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Bisogno di Patria

di Salvatore Sfrecola

Le frecce tricolori che hanno solcato i cieli d’Italia, sullo sfondo dei mille campanili, delle cattedrali, dei castelli e delle aree archeologiche che ci inorgogliscono per una storia che non ha di eguali, dei monti, dei fiumi e dei mari per cui, almeno da Dante e Petrarca, questo è “il bel Paese”, sono state l’evento più gettonato sui social nell’ultimo mese. Quelle scie nei cieli blu con i colori della nostra bandiera hanno entusiasmato ovunque tutti, grandi e piccini, e gli applausi sono stati fragorosi, come se da lassù i nostri piloti fossero in condizione di sentirli. Anche se lo immaginavano certamente mentre portavano ovunque la bandiera, il “tricolore italiano”, come si legge nell’art. 12 della Costituzione.

Quell’entusiasmo della gente, ripetuto ad ogni passaggio degli aerei, non può essere soltanto una sensazione momentanea di gioia per lo scampato pericolo della pandemia finalmente contenuta, una liberazione per essere tornati nelle strade nonostante le limitazioni severe che condizionano le relazioni interpersonali e le frequentazioni di spiagge e piscine, adesso che l’Italia è investita da un caldo certo non prematuro. Credo si possa dire, senza tema di smentite, che dietro quegli applausi, quelle grida di gioia dirette ai nostri piloti ci sia altro, perché la bandiera “dai tre colori” che , come nella canzone dei nostri nonni, “è sempre stata la più bella”, è, nonostante tutto, nei cuori degli italiani. Nonostante si sia fatto di tutto perché la parola Patria fosse cancellata dal vocabolario corrente, perché forse qualcuno ne aveva abusato in passato facendone elemento di una politica nazionalistica aggressiva, come non è nell’animo degli italiani. Che sono molto diversi da come ci dipinge certa ideologia globalista che ci vuole chiusi, razzisti, intolleranti. Tutto il contrario, noi siamo gli eredi del più grande impero di tutti i tempi, espressione di indiscutibile civiltà, portata ovunque, con gli acquedotti, perché l’acqua è civiltà, con le fognature, con le terme, espressione di uguaglianza e di socializzazione, con il diritto che ha affermato principi di civiltà ancora oggi condivisi, come la nozione di persona, il concetto di aequitas, il giusto processo scandito dalla regola che chi è accusato ha il diritto di interrogare il suo accusatore.

Per secoli “calpesti, derisi, perché non siam popolo, perché siam divisi”, per circostanze che la gente comune non ha mai condiviso ma subìto, come le occupazioni spagnole, francesi ed austriache, volute da sovrani di modestissima levatura, gelosi del loro misero particulare, il “grido di dolore” che si levava da ogni parte d’Italia, giunto a Torino, è stato assunto come obiettivo nazionale da una Dinastia che, nata al di là delle Alpi, aveva da tempo optato per le valli piemontesi guardando al resto della penisola. Come testimoniano gli scritti e le azioni del più grande interprete politico dell’unità d’Italia, quel Conte di Cavour che, in tempi non sospetti, pensava in termini di Italia unita nella diversità delle storie locali, della bellezza dei territori, della ricchezza della cultura e dell’arte. E nella prospettiva di uno sviluppo economico armonioso dell’intera penisola, grazie alle ferrovie ed ai porti, perché l’Italia “come un immenso promontorio sembra destinata a collegare l’Europa all’Africa” (“Le ferrovie in Italia”, 1° maggio 1846). Per lui l’Italia va “considerata come un solo paese” (31 marzo 1847), e “fa pensare ad una precoce percezione di questa economia come un pressoché compiuto sistema economico peninsulare”, osserva Giuseppe Galasso.

Hanno fatto di tutto, dopo il 1946 ed il referendum Monarchia-Repubblica, per far dimenticare agli italiani l’orgoglio della propria storia, soprattutto di quella unitaria rappresentata dal Risorgimento, “unico tradizionale mastice – scrive Indro Montanelli – della sua unità”, quando da ogni parte d’Italia uomini di pensiero e d’azione, superando distinzioni politiche, liberali e conservatori, clericali e laici, monarchici e repubblicani, hanno ritenuto prioritario, rispetto alle divisioni, quello che univa, nell’obiettivo della Patria in un assetto costituzionale liberale e rappresentativo.

“Le democrazie – scrive Roger Scruton, nella introduzione a “Il bisogno di nazione” (Le Lettere, Firenze, 2012) – devono la loro esistenza alla fedeltà nazionale, fedeltà che si suppone venga condivisa da governo e opposizione, da tutti i partiti politici e dall’elettorato nella sua interezza”. Ed aggiunge: “dovunque l’esperienza di nazionalità sia debole o inesistente, la democrazia ha mancato di attecchire. Infatti, in mancanza di fedeltà nazionale, l’opposizione diventa una minaccia per il governo, e il disaccordo politico non permette di creare un terreno comune”. E nella prefazione al volume, Francesco Perfetti, che dirige la collana “Il salotto di Clio”, che lo ha pubblicato, ricorda che a definire l’essenza di una nazione è “una comunanza di ideali, interessi, di affetti, di ricordi, di speranze: questo insieme di fattori fa sì che gli uomini sentano nel proprio cuore di appartenere a uno stesso popolo. Siamo qui già in presenza del momento identificativo tra il concetto di patria e il concetto di nazione”.

Sono, tutto sommato, concetti semplici, più diffusi di quanto si creda, a volte più nelle persone modeste, con scarsa cultura, che non vanno alla ricerca di elaborazioni ideologiche, ma sentono istintivamente nei monumenti che arricchiscono anche i più piccoli borghi d’Italia un pezzo della storia, della tradizione che li lega a quella terra e a quanti prima di loro l’hanno abitata. Eppure, questo sentimento, diffuso, a volte rimane nelle menti e dei cuori dei singoli e stenta a diventare parte di una intera popolazione perché manca nella autorità pubblica la consapevolezza della continuità della storia pur nel mutare delle condizioni politiche.

Un esempio può far comprendere quel che intendo. Quando è stata ricordata la conclusione della Prima Guerra Mondiale, quel grande conflitto che ha avuto un esito favorevole al nostro Paese ed alle Potenze dell’Intesa, Francia e Inghilterra, cui in seguito si sono aggiunti gli Stati Uniti d’America, il Presidente francese Macron ha riunito a Parigi oltre 80 capi di Stato, ben oltre i partecipanti alla guerra, per esaltare il ruolo avuto dalla Francia in quella occasione. Più o meno in contemporanea le autorità italiane hanno ricordato in sordina quell’evento, che per noi ha avuto un significato di gran lunga maggiore di quello che poteva esaltare il presidente francese. In primo luogo, perché il 4 novembre 1918 ha avuto conclusione, con l’annessione di Trento e Trieste, il processo unitario iniziato nel Risorgimento e poi perché obiettivamente l’esito positivo della guerra è stato conseguenza del sacrificio dell’esercito italiano che ha consumato, giorno dopo giorno, le armate austriache e tedesche. Eppure, nella cerimonia, localizzata a Trieste, con intervento del capo dello Stato, non si è ricordato il Re Vittorio Emanuele III che quella guerra ha seguito dal fronte costantemente, dopo averla voluta interpretando il desiderio unitario degli italiani.

Come possono i giovani credere nella Patria, al di là delle urla di gioia e degli applausi al passaggio delle frecce tricolori, se il sentimento della Patria non è condiviso, come ricorda Scruton, dalle forze politiche e dalle autorità dello Stato. Una disattenzione conseguenza di un dato culturale, in quanto abbiamo al potere partiti che non hanno nella loro storia partecipato al movimento risorgimentale e che, nella loro pochezza culturale e ideologica, temono di ricordare uomini ed eventi della nostra storia per evitare un imbarazzante confronto.

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