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Marzo 2014

Pro memoria per il Ministro Madia. La riforma della Pubblica Amministrazione: come e perché
di Salvatore Sfrecola
Il Presidente del Consiglio ha posto tra i primi obiettivi del suo governo la riforma della Pubblica Amministrazione. Il Ministro Madia, con delega alla semplificazione e all’amministrazione, ha fatto sapere di avere messo in cantiere misure concrete, a cominciare dal ringiovanimento dei ranghi, attraverso un esodo o un prepensionamento, come hanno scritto i giornali un po’ frettolosamente.
L’obiettivo è certamente funzionale a rendere efficiente la macchina del governo. Anche con tagli funzionali, come suggerito dal Commissario Cottarelli nella versione riveduta e corretta dal Presidente Napolitano che ha richiamato l’esigenza di tagli selettivi e funzionali a mantenere in efficienza gli apparati pubblici.
Che Renzi punti a mettere mano in tempi brevi alla riforma degli apparati pubblici è segno di speciale attenzione per l’esigenza di buon funzionamento della macchina pubblica attesa dai cittadini e dalle imprese.
Lo abbiamo scritto più volte su questo giornale, la P.A. è lo strumento necessario per governare, per perseguire con efficacia, efficienza ed economicità, nel rispetto della legge, le politiche pubbliche individuate nel programma del governo, approvato dal Parlamento. Ne consegue che la prima preoccupazione dei governi è da sempre quella di disporre di un apparato idoneo alla sua politica, quanto a ordinamento degli uffici, professionalità degli addetti e adeguatezza della normativa, intesa come somma di disposizioni che individuano attribuzioni, competenze e procedimenti.
Sembra tutto molto elementare. Un ministro responsabile di una pubblica amministrazione, come un imprenditore, si deve preoccupare in primo luogo di come realizzare gli obiettivi di interesse pubblico individuati dalle attribuzioni della struttura a lui affidata, tenendo conto delle leggi che ne disciplinano l’attività e degli uomini che operano alle sue dipendenze. Per questo le amministrazioni pubbliche hanno una struttura delineata dalle leggi che ne disciplinano l’organizzazione e il funzionamento, individuando anche le professionalità occorrenti in relazione alle procedure che gli addetti sono chiamati ad applicare. Conseguentemente l’Amministrazione pubblica dispone di tanti giuristi, economisti, ingegneri, medici, fisici, geologi, ragionieri, geometri e via via enumerando secondo una valutazione che tiene conto dei servizi da rendere e dei modi con i quali questi vengono resi. Nel tempo, tuttavia, cambiano le professionalità richieste. Una osservazione banale, ad esempio, ci dice che negli ultimi anni è stata profondamente ridimensionata la categoria dei dattilografi in quanto tutti i pubblici funzionari, a cominciare dai vertici, usano il computer per scrivere appunti, lettere, provvedimenti.
Queste prime considerazioni ci conducono ad una riflessione essenziale. Le professionalità degli addetti e la consistenza organica degli uffici sono stabilite in origine sulla base di parametri certi, le attribuzioni e le procedure. È sulla base di questi parametri che le amministrazioni stabiliscono di quanti ingegneri, giuristi, economisti e via dicendo hanno bisogno. Esigenze che variano nel tempo in relazione alla modulazione dei procedimenti e degli adempimenti necessari per rendere i servizi previsti dalle leggi. Sicché la consistenza dei ruoli varia nel tempo. Ugualmente variano le professionalità richieste.
Se ne deduce che una riforma della pubblica amministrazione che intenda offrire ai cittadini ed alle imprese servizi efficienti in tempi brevi ed a costi contenuti deve necessariamente procedere da una revisione delle attribuzioni e delle procedure in modo da individuare il numero degli addetti necessari per una specifica branca amministrativa o tecnica e la loro collocazione sul territorio. In questo senso in un paese efficiente la riforma della P.A prevede un adeguamento continuo.
Aggiungiamo che la riforma possibile deve necessariamente tenere conto della necessità di acquisire le migliori professionalità disponibili nel mercato del lavoro, attraverso una selezione severa che metta a disposizione dello Stato funzionari ed impiegati di valore.
È un impegno essenziale che ha caratterizzato le amministrazioni pubbliche degli stati europei a più alto tasso di efficienza. Francia, Germania, Spagna, Regno Unito dispongono da sempre di corpi di funzionari di elevata professionalità. Il servizio allo Stato è ritenuto in questi paesi attività di grandissimo prestigio “al servizio esclusivo della Nazione”, come si legge nell’art. 98 della nostra Costituzione. È nella tradizione di molte famiglie, anche in Italia, servire nelle amministrazioni in quel ruolo che Piercamillo Davigo ha chiamato “La giubba del Re”, facendone il titolo di un fortunato volume sulla lotta alla corruzione.
Tuttavia non va taciuto che il modesto livello di efficienza dell’Amministrazione italiana svilisce il ruolo del pubblico dipendente, lo dipinge sovente come un “fannullone”, in tal modo allontanando i migliori delle nuove generazioni. Complice anche il trattamento economico non sempre adeguato a remunerare elevate professionalità. Basti pensare agli insegnanti.
Riusciranno Renzi ed il Ministro Madia a restituire prestigio ed efficienza alla funzione pubblica? Non giovano certo le prime indiscrezioni sulle scelte allo studio, come l’esodo indiscriminato e forzato, che priverebbe i nostri uffici di importanti esperienze formatesi nel tempo, attraverso gli insegnamenti trasferiti dai più anziani ai più giovani in un continuum virtuoso che caratterizza tutti i luoghi di lavoro.
Contemporaneamente la riforma richiede la revisione dell’organizzazione con individuazione delle funzioni dirigenziali e di quelle dei quadri, categorie professionali che negli ultimi anni sono state in vario modo mortificate. I dirigenti in molte amministrazioni sono troppi, preposti a strutture modeste con attribuzioni di scarso rilievo. I quadri, i funzionari non sono più il corpo dal quale si reclutano i dirigenti dopo una esperienza sul campo in ruoli rilevanti.
La politica del divide et impera ha moltiplicato gli uffici dirigenziali conseguentemente di ridotte competenze. Gli addetti hanno accettato di perdere competenze a fronte di una qualifica dirigenziale che soddisfa la loro vanità a nulla rilevando che quel ruolo sia poco più di un biglietto da visita.
Questa politica ha interessato anche i vertici militari. Abbondano i generali di corpo d’armata o di divisione laddove un tempo quelle funzioni erano attribuite ad ufficiali di rango inferiore.
In conclusione la P.A. va ripensata, quanto ad attribuzioni ed a procedure arruolando i migliori professionisti dei vari settori. Solo così è possibile restituire efficacia all’attività delle pubbliche amministrazioni e farne uno strumento efficace di governo per realizzare le politiche pubbliche alle quali i governi affidano la realizzazione dell’indirizzo politico approvato in sede elettorale.
Riuscirà Renzi in questa opera fondamentale per assicurare sviluppo economico e sociale? Le prime dichiarazioni dicono di una scarsa conoscenza del fenomeno P.A. con conseguente difficoltà di imboccare la strada della riforma che i cittadini attendono da tempo. Che richiede certamente tempo. Ma chi se ne intende sa che si può procedere per tappe ravvicinate modificando rapidamente alcune regole che costituiscono un impaccio inutile per cittadini ed imprese, così dando immediatamente il senso dell’innovazione.
Riuscirà Renzi? Ce lo auguriamo fortemente.
27 marzo 2014

Domenica 30 marzo una conferenza di Michele d’Elia al Circolo Rex
Vittorio Emanuele III di fronte alla storia

di Salvatore Sfrecola

È il titolo della conferenza che il Prof. Michele d’Elia, storico, direttore della rivista Nuove Sintesi, trimestrale di cultura e politica, terrà domenica 30 marzo a  conclusione del 66° ciclo annuale di conversazioni del Circolo di Cultura e di Educazione Politica Rex, presieduto dall’Ing. Domenico Giglio, a Roma, alle 10,45, nella Sala dell’Istituto Salesiano, in via Marsala 45.
Figura controversa per la complessità degli eventi storici che hanno caratterizzato il suo lungo Regno, quella di Vittorio Emanuele III è stata certamente una personalità complessa essendo stato chiamato ad esercitare le sue funzioni di Capo dello Stato in condizioni spesso difficili, a partire dai giorni immediatamente successivi all’assassinio del padre, Umberto I, quando si oppose decisamente alla repressione che gli veniva da più parti consigliata, quasi a giustificare una svolta autoritaria in un momento difficile della vita politica e sociale del nostro Paese.
Seppe mantenere la fermezza e l’equilibrio che in altri momenti difficili gli sarebbero stati riconosciuti affidandosi ad uomini sicuramente liberali, aperti alle istanze sociali emergenti (si parlò addirittura di “Monarchia socialista”) e capaci di cogliere il momento politico difficile di una grande nazione nella quale masse consistenti di lavoratori, inquadrati del nascente movimento socialista, vivevano un radicale cambiamento del contesto economico e sociale nel quadro della rivoluzione industriale che segnava cambiamenti radicali nella società italiana. Restituì fiducia agli italiani dopo gli scandali bancari e finanziari che avevano riempito le cronache degli ultimi decenni dell’800.
Si avvalse di Giovanni Giolitti e di una classe politica liberale pronta a sanare la profonda ferita che aveva segnato l’annessione dello Stato della Chiesa al Regno d’Italia con Roma capitale. È il periodo delle grandi riforme economiche e sociali che avrebbero modernizzato l’Italia e favorito una significativa presenza del nuovo stato nel contesto internazionale, anche con l’impresa coloniale di Libia (“la grande proletaria si è mossa”, disse Giovanni Pascoli nel discorso tenuto al Teatro comunale di Barga il 21 novembre 1911) propedeutico al completamento dell’unificazione del Paese, quello che Domenico Fisichella ha chiamato “Il miracolo del Risorgimento”, espressione che è anche il titolo di un suo fortunato volume ricco di riflessioni sostenute da una ricca documentazione.
Poi la conclusione del Risorgimento con l’annessione di Trento e Trieste al termine di una guerra difficile, sanguinosa eppure momento unificante delle popolazioni da poco più di cinquant’anni riunite sotto una stessa bandiera.
La gestione del primo dopoguerra non è stata facile, per incapacità dei partiti di proporre ricette adeguate alla grave crisi economica e sociale conseguente alla riconversione dell’industria bellica ed alla ripresa dell’agricoltura, del commercio e dell’artigianato che avevano sofferto per l’assenza dei protagonisti di quei settori chiamati alle armi. E il malessere della classe media, dei professionisti, dei borghesi, degli artigiani, quella che si suole definire la spina dorsale del Paese, al centro di una contrapposizione di ideali e di interessi, spesso segnata dalla violenza fisica, come si legge puntualmente nei diari del Re che li andava annotando di giorno in giorno, che il governo non riusciva a dominare. E non c’è da attribuire tutte le responsabilità alla irresolutezza del Presidente del Consiglio, quel Luigi Facta passato alla storia per la battuta in lui consueta “nutro fiducia”, di fronte alla assenza dei partiti e dei massimi loro esponenti, da Giolitti a Sturzo, da Nitti a Bonomi, a Turati, per non richiamare che i massimi esponenti dell’epoca. Tutti interpellati dal Re perché dessero la loro disponibilità ad un governo di salvezza nazionale, oggi si direbbe di “larghe intese”, per ripristinare l’ordine ed avviare un percorso di risanamento dell’economia. Una situazione che per un Capo di Stato costituzionale, il quale amava ripetere di avere come occhi ed orecchie la Camera ed il Senato, è stata nel tempo una grossa limitazione quando sarebbe stato necessario intervenire. Come dimostra l’accettazione delle dimissioni di Benito Mussolini dopo il voto del 25 luglio 1943 con il quale il Gran Consiglio del Fascismo, organo costituzionale, aveva sfiduciato il Duce.
E qui va aggiunto che, fin dall’esordio, proprio all’atto della costituzione del primo governo Mussolini, il Re fu lasciato solo e progressivamente isolato di fronte alla crescente espansione del regime che aveva anche risolto la “questione romana” con il concordato del 1929.
Solo in Re anche di fronte alle leggi razziali, solo al momento della decisione di entrare in guerra, certo da lui non amata anche per la tradizionale vicinanza alla Corona di San Giacomo.
Solo in molti momenti della sua vita istituzionale, Vittorio Emanuele III agli occhi dei partiti ha costituito, e costituisce tuttora un comodo parafulmine per tutti coloro che, al momento opportuno, hanno fatto il “gran rifiuto, evitando di impegnarsi per un governo di salvezza nazionale per affrontare la crisi del primo dopoguerra e successivamente mancando di assicurare al Sovrano quell’apporto che gli avrebbe consentito di opporsi alle leggi razziali e all’entrata in guerra. Ma che avrebbe potuto fare Vittorio Emanuele contro il fascismo nel momento del suo massimo consenso popolare, unanimemente riconosciuto, quando le orecchie e gli occhi del Re erano sordi e ciechi?
Eppure quell’uomo solo al momento opportuno non ha mancato al suo dovere di unico rappresentante dello Stato per raccogliere le macerie e su di esse ricostruire, quanto meno, la dignità del Paese. Lo accuseranno di essere fuggito da Roma e non terranno conto che la capitale era indifendibile di fronte alla armate tedesche e sarebbe stata distrutta e con essa la sede della cristianità ed i monumenti che il mondo ammira perché parlano di civiltà, gli acquedotti, le terme, i fori.
Il Prof. d’Elia che parlerà della figura del Sovrano domenica prossima ha trattato altre volte l’argomento, come in occasione del Convegno da lui organizzato a Milano il 30 novembre 2013 nella Sala degli affreschi di Palazzo Isimbardi, in Corso Monforte, per parlare di “Vittorio Emanuele III, Cittadino e Re”, con Donatella Bolech, dell’Università di Pavia (Vittorio Emanuele III e la politica estera), Roberta Cipriani, dell’Università di Roma Tre (Sviluppi della sociologia italiana nella prima metà del XX secolo), Salvatore Genovese, Docente di Disegno e Storie dell’Arte Liceo  “Vittorio Veneto” di Milano (Le arti durante il Regno di Vittorio Emanuele III), Giorgio Guartì, Giornalista e scrittore (L’informazione al tempo di Vittorio Emanuele III), Giampiero Goffi, Giornalista (La politica ecclesiastica di Vittorio Emanuele III), Marco Cuzzzi, dell’Università degli studi Milano (La Massoneria italiana nell’ultima fase dello Stato Liberale (1993 – 1925),  Lamberto Laureti, dell’Università degli studi Pavia (Scienza e tecnica nel tempo di Vittorio Emanuele III), Giovanna Bardone (Testimonianze).
Figura controversa, dunque, quella del Re, ma anche di notevole spessore culturale. Si ricorderà il suo Corpus Nummorum Italicorum, considerata un’opera fondamentale per la conoscenza delle monete coniate nel tempo sul territorio italiano, e la sua esperienza di geografo, tanto da essere chiamato a definire confini di stati stranieri in una sorta di arbitrato internazionale. Per non dire che, avviandosi le celebrazioni della prima guerra mondiale, alla quale l’Italia partecipò solo dal 2015, si dovrà ricordare il “Re soldato” ed il Capo delle Forze Armate che rivendicò a Peschiera, dinanzi ai massimi responsabili degli eserciti alleati, la dignità dei nostri militari garantendo personalmente sulla tenuta del fronte dopo Caporetto, quando massima era la sfiducia degli anglo-francesi nelle nostre Forze Armate e si voleva che gli uomini in grigioverde ripiegassero ulteriormente, così consegnando al nemico l’intera Italia settentrionale.
Controversa figura, forse, in un periodo difficile della storia italiana, ma certo un uomo intellettualmente onesto e fedele al giuramento prestato all’atto di cingere la corona insanguinata del padre.
26 marzo 2014

In un  convegno allo Yacht Club De Monaco *
Il Borghese e il permanente valore delle idee
di Salvatore Sfrecola

Quando, alcuni mesi fa, Filippo de Iorio, avvocato, politico e scrittore, Presidente della “Fondazione de Jorio” per la storia del Sud, mi parlò dell’idea di promuovere a Montecarlo, il 19 marzo, nella splendida cornice dello Yacht Club De Monaco, un’incontro dal titolo “Viaggio in Italia – Sessantaquattro anni di storia, cultura, costume e società dalle pagine de Il Borghese”, coinvolgendomi tra i relatori, compresi subito che l’iniziativa non poteva essere soltanto celebrativa di una storia illustre, culturale e politica, ma anche letteraria e artistica. Perché l’occasione del compleanno della testata più anticonformista della Destra avrebbe naturalmente indotto i partecipanti al convegno ad una riflessione più ampia, per riprendere le fila di quel confronto ideologico che dall’immediato dopoguerra si è andato sviluppando in Italia, nonostante il tentativo di mettere la sordina alle distinzioni ideologiche, per celebrare il “crepuscolo delle ideologie” (come nel titolo del libro di Gonzalo Fernandez de la Mora, edito da Nuove Idee).
Sulla base di una sbrigativa equiparazione tra ideologia e pensiero politico autoritario e totalizzante, come incarnato dai regimi statali responsabili delle tragedie che hanno insanguinato il ‘900, il Comunismo e il Nazismo, si è di fatto decretata anche la fine delle idee, del confronto e delle distinzioni tra le forse politiche, nella convinzione che ciò fosse un bene. In qualche modo aprendo la strada alle èlite dei tecnici, dei tecnocrati che avrebbero dovuto tenere in ordine i conti secondo le indicazioni concordate in sede di Unione Europea e favorire il progresso sociale ed economico. Per poi verificare, proprio nel biennio che abbiamo alle spalle, che quei governi erano senz’anima e, pertanto, incapaci di immaginare strategie politiche idonee a programmare quel progresso che è nelle aspettative e nelle speranze dei popoli.
Il tentativo di convincere che la distinzione e il confronto avrebbero portato soprattutto all’esasperazione la dialettica tra i partiti ha mortificato il pensiero politico e frenato l’elaborazione delle idee e dei programmi, il loro collegamento col pensiero filosofico, con quella filosofia politica che guida i popoli ed i governi verso quello che in una determinata fase storica è ritenuto dalla maggioranza il fine cui tendere, il bene comune da perseguire.
“Le idee non servono più, in politica e nella società, nella cultura e nella comunicazione”- ha scritto Marcello Veneziani (La sconfitta delle idee, Laterza, Bari, 2003). Aggiungendo che esse “sono un ingombro più che una risorsa, limitano la prassi e irretiscono i desideri, castigano il sogno di mutazione che caratterizza ormai la vita pubblica e privata, perché inchiodano ad una continuità, a una decisione pensata, a un legame, a un orientamento di vita, insomma a una coerenza”. Con le idee, infatti, bisogna fare i conti, sono un fardello pesante, vincolano la politica e l’azione, esigono scelte conseguenti. Alle idee professate dai politici, infatti, guardano gli elettori, pronti a rinfacciare a chi le abbandona il tradimento rispetto alle promesse che hanno informato l’indirizzo politico elettorale e di governo.
Le idee portano a distinzioni che molti vorrebbero eliminare perché preferiscono l’omologazione, l’indistinzione che consente accordi sotto banco tra chi governa e chi si oppone, il classico “inciucio”, con il rischio, come ha scritto Domenico Fisichella (AA- VV., Cos’è la destra, Il Minotauro, Roma, 2001), “che al nome non corrisponda più la sostanza, che la parola “destra”- e quella “sinistra”, d’altronde – finiscano per individuare solo posizioni di potere e che la competizione tra di loro sia solo una competizione per il potere, senza che nella gestione di tale potere vi siano elementi di distinzione riconoscibili”. Di qui la formazione di governi di “larghe intese”, naturalmente frenati dai veti incrociati, in conseguenza di quel tanto di destra o di sinistra che in qualche modo si deve all’elettorato.
“Il potere per il potere”, dunque, da quando la “partitrocazia”, secondo il fortunato neologismo di Giuseppe Maranini, fa prevalere i partiti sulle istituzioni, attraverso l’accaparramento del potere, cui accedono gli effetti deleteri dello spreco delle risorse pubbliche e della corruzione, considerati un modo per far fronte ai costi della politica.
Sono certo che Filippo de Jorio, nell’organizzare il Convegno monegasco, ha pensato anche alla coincidenza delle date, tra il 15 marzo 1950, data di uscita del primo fascicolo de Il Borghese di Leo Longanesi, con le firme di Giovanni Ansaldo, Indro Montanelli, Giovanni Spadolini, Ernst Junger, Alberto Savinio, Gaetano Baldacci, Henry Furst e Giuseppe Prezzolini, e un giorno lontano del 1876, sempre a marzo, il 25, quando s’insediò il primo governo della Sinistra presieduto da Agostino Depretis, all’indomani di un voto parlamentare che aveva affossato il governo della Destra Storica la quale aveva appena potuto rivendicare, per bocca di Marco Minghetti, il raggiunto pareggio del bilancio dell’esercizio 1875 chiuso con un avanzo di 14 milioni, dopo anni di impegno risanatore affrontato dalla classe politica al governo senza timore l’impopolarità con una politica finanziaria e tributaria che fu definita “della lesina”.
Il richiamo al Governo Depretis non è per il cambio di maggioranza ma per il modo come essa si è formata, come ha gestito il potere negli anni successivi, con qualche intervallo, fino ad oggi. Un modo di procedere dominato da quello che è stato definito “trasformismo”, caratterizzato dal passaggio disinvolto di parlamentari dall’uno all’altro schieramento con una costante attenzione ai posti di potere negli enti locali e nelle imprese pubbliche. Non a caso l’accelerazione di Renzi nella corsa a Palazzo Chigi è stata da molti collegata alla straordinaria stagione dei rinnovi dei consigli di amministrazione delle società partecipate che interessa oltre 300 posizioni.
Nel 1876 e negli anni successivi, con grande abilità politica, Depretis e poi Crispi e Giolitti governarono con maggioranze nelle quali elementi di Destra e di Sinistra ed esponenti di clientele di potere e localistiche furono impegnati a gestire grossi interessi economici in forma incontrollata, dando vita ad una serie di manifestazioni di immoralità culminati in scandali e processi famosi che alimentarono il discredito nei confronti delle istituzioni.
Questo potere ampio e magmatico, che coinvolgeva i mezzi di informazione in mano ai potentati economici, ha impedito il formarsi, prima che di una opposizione numericamente consistente ed ideologicamente avvertita, anche di una coscienza del ruolo fondamentale della opposizione nella vita politica di una democrazia moderna.
Alimentato da interessi materiali, le nomina nei consigli di amministrazione degli enti e delle società pubbliche, l’affidamento di appalti di lavori, servizi e forniture, il trasformismo sgretola le certezze  della politica, affossa il bipolarismo, nega il bipartitismo mentre lo scenario politico si frantuma in piccole ma remunerative posizioni di potere tra Stato, regioni enti pubblici, società a capitale pubblico, un sistema nel quale si gestiscono somme ingenti spesso con disattenzione per gli interessi pubblici condizionati dai potentati economici legati ai partiti ed alle correnti di partito attraverso una distribuzione delle poltrone secondo il Manuale Cencelli, una puntuale attribuzione delle cariche in relazione alla consistenza delle forze politiche della maggioranza. Senza dimenticare l’opposizione, in tal modo zittita.
Nell’Italia del trasformismo imperante “tipico del carattere italiano”, sentenzia Prezzolini (Intervista sulla destra, Biblioteca di Libero, 2003), Il Borghese ha costituito una voce fuori dal coro, un richiamo costante ai valori, alle idee forti, sollecitando un confronto del quale è stato costantemente parte attiva, in un impegno per la libertà che ha caratterizzato l’intera vita di Longanesi, sempre controcorrente, anche ai tempi del fascismo, quando aveva costantemente mantenuto la sua libertà di giudizio. E pur schieratosi con il regime ne era stato la coscienza critica, tollerata al punto da irridere impunemente il conformismo fascista. Sua è la frase “il Duce ha sempre ragione”.
Giornalista, pittore, disegnatore, editore, attento alla tradizione, ma sempre con un atteggiamento intellettuale assolutamente libero anticonformista, Longanesi, che giovanissimo si era presentato nel mondo dell’informazione con L’Italiano (1926) divenuto presto la sede del dibattito politico più originale, in un momento di intenso dibattito sul rapporto tra arte e fascismo, e si caratterizza per una presa di posizione nettamente contraria all’esistenza di un’arte fascista: “Lo stile fascista – scrive – non deve esistere. Il nostro stile è quello italiano che è sempre esistito. Oggi occorre metterlo in luce”.
È la fronda antifascista: “I regimi totalitari – scrive – non consentono la battuta di spirito ma essi hanno il merito, involontario, di suscitarla”.
Continua con Omnibus, settimanale di attualità politica e letteraria, considerato il capostipite dei rotocalchi d’informazione. Longanesi così descrive la sua linea editoriale: “È l’ora dell’attualità. È l’ora delle immagini”. Edito da Angelo Rizzoli e Arnoldo Mondadori, Omnibus reca le firme di Indro Montanelli, Alberto Moravia, Vitaliano Brancati, Ennio Flaiano, Mario Soldati, Mario Pannunzio, Arrigo Benedetti e Alberto Savinio. Il successo è immediato.
Convinto che non manchi la libertà ma vi sia carenza di uomini liberi, Longanesi irrompe nel dibattito politico del dopoguerra caratterizzato dalla forte contrapposizione tra Democrazia Cristiana e Partito Comunista invitando dalle pagine de Il Borghese gli italiani a ragionare con la propria testa irridendo alle debolezze della classe politica anche attraverso le vignette da lui stesso disegnate e le foto che sono diventate un classico nella storia della polemica politica.
La borghesia è al centro dell’evoluzione della politica, nel bene e nel male, fin dal 1789. Continua lungo l’800, domina le rivoluzioni russa, prima dell’avvento dei bolscevichi, e quelle fascista e nazista. Nell’Italia del primo dopoguerra sono i professionisti, gli intellettuali, i commercianti a presidiare le piazze. Nel dopoguerra è la borghesia a bloccare l’avanzata delle sinistre nel 1948.
Ma i borghesi hanno bisogno di idee e Longanesi li stimola a riflettere, a riandare alle storie politiche e culturali perché esprimano un rinnovamento che stenta ad emergere dalla palude indifferenziata che vivrà ancora momenti di forsennato trasformismo, che saranno risparmiati a Longanesi. Verrà meno nel 1957, stroncato da un infarto, nel bel mezzo della sua battaglia combattuta con il giornale e il movimento politico che gli affianca, la Lega dei Fratelli d’Italia, organizzato in una serie di circoli cittadini richiamando la politica a cercare un equilibrio tra tradizione e modernità: “Chi rompe, non paga e siede al governo”.
Nell’avventura de Il Borghese lo aveva aiutato Mario Tedeschi, che ne diventerà il direttore, figura fondamentale per la vita della testata, animatore delle inchieste che per prime denunciano la corruzione nel mondo politico e le sovvenzioni illegali al Partito Comunista Italiano. Tedeschi assume nuovi giornalisti come Edgardo Beltrametti, Alberto Giovannini, Mino Caudana, Piero Buscaroli e Alberto De Stefani. Vi scrivono Piero Buscaroli, Luciano Cirri, Luigi Compagnone, Giuseppe Prezzolini, Guglielmo Peirce, Armando Plebe, Giovanni Ansaldo, Julius Evola, Alberto Giovannini e persino Indro Montanelli, sia pure sotto pseudonimo.
Il Borghese non è solo ricco di inchieste giornalistiche documentate e polemiche soprattutto a firma di Bonanni e Gianna Preda sul malcostume e sulla corruzione della classe politica, in anticipo di diversi decenni su “Mani Pulite”.
Dura, caustica, prontissima a criticare anche a sua stessa parte politica quando non ne condivideva certe battaglie, Gianna Preda era anche capace di teneri sentimenti, come quando intervistò Umberto II. Lei repubblicana, quando lo vede venirgli incontro si sorprende a pensare: “Questo è il Re d’Italia”, con “la coscienza di quello che i nostri figli hanno perduto: il senso della patria, il cui nome, in Italia, viene usato troppo spesso come piattaforma per inesistenti o fragilissimi sentimenti nazionali”.
Lungo colloquio, intessuto di ricordi, su fatti e luoghi, e della nostalgia dell’Esule. Poi il commiato, commosso. E la dura romagnola che tanto amava la polemica si allontana senza voltarsi. Non voleva che il Re si accorgesse che stava piangendo.
Le sue rubriche, le rassegne di arte e cultura, le recensioni bibliografiche e discografiche impegnano firme di valore nel panorama intellettuale di quegli anni, mentre l’attività editoriale porta nella case degli italiani libri di noti autori stranieri anticonformisti, come Vintila Horia e Salvador De Madariagada Luciano Cirri, Giuseppe Bonanni, Claudio Quarantotto ed altri. Le “Edizioni de Il Borghese” furono le prime a pubblicare il libro “Ritratti di coraggio” del futuro Presidente degli Stati Uniti John F. Kennedy
La “Posta dei lettori”, curata da Gianna Preda, redattore capo, è altra parte essenziale del giornale.
Muore nel 1981. Nel darne notizia, il 7 agosto 1981, un giornale allora di sinistra titolò: “Una penna di destra ma non conformista”. Infatti. Maria Giovanna Pedrassi, Gianna Preda come l’aveva ribattezzata Leo Longanesi, poteva essere polemica, sprezzante, anche visceralmente “contro”, ma conformista non fu mai, e tra i tanti giornalisti italiani che, nei decenni, si sono autodefiniti, a torto o a ragione, “scomodi” lei scomoda fu sul serio e fino all’ultimo.
Morto Tedeschi il giornale ha alterne vicende fin quando la testata torna nelle case degli italiani per iniziativa di Claudio Tedeschi, figlio di Mario, e dell’editore Luciano Lucarini con Pagine, che sviluppa anche la collana I libri del Borghese che pubblica volumi del pensiero conservatore italiano ed europeo, da Aznar a Cameron a Sarkozy.
Domani 25 maggio, alle 17, nel romano Palazzo Ferrajoli, in piazza Colonna 355, viene presentato il volume “Conservatori europei del novecento”, antologia a cura di Gennaro Malgieri.
Riprendono anche i Circoli del Borghese. Uno nasce in questi giorni nel Principato di Monaco.
24    marzo 2014

 * Sotto la Presidenza di Carlo Ravano, Commodoro del prestigioso Club, insieme a Claudio Tedeschi, direttore de Il Borghese e Luciano Lucarini editore.

Per eliminare sprechi e recuperare risorse
La burocrazia alla sfida della semplificazione
e dell’efficienza
di Salvatore Sfrecola
C’è una grande imputata in questa stagione di aspettative di ripresa dell’economia, della produzione e dell’occupazione: la burocrazia a tutti i livelli di governo, dai ministeri agli enti locali.
È la burocrazia, si sente dire, che frena sulle riforme, sulla lotta agli sprechi, sulla semplificazione necessaria per restituire efficienza agli apparati, alleggerire cittadini ed imprese da adempimenti inutili eppure costosi, se non altro in termini di tempo.
È veramente così? È la burocrazia, del Ministero dell’economia e delle finanze, in particolare i vertici della Ragioneria Generale dello Stato, che ostacola l’innovazione opponendo costantemente eccezioni sotto il profilo della copertura delle leggi di spesa o delle riforme che comportano oneri a carico del bilancio dello Stato?
Diciamo subito che la burocrazia ha le sue colpe. Non ha puntato sulla semplificazione delle procedure facendosi essa stessa promotrice delle riforme capaci di limitare gli adempimenti richiesti a quelli effettivamente necessari per decidere, autorizzare cittadini ed imprese, in una parola per rendere servizi efficienti all’altezza di uno stato moderno.
La burocrazia ha percorso la strada della moltiplicazione delle posizioni organizzative, dirigenziali e non, per acquisire migliori trattamenti economici e gratificazioni, spesso attraverso inutili denominazioni di funzioni. Abbondano i dirigenti di prima e seconda fascia, come abbondano nelle amministrazioni militari generali pluristellati. Situazioni di ipertrofia organizzativa che appesantiscono le strutture e le procedure, dal momento di ogni nuova struttura determina una ulteriore parcellizzazione degli adempimenti.
È tutta colpa dei burocrati, degli alti burocrati? In parte. Perché in buona parte l’inefficienza è responsabilità della politica che per accrescere il proprio potere ha seguito l’antica regola del divide et impera senza tener conto che, se si comanda meglio a piccoli reparti diretti da un dirigente con scarso potere, si ottiene anche l’effetto negativo della inefficienza.
I burocrati, dunque, condividono le responsabilità dell’attuale stato di cose con la politica perché sono i politici, in veste di governanti o di legislatori, che fanno le leggi, anche quelle che prevedono plurimi regolamenti spesso difficili da definire, occorrendo il concorso delle regioni che si ottiene solo attraverso una defatigante istruttoria preliminare ed una pesante trattativa in sede dei Conferenza Stato Regioni.
È vero, come si legge spesso, che anche i politici, in sede governativa e/o parlamentare subiscono l’influenza dei burocrati dei ministeri, quelli che conoscono leggi e regolamenti che è necessario cambiare. Ma è certo anche che è mancata negli anni una direzione politica autorevole, capace di stringere sulle riforme da fare e sui tempi della loro definizione.
Diamo, dunque, a ciascuno il suo. Dispiace, peraltro, per chi ha dedicato tempo, molto tempo, a studiare l’organizzazione ed il funzionamento della pubblica amministrazione, constatare che è mancato da parte della burocrazia, che annovera professionisti di valore in tutti i campi, l’iniziativa per una autoriforma che avrebbe confermato l’elevata preparazione tecnica della burocrazia statale e pubblica e la capacità che un tempo le era riconosciuta.
Occorre, dunque, uno scatto di orgoglio della dirigenti, che si scrollino di dosso il peso della sindacalizzazione e dell’ossequio interessato alla politica per fare carriera, ricordando che, come si esprime la Costituzione, “i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione” (art. 98), avendo premesso che “i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore” (art. 54, comma 2). Un quadro normativo che esprime il ruolo di una classe amministrativa formata da professionisti che altrove, penso alla Francia ma anche alla Spagna, al Regno Unito e alla Germania, assicura l’efficienza del potere pubblico nell’interesse dello stato, dei cittadini e delle imprese.
12 marzo 2014
La parità di genere per legge
offende le donne e la politica
di Senator
Nessuno mi ha convinto, e ritengo che nessuno mi convincerà, a ritenere “normale” che in un Paese democratico, nel quale le assemblee elettive sono espressione massima della partecipazione popolare alla gestione del potere, la composizione di questi organi debba essere predeterminata nel numero degli uomini e delle donne secondo quella che viene chiamata la “parità di genere”.
Che i partiti decidano di definire gli spazi dei due sessi nelle liste è questione che ben può essere decisa dalle istanze interne secondo principi ed in relazione a situazioni che i partiti stessi sono in condizione di valutare, anche in relazione al loro elettorato. Infatti il Presidente del Consiglio, che contemporaneamente riveste il ruolo di Segretario del Partito Democratico, di fronte alla bocciatura degli emendamenti per la parità di genere nell’Italicum, si è affrettato a dichiarare che comunque “Nelle liste democratiche l’alternanza sarà assicurata”.
Lì, infatti, è la sede di questa decisione che non potrebbe essere imposta per legge per l’ovvia ma, a quanto pare, trascurata ragione che si tratta di scelta che appartiene all’autonomia della politica. Anche per evitare che, vincolati dall’obbligo, i partiti vadano alla ricerca di donne anche quando in una determinata area territoriale non ve ne siano disposte a candidarsi, con l’effetto, negativo, di reclutare in altri ambienti o di mettere in lista donne tanto per rispettare l’obbligo.
Mi sembra che non si possa dire altro che un obbligo per legge nella composizione delle liste offende le donne e la politica. Soprattutto in un momento storico nel quale molte donne sono impegnate con riconosciuto successo nelle istituzioni rappresentative e di governo, al centro, nelle regioni e negli enti locali.
Le donne rappresentano parte essenziale della società, sono portatrici di esperienze preziose che contribuiscono alle decisioni che vengono prese, sia in fase di definizione delle politiche pubbliche che di gestione. Non hanno bisogno di una norma di tutela imposta ab extra ai partiti.
Molte donne impegnate in politica lo hanno capito. Anche Twitter ha recepito queste valutazioni “politiche” oltre quelle giuridiche delle quali ha dato conto Francesco Paolo Sisto, Presidente della Commissione affari costituzionali e relatore sulla riforma del sistema di voto: “sarebbe una norma con problemi di incostituzionalità evidenti”.
Diranno alcuni che norme del genere di quelle bocciate sono presenti in alcuni ordinamenti esteri. Non sono da imitare.
11 marzo 2014

Ce lo ha detto anche l’Unione Europea
Una grave limitazione la lotta alla corruzione
con un approccio penalistico
di Salvatore Sfrecola

A Che tempo che fa, ieri sera, Matteo Renzi ha annunciato che proporrà al prossimo Consiglio dei ministri la nomina di Raffaele Cantone a capo dell’Autorità Nazionale Anticorruzione. Che dire? Nulla della persona, certamente di valore, una vita a combattere la criminalità organizzata in Campania. Ce la metterà tutta certamente. E gli auguriamo, e ci auguriamo come italiani amanti della legalità, pieno successo. Ma se la scelta del governo rivela un approccio penalistico è sbagliata, dopo che il Parlamento aveva corretto con la legge n. 190 del 2012, come ha osservato la Commissione Europea nella sua relazione dei primi di febbraio, la tradizionale scelta prevalentemente repressiva.
In magistratura nel 1991, Sostituto procuratore presso il Tribunale di Napoli, poi nella Direzione distrettuale antimafia napoletana, Cantone nel 2007 passa all’Ufficio Massimario della Corte di Cassazione. Il 18 giugno 2013, il Presidente del Consiglio dei ministri Enrico Letta, lo nomina componente della task force per l’elaborazione di proposte in tema di lotta alla criminalità organizzata.
Un’esperienza importante con indagini sul clan camorristico dei Casalesi, sulle infiltrazioni dei clan casertani all’estero, dalla Scozia alla Germania, alla Romania ed all’Ungheria sulle tracce di esponenti di spicco del clan Schiavone. Ha curato altri importanti filoni investigativi Catone che oggi sbarca all’Anticorruzione.
Il suo taglio professionale e la sua cultura giuridica sono penalistici. Le sue pubblicazioni scientifiche e gli articoli pubblicati sul quotidiano Il Mattino riguardano espressamente il penale, dai reati fallimentari al giusto processo. I Gattopardi, una sorta di intervista con il giornalista dell’Espresso Gianluca Di Feo, segnalano una mafia in giacca e cravatta, che si muove tra collusioni e connivenze. Nell’aprile del 2012, per la Collana “Frecce” di Mondadori, Cantone, con Operazione Penelope, si chiede “perché la lotta alla criminalità organizzata e al malaffare rischia di non finire mai”. Una tela, quella che nel poema omerico, Penelope tesse di giorno e disfa di notte in attesa di Ulisse.
Il tema sfiora la corruzione sempre sotto il profilo penale, dell’approccio repressivo. Quello che la Commissione Europea ha visto superato con la nuova legge anticorruzione, la 190 del 2012, che – scrive- “ha riequilibrato la strategia rafforzandone l’aspetto preventivo e potenziando la responsabilità (accountability) dei pubblici ufficiali”. Quello che ha guidato nel settembre 2013 l’autorità nazionale anticorruzione CIVIT (Commissione per la Valutazione, la Trasparenza e l’Integrità delle amministrazioni pubbliche) ad approvare il piano nazionale anticorruzione predisposto per tre anni dal dipartimento della funzione pubblica, un piano d’azione, basato sulla valutazione del rischio di corruzione, che “si concentra principalmente sulle misure preventive e di trasparenza all’interno della pubblica amministrazione, includendo anche misure volte a facilitare l’individuazione di pratiche corruttive”.
Vincerà la scommessa Raffaele Cantone? Riuscirà dove hanno fallito coloro che si sono occupati di anticorruzione dopo la legge n. 3 del 2003 che aveva istituito l'”Alto commissario per la prevenzione e il contrasto della corruzione e delle altre forme di illecito all’interno della pubblica amministrazione”? Un funzionario “alle dirette dipendenze del Presidente del Consiglio”, una evidente anomalia. La notò immediatamente Marco Travaglio. Il primo Alto Commissario fu Gianfranco Tatozzi, Consigliere di Corte d’Appello, scelto da Berlusconi (si diceva fosse amico dell’Avv. Previti). Dopo di lui, che lascia l’incarico allo scadere di un biennio denunciando una non meglio specificata “scarsa sensibilità” verso la lotta alla corruzione, è la volta dei prefetti, Bruno Ferrante, Achille Serra e Vincenzo Grimaldi, nomi di prestigio che non lasceranno tracce evidenti.
Nel 2008 il Ministro dell’Economia Giulio Tremonti sopprime l’Alto commissario. “Costa troppo”, sembra sia stata la motivazione. La funzione passa con una struttura minore al Ministro per la semplificazione che si affretta a ridimensionare il “costo” della corruzione. Quei 60 miliardi segnalati dalla Corte dei conti per lui sono troppi. È un feroce critico della corruzione “percepita”. I processi sono pochi, falcidiati dalla prescrizione cui nessuno rinuncia, e poche le condanne. Per Brunetta è questa la corruzione, niente di più.
Incombe un obbligo internazionale l’ottemperanza all’articolo 6 della Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione, che impone un’autorità nazionale anticorruzione. Nasce l’Anac, “Autorità nazionale anticorruzione e per la valutazione e la trasparenza delle amministrazioni pubbliche”.
Adesso arriva Cantone. Speriamo vada a spulciare al di là del codice penale per arrivare a quegli sprechi, decine di miliardi, che siamo convinti da sempre, sono frutto di corruzione. Dagli appalti di lavori e forniture agli accordi bonari, ai collaudi, una giungla di procedure dove si insinuano compiacenze illecite.
10 marzo 2014
Lo dicono l’Unione Europea e l’OCSE, lo percepisce il cittadino
Non si contrasta la corruzione
senza cambiare le regole della prescrizione
di Salvatore Sfrecola

Sul finire degli anni ’80 erano poche migliaia, oggi sono oltre 130 mila i reati prescritti ogni anno. I più vari, ovviamente. Tra i quali spiccano corruzione e concussione, che più indignano il cittadino, per l’effetto perverso che determinano sui costi delle pubbliche amministrazioni e sulle regole della concorrenza tra le imprese.
Giusto un mese fa una relazione dell’Unione Europea sulla corruzione ha riservato pagine severe all’Italia, pur riconoscendo che la strategia di contrasto, che negli ultimi venti anni ha fatto leva in buona parte sull’aspetto repressivo, è stata riequilibrata dalla legge il 6 novembre 2012, n. 190, “rafforzandone l’aspetto preventivo e potenziando la responsabilità (accountability) dei pubblici ufficiali”. La nuova legge lascia tuttavia irrisolta una serie di problemi: innanzitutto perché “non modifica la disciplina della prescrizione”.
Centrale, infatti, è il tema della prescrizione che l’Europa raccomanda sia rivista profondamente. Lo si leggeva già nei rapporti del GRECO (Gruppo di Stati del Consiglio d’Europa contro la corruzione) e dell’OCSE, come una delle maggiori carenze del sistema che “contribuiscono alla percezione di un clima di quasi impunità e ostacolano l’efficacia dell’azione penale e l’accertamento nel merito dei casi di corruzione”.
I tentativi di definire un quadro giuridico in grado di garantire l’efficacia dei processi e la loro conclusione nei casi complessi sono stati più volte ostacolati. In diverse occasioni il Parlamento ha approvato o ha tentato di far passare leggi ad personam a favore di politici imputati in procedimenti penali, anche per reati di corruzione. L’U.E fa l’esempio del progetto di legge sulla “prescrizione breve”, con elevato rischio di vedere estinguere i procedimenti a carico di indagati incensurati, o del “lodo Alfano” che imponeva, per le quattro più alte cariche dello Stato, la sospensione dei processi relativi a fatti antecedenti l’assunzione della carica o della funzione e dei processi penali in corso. Legge poi dichiarata incostituzionale.
Insomma, il regime della prescrizione va cambiato “se si vuole tentare un approccio organico al tema della giustizia e dell’efficacia della macchina giudiziaria, come ha scritto Michele Vietti, Vice Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, in un suo fortunato libro Facciamo giustizia – Istruzioni per l’uso del sistema giudiziario, che dedica pagine importanti al tema, con riferimenti tratti dall’esperienza di altri ordinamenti, solitamente presi a confronto.
Per cui se la funzione essenziale della prescrizione – ricorda Vietti – “è da sempre quella di “misurare” l’effettivo interesse pubblico alla persecuzione dei reati sulla base del fattore tempo” non ha senso che continui a correre dopo l’avvio del procedimento penale, quando è evidente la volontà dello Stato di perseguire l’illecito penale. Come, del resto accade in altri ordinamenti, negli Stati Uniti, dove il periodo necessario perché il reato si estingua deve essere decorso interamente prima dell’inizio del processo, al momento del deposito dell’atto di accusa. Iniziato il processo, l’imputato non può più contare sulla prescrizione, “quindi non gli conviene tirare per le lunghe”, osserva Vietti, che constata come “non a caso il processo penale in quel paese è assai rapido”. In Francia, Spagna e Belgio l’esercizio dell’azione penale ha un effetto sospensivo, mentre in Germania la prescrizione continua a correre anche a processo iniziato, ma i tempi raddoppiano automaticamente.
Il regime italiano, dunque, ha l’effetto di consentire l’allungamento dei processi con ogni mezzo previsto dalle procedure, al fine di pervenire alla prescrizione del reato. Ciò che dimostra inequivocabilmente il timore della decisione nel merito.
Se ne deve dedurre che se l’effettività del contrasto alla corruzione misura la reale volontà della classe politica di perseguire un reato che da sempre indigna il cittadino onesto il quale percepisce che gli accordi illeciti tra amministratori, funzionari e imprenditori accrescono gli sprechi e, con essi, l’inefficienza dei servizi pubblici appaltati e la corretta realizzazione delle opere pubbliche, nel nostro Paese la lotta alla corruzione attende tempi migliori.
Il contrasto alla corruzione, tuttavia, non è solo un problema di repressione penale. La relazione dell’U.E. mette in risalto che l’Italia ha fatto un passo avanti attuando misure amministrative, di vigilanza e controllo, sull’attività delle amministrazioni pubbliche. Con qualche passo falso, tuttavia, come la mancata attribuzione di adeguati poteri alla Corte dei conti, controllore e giudice delle fattispecie di danno erariale, cioè dei maggiori costi di un sistema corrotto.
Così, tanto per fare un esempio, il decreto legge n. 174/2012, che ha previsto il controllo dei rendiconti dei gruppi consiliari regionali, finiti sui giornali di tutta Italia per le spese “non istituzionali” addebitate, è stato impugnato dai diretti interessati ed è sub iudice dinanzi alla Corte costituzionale. Intanto il governo continua a non consentire il reclutamento di magistrati contabili che dovrebbero essere poco più di 600, mentre in servizio superano appena i 400, per controllare 16 ministeri, 20 regioni, più di 100 province, ed oltre 8000 comuni e giudicare su eventuali illeciti di amministratori e dipendenti.
E la gente che si chiede perché il Comune di Roma ha potuto indebitarsi come abbiamo letto in questi giorni. Forse non sarebbe accaduto se qualche segnale fosse giunto in Campidoglio. In modo tempestivo ed autorevole.
Il fatto è che la classe politica è da sempre ostile al controllo di legalità e se, di tanto in tanto, sull’onda della indignazione popolare, si vede costretta a dettare norme più rigide di gestione e ad attribuire nuovi controlli alla Corte dei conti, al giro di boa di qualche mese sindaci e presidenti di regioni ricorrono alla Corte costituzionale o suggeriscono modifiche alle Camere in modo da annacquare i controlli, mentre si leggono sui giornali dichiarazioni intimidatorie di politici spregiudicati che censurano le iniziative dei magistrati contabili. Per non dire delle limitazioni che dal 2009 hanno frenato l’azione delle Procure regionali.
I politici contano da sempre sulla memoria dei cittadini, che ritengono labile. Sbagliando, perché le persone perbene, che sono sempre la maggioranza in questo Paese, memorizzano gli scempi ai quali assistono, sicché spesso si verificano sorprese nei risultati elettorali, com’è accaduto e come potrà ancora accadere se non si volterà pagina rapidamente, passando dalle parole ai fatti. Per dare a chi paga le tasse la soddisfazione di ritrovare nell’azione delle amministrazioni pubbliche quell’efficienza che sola può giustificarle.
2 marzo 2014

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