parlamento è presente una diversa maggioranza che, ad esempio, desideri la prosecuzione della legislatura magari al solo scopo di fare alcune riforme urgenti, ad esempio in materia elettorale, come si va dicendo in questi giorni. Una maggioranza diversa, non propriamente politica, ma idonea a sorreggere un esecutivo “a tempo” o “tecnico” ai limitati scopi di cui si è detto.
     Solo in caso di assoluta indisponibilità di una maggioranza capace di sorreggere un Governo il Capo dello Stato può sciogliere le Camere per nuove elezioni.
     Tuttavia è improbabile che si arrivi, almeno in tempi brevi alla fine della legislatura. I timori sono diffusi in entrambi gli schieramenti. Nessuno, tranne Bossi, è sicuro di portare a casa un risultato utile. Ed anche il leader della Lega, che sicuramente avrebbe un buon risultato, non sa se l’alleato terrebbe nelle condizioni di aspra contrapposizione che si vanno delineando in questi giorni in un clima avvelenato da polemiche giornalistiche su fatti personali, come le vicende dell’appartamento monegasco ereditato da Alleanza Nazionale ed oggi abitato da persona vicina a Gianfranco Fini, come insiste a ricordare ogni giorno Il Giornale, il quotidiano “di famiglia” del Cavaliere, in una polemica senza esclusione di colpi che certamente mette in difficoltà morale Silvio Berlusconi certamente disturbato dal fatto che molti pensano che dietro quelle pagine al veleno ci sia lui.
7 agosto 2010

A proposito della prima pagina de Il Tempo di oggi
Fini e i cattivi consiglieri
di Salvatore Sfrecola

     Era da immaginare che la presa di posizione di Gianfranco Fini all’interno del Popolo della Libertà e, quindi, la scelta sua e dei suoi amici di dar vita a Gruppi parlamentari autonomi alla Camera ed al Senato, pur con l’impegno di rimanere nell’area della maggioranza e di continuare a votare le iniziative del Governo quando siano conformi al programma elettorale, avrebbero scatenato polemiche e quel gioco al massacro che tanto piace ai politici italiani per i quali, molto spesso, l’avversario politico o colui che marca una differenza è, molto semplicemente un nemico se non un traditore.
     Così Fini si trova a dover subire l’attacco dei berluscones, tra i quali, ovviamente, i più virulenti sono coloro che provengono da Alleanza Nazionale e che sono passati armi e bagagli sotto le bandiere del Cavaliere, molti già prima di confluire nel Pdl. Un motivo, che, forse, è alla base della scelta di Fini di farsi confondatore del nuovo movimento. Per carità, dice Berlusconi, non chiamatelo partito che fa tanto Prima Repubblica.
     Così accade che nell’assalto al Presidente della Camera ogni occasione sia buona, anche la vicenda dell’appartamento di Montecarlo, giunto in eredità ad AN dalla Contessa Anna Maria Colleoni, fan del partito, ed oggi locato a persona legata al Presidente. Per cui Il Tempo di oggi ospita, con un titolo a nove colonne in prima pagina, un’intervista al medico della Contessa secondo la quale la nobildonna “non fu mai ricevuta da Fini”.
     Non so se la circostanza è vera. Ma escludo, per come conosco il Presidente, con il quale ho collaborato per cinque anni come Capo di gabinetto quando era Vicepresidente del Consiglio che abbia fatto un tale sgarbo, non solo ad una persona che si apprestava a lasciare in eredità al Partito un immobile di un qualche pregio, ma ad una signora che gli avesse chiesto di incontrarlo.
     Fini è persona garbata, molto attento alle regole della buona educazione ed ha elevata disponibilità umana ad ascoltare chi si rivolge a lui. Più volte mi chiamava nel suo studio mentre riceveva persone che riteneva potessero avere da me, da tecnico, spiegazioni su questioni che preoccupavano l’ospite. Per cui ho potuto constatare da vicino, come in tante altre occasioni in giro per l’Italia ed all’estero nel corso di visite ufficiali, quale attenzione il Presidente riservasse ai suoi interlocutori. E’ proprio di tutti i politici che curano la loro immagine ai fini del consenso, ma credo di poter dire che in Fini questo tratto umano è espressione autentica della sua personalità, della sua educazione.
     Se, dunque, è vero che non ha ricevuto la Contessa Colleoni è molto probabile che ciò sia avvenuto per un disguido della sua segreteria o di qualche più vicino collaboratore che potrebbe non essersi reso conto della personalità che chiedeva l’incontro e che l’abbia confusa con i tanti questuanti che affollano le anticamere dei potenti e che non mancavano mai al terzo piano di palazzo Chigi, nell’ala che si affaccia su Piazza Colonna, dove tradizionalmente sono gli uffici  dei Vicepresidenti del Consiglio.
     Sarà stato sicuramente un disguido di segreteria. Sempre possibile, ovviamente, in ogni ambiente. Tuttavia per Fini alcuni di quei collaboratori sono stati, in più di qualche occasione, occasione di scarso apprezzamento. Trasportare ambienti di partito nella sede del Governo non sempre dà risultati adeguati in un ambiente di funzionari abituati a trattare con i vertici delle istituzioni, con garbo e professionalità. Per cui non sono stati ritenuti all’altezza del ruolo e della pomposa definizione formale taluni consiglieri, che pure Fini aveva richiesto per soddisfare richieste di partito, senza considerare che i consulenti dei ministri sono sempre magistrati, avvocati dello Stato o docenti universitari, cioè esperti certificati e non persone di buona volontà e di “sicura” fede. Dotati solo di arroganza, escluso ogni senso del limite. Basti pensare che uno di questi “consiglieri”, avendo intercettato all’uscita dalla mia stanza un dirigente del tesoro mio amico d’università si è rivolto a lui dicendo che se avesse avuto bisogno di qualcosa a Palazzo Chigi poteva rivolgersi a lui! Che è tornato nel mio studio per farsi con me sonore risate a proposito dell’improntitudine del personaggio.
     Sono di questi personaggi, che Fini non è sempre riuscito a tenere a distanza, perché come tutti i politici ama coloro che si distinguono in piaggeria, che possono aver negato l’incontro alla Contessa Corleoni, gli stessi che facevano attendere in anticamera Domenico Fisichella, Vicepresidente del Senato, poco amato dall’entourage, un intellettuale, o Pietro Mitolo, una delle persone migliori che ho conosciuto nell’ambito di AN, un gentiluomo ed un politico che tanto ha dato alla Destra italiana nella difficile terra di Bolzano.
     L’ho ripetuto più volte e lo insegna la storia. Sono i collaboratori spesso a fare la fortuna di un politico, la sua immagine, in positivo o in negativo. Eppure molti, pur politici di valore, continuano a circondarsi di mezze tacche, persone ricche soltanto di ambizioni, il più delle volte sproporzionate rispetto agli studi fatti ed alla loro tempra morale.
6 agosto 2010

de astensione
di Senator

     Mi capita di rado di essere d’accordo con Silvio Berlusconi, e, comunque, quasi sempre i motivi di una determinata sua affermazione sono diversi dai miei. Accade anche stavolta, a proposito della non comprensibilità dell’astensione di alcuni Gruppi, UDC, API, Finiani e MPA, sulla mozione di sfiducia presentata dalle opposizioni nei confronti del Sottosegretario di Stato al Ministero della Giustizia, Giacomo Caliendo.
     In effetti anche a me stupisce l’astensione, anche se ne comprendo il motivo, quello di non far cadere il Governo dopo l’uscita dei finiani che hanno dato vita ad un nuovo raggruppamento parlamentare, pur restando a far parte della maggioranza. In sostanza Casini, Rutelli e Lombardo si sono prestati a togliere dall’imbarazzo Fini che, dopo essersi vestito da paladino della legalità e del senso dello Stato avrebbe avuto difficoltà a votare contro la mozione, del 14 luglio 2010, degli On.li Franceschini, Donadi e Amici.
     Comprendo le motivazioni dell’astensione anche se non posso negare che quel voto sia espressione di una buona dose di ipocrisia nella quale si sono esercitati un po’ tutti coloro che hanno sostenuto l’opportunità di non scegliere, allegando motivi vari, tra opportunità e diritto, discettando di giustizialismo e garantismo nel linguaggio proprio del politichese, quello che la gente non capisce, anzi a sentire il quale, il più delle volte s’indigna.
     Ma perché a mio giudizio l’astensione è incomprensibile e decisamente ipocrita?
     Per ragionarci sopra occorre rileggere attentamente la mozione, il documento in discussione. La riporto integralmente.
     “La Camera,
premesso che:
     emerge dalle notizie di stampa di questi giorni una vicenda che riguarda l’esistenza di un gruppo di persone, tra le quali alcuni pregiudicati, che in modo sistematico sembra che costruiscano o cerchino di costruire relazioni e contatti allo scopo dichiarato di orientare decisioni di organi costituzionali e politici; questo gruppo trova udienza in esponenti del Governo, tra i quali il Sottosegretario alla giustizia, senatore Giacomo Caliendo;
     il Sottosegretario Caliendo ha confermato in questi giorni la sua presenza a convivi con tale gruppo di persone, ma ha negato che, in sua presenza, si sia parlato di come condizionare organi dello Stato;
     al di là della responsabilità penale, non può non essere politicamente censurabile la partecipazione del Sottosegretario Caliendo, che al momento non risulta indagato, a riunioni, in compagnia del capo degli ispettori ministeriali dottor Miller, con un bancarottiere pregiudicato sospettato di essere implicato in alcune delle vicende più torbide del dopoguerra,
     impegna il Governo
   ad invitare il Sottosegretario Giacomo Caliendo a rassegnare le dimissioni da Sottosegretario di Stato alla giustizia. Franceschini, Donadi, Amici”.
     Prima osservazione. I presentatori  della mozione non si riferiscono a problemi giudiziari del Sottosegretario, che solo successivamente risulterà indagato. Comunque, anche questi fatti non avrebbero avuto rilievo nella impostazione della mozione, tutta improntata su motivi di opportunità.
     Quel che rileva, invece, è la situazione di incompatibilità che per il Senatore Sottosegretario alla Giustizia è stata individuata dai presentatori della mozione sicché, rispetto a quella si può essere favorevoli o contrari, non indifferenti, come l’astensione attesta.
     Certo, l’abilità oratoria di Pierferdinando Casini, democristiano di lungo corso, ha esibito tutte le possibili argomentazioni capaci di giustificare l’astensione. Tutte poco convincenti, per la verità, Il rifiuto del giustizialismo e il rifiuto di minimizzare la questione morale, che – ha detto – esiste avrebbe dovuto portare a diversa conclusione. Considerato che “non basta non commettere reati” perché esistono motivi di opportunità, di decoro, di decenza che dovrebbero consigliare di evitare talune frequentazioni.
     Ma questa è la ragione della mozione di sfiducia, come risulta dal testo e come è stata presentata da coloro che l’hanno sottoscritta e sono intervenuti nel dibattito. Per cui l’alternativa è secca, votarla o respingerla. Come spesso, anche in politica tertium non datur.
     Che poi l’iniziativa di Casini, Rutelli, Lombardo  e Fini abbia una consistenza politica notevole, che, infatti, ha preoccupato il Cavaliere, è altra cosa. Ma forse bastava uscire dall’aula al momento del voto.
5 agosto 2010

Scenari da un divorzio inevitabile
di Salvatore Sfrecola

     Annunciato, così è stato definito dai più il divorzio Fini Berlusconi, ma, in realtà, come molti matrimoni, quello tra il Popolo della libertà e Alleanza Nazionale non s’aveva da fare. Perché, ad onta di quanto abbiamo letto in questi giorni, anche nelle parole dell’On. Fini, il leader di AN non è stato in realtà un confondatore, dacché, all’annuncio dell’iniziativa del Cavaliere, il famoso discorso dal predellino in piazza San Babila, il commento di Fini fu “siamo alle comiche finali”. Salvo poi ad entrare armi e bagagli nel Pdl.
     Confodatore o meno, dunque, quell’incontro non doveva esserci. Fini avrebbe dovuto seguire Bossi, che è rimasto autonomo ma alleato, in tal modo condizionando pesantemente le iniziative del Pdl e del Governo. Basta pensare al federalismo fiscale che segna l’agenda dell’esecutivo da mesi.
     Invece, Fini è passato da un commento in qualche misura ingiurioso ad una frettolosa convergenza, della quale non si comprendono ancora le ragioni.
     Troppo diversa la storia dei partiti di provenienza, Forza Italia dominato dalla figura carismatica del leader che sceglie uno ad uno deputati e senatori, consiglieri regionali, provinciali e comunali, al termine di una selezione spesso umiliante, fatta di “colloqui” con cacciatori di teste, gli head hunter che ricercano manager e dirigenti d’azienda. Un modo con il quale è difficile scegliere il politico adatto.
     Comunque un partito, Forza Italia, privo di radicamento sul territorio, quella caratteristica che, invece, faceva di Alleanza Nazionale una realtà politica in ogni regione, anche in quelle tradizionalmente “rosse”.
     Lontani anni luce i due protagonisti del “matrimonio” politico. Il Cavaliere, “non politico” che, invece, dimostra grande intuito e spiccata capacità di comunicare, ma ancorato a “valori” che non sono quelli di Fini, che eredita la storia del Movimento Sociale Italiano, con le sue luci e le sue ombre, a cominciare dall’incerta collocazione politica in una destra che non è quella tradizionale, democratica, cattolica e liberale, molto più vicina all’esperienza socialista del Fascismo repubblicano, con attenzione ai problemi sociali delle classi sociali più disagiate, per cui l’MSI e poi Alleanza Nazionale pescano consensi nelle periferie degradate delle grandi città, a cominciare da Roma.
     Poi c’è una differenza caratteriale, direi fisica, tra il Cavaliere inamidato nei suoi doppiopetto tutti uguali e Fini, elegante ma disinvolto, che ostenta cravatte sgargianti, dai colori che mai Berlusconi userebbe, il giallo o il rosa. L’uno che caracolla esuberante, l’altro che sembra incedere timidamente, tranne poi a sfoderare un’oratoria garbata ed efficace, che piace alla gente, sarà anche per quell’inflessione che ricorda una regione di gente allegra ed ironica, l’Emilia Romagna.
     I due non si sono mai potuti vedere. E’ stato, il loro, un matrimonio d’interesse. Che  è finito nel momento in cui quell’interesse è venuto meno, quando Fini si è reso conto che Berlusconi stava monopolizzando la vita politica con prese di posizioni preoccupanti per il futuro della democrazia, per l’intolleranza del Cavaliere al rispetto delle regole e delle istituzioni, dal Presidente della Repubblica, alla Corte costituzionale, alle varie magistrature, nessuna esclusa, solo che osassero assumere iniziative contrarie alle sue decisioni ed ai suoi provvedimenti. Una intolleranza che, va detto, non aveva dimostrato neppure Benito Mussolini il quale aveva il giusto rispetto per la Ragioneria Generale dello Stato e la Corte dei conti, che spesso negava il visto ai suoi atti, e la stessa magistratura. Tanto è vero che, quando ha voluto perseguire i suoi avversari politici non ha imposto ai giudici di occuparsene, ma ha creato appositi Tribunali “per la difesa dello Stato”.
     Crescendo l’arroganza del Cavaliere Fini non poteva rimanere oltre nel Pdl, soprattutto dopo che i suoi “colonnelli” sono passati sotto il comando del Cavaliere. Anzi Gasparri e La Russa sono stati i più duri contestatori delle iniziative del Presidente della Camera.
     Quali, dunque, gli scenari che si profilano?
     Probabilmente il Governo andrà avanti, “controllato” dalla pattuglia finiana che sembra avere una consistenza maggiore di quella che Berlusconi immaginava e che, forse, gli avevano fatto credere Gasparri, La Russa e Matteoli.
     In tal modo il Governo è retto da una coalizione, Pdl, finiani e Lega, quella che ha vinto le elezioni. Potrà andare avanti, ma certamente non potrà avviarsi verso “riforme” devastanti della Giustizia e dell’assetto costituzionale, che tanto desidera il Cavaliere,  perché Fini non gli farà fare.
     Che dirà la Lega se il federalismo fiscale, tanto agognato dal popolo delle partite IVA, che non hanno ancora capito quel che gli potrebbe capitare, non avrà gli sviluppi che immagina, o sarà ricondotto nell’ambito di una visione nazionale del sistema tributario? Potrebbe volere quelle elezioni anticipate che oggi Bossi scongiura. Ma che non vuole neppure il Cavaliere che ha dietro l’angolo l’ipotesi di una maggioranza prodiana, cioè risicata, impossibile per governare. Oltretutto con l’effetto di veder sfumata l’ipotesi Quirinale.
     Da parte sua Fini deve, per interposta persona, è pur sempre il Presidente della Camera, organo di garanzia, riordinare le sue fila per cui non ha interesse a forzare la mano, a far cadere il Governo se non su provvedimenti dei quali può sostenere con ampie ragioni la incompatibilità con quello stato democratico e liberale del quale si riempie la bocca colui che lo ha cacciato, reo di aver dissentito.
     Tutte le ipotesi sono possibili, dunque, ma è probabile un periodo di tregua. Accelerare i tempi della crisi, in fin dei conti, non conviene a nessuno dei protagonisti, neppure a Casini, la cui scelta di correre autonomamente a suo tempo ho ritenuto saggia. Neppure il Partito Democratico che, come ha scritto Angelo Panebianco sul Corriere della Sera di ieri, è nato, dopo la debacle di Prodi, solo in funzione di contrastare Berlusconi, senza più riferimenti ideologici, senza un programma che non fosse la foto in negativo di quello del Cavaliere, una scelta che non ha pagato e che va rapidamente abbandonata. Ad un paese democratico serve infatti un’opposizione, ma deve essere realmente alternativa.
1 agosto 2010

TG5 delle 8.00: Milan batte l’Arsenal!
(ma era solo un pareggio!)

     Sarà che il desiderio di compiacere il padrone è la regola dell’imprenditoria privata, sarà, naturalmente, per un errore di impaginazione, ma stamattina, nei titoli di testa del telegiornale, alle 8.00, Canale 5 ha dato la notizia della vittoria del Milan sull’Arsenal, poi ridimensionata in un 1 a 1 nel servizio dedicato all’incontro nella pagina sportiva.
     E’ stata una bella partita ed il Milan ha certamente meritato di pareggiare con uno straordinario gol di Zambrotta  e due gol mancati. Ma l’entusiasmo ha fatto inizialmente un brutto scherzo!
     Non sarà che anche il Cavaliere, all’indomani del divorzio da Fini, continua a cantare vittoria ed a manifestare fiducia nei “numeri” del Governo senza aver fatto bene i conti?
1 agosto 2010

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