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Dal teatro dell’Opera di Roma: Un trittico che non è trittico, un Tabarro senza tabarro e un Barbablù senza castello

di Dora Liguori

Venerdì 6 aprile il teatro dell’opera, con il titolo “Trittico ricomposto” ci ha propinato uno spettacolo comprendente, non già tre opere come la parola trittico imporrebbe, bensì due opere, ossia, nel presente caso: Il “Tabarro” di Puccini e “Il Castello del principe Barbablù” di Bartok. Premessa la palese illogicità di ricomporre con due opere un qualcosa definito trittico, l’attenzione cade sulla scelta poco felice fatta anche sui due autori, Puccini e Bartok, componenti il “bittico” (la parola non esiste), compositori che poco hanno in comune, sia per formazione musicale che per visione operistica. Ma tant’è: così è stato deciso… a contare su determinate discutibili scelte può darsi che esistano altre esigenze, non certo riferibili ai due compositori.

Superate queste prime incongruenze, il problema reale, per i tanti che amano l’opera, interviene, ancora una volta allorché si vadano ad affrontare le scelte registiche, dicasi quelle del regista Johannes Erath. Infatti, il buon Erath, ha deciso, anche qui con illogicità manifesta, di proporci un Tabarro (grosso mantello protagonista simbolico dell’opera pucciniana)… senza tabarro e un castello, proprietà di quella gran brava persona del principe Barbablù… senza castello. Insomma, in scena tutto succede fuorché quanto previsto dai due “disattenti” autori.

Detto il quanto sulla regia, è più confortante spostare l’attenzione sui cantanti, ad iniziare dagli ottimi interpreti del Tabarro: Luca Salsi e Maria Agresta (rispettivamente Michele e Giorgetta) ambedue superlativi tanto da, chiudendo gli occhi, far dimenticare l’improponibile regia. Per quanto invece attiene alla parte di Luigi, mi chiedo: c’era bisogno di scomodare, un tenore come Gregory Kunde che, abituato ai grandi ruoli tenorili, risulta alquanto sprecato in questa non facile ma nemmeno importantissima parte? Un giovane italiano non c’era? Del mezzosoprano, poi, dal nome impossibile, Enkelejda Shkoza (Frugola) molto poco mi è possibile dire poiché, a parte una certa vis comica, essendo quasi del tutto inesistente il registro grave della sua voce, poco è stato possibile cogliere della sua performance. Inutile chiedersi ancora: ma un mezzosoprano italiano, dalla voce come Puccini comanda, proprio non c’era?

Bravi, vocalmente parlando (tornando al discorso di prima e al fatto che solo loro la potevano cantare) anche i due interpreti del Castello di Barbablù, l’ungherese Szilvia Voros (Judit) e il russo Mikhail Petrenko (Barbablù), costretti anch’essi dalla regia a indicare sulla scena un castello che non c’era, con stanze che ovviamente neppure c’erano, mentre a rappresentare il tutto, sul palcoscenico si agitavano dei mimi coinvolti anche nel ruolo di fiori (gigli dice l’opera) anch’essi inesistenti. Inoltre, il regista ci ha fatto assistere a tutta una serie di proiezioni (volendo, potevamo andare al cinema) che, tra l’altro, al posto dei previsti gioielli, rimandava gli spettatori ad un bel servizio di bicchieri dai bordi dorati, i quali, senza essere Barbablù, possiedo anch’io.

Inutile dire che, giustamente, il pubblico presente in sala, in perfetto accordo con il mio povero “fegato”, si è gagliardamente ribellato.

In sintesi, diciamolo pure, uno spettacolo da sentire senza mai aprire gli occhi… ma si può?

Dopo questa panoramica, per onestà mentale, trovo utile informare, chi in bontà mi legge, circa le ultime sconcertanti scelte poste in essere dai vari responsabili di Fondazioni e Associazioni concertistiche e così riassumibili: sempre premesso che, per merito di detti sovrintendenti, per trovare un’artista italiano in uno dei cartelloni, occorrerebbe la bacchetta del rabdomante, non contenti, costoro (ovviamente non tutti), volendo aumentare nonché giustificare le loro scelte esterofile, hanno avuto un’idea assolutamente “raffinata e geniale”, ossia: proporre e, come ovvia conseguenza, scritturare produzioni che, per la difficoltà del linguaggio (russo, ceco, ungherese e quant’altro), necessitano di intere compagnie, padrone appunto di dette lingue. Insomma, alé, così facendo, il pacchetto diventa unico, inclusa la scrittura, dico io, dei topi presenti nel teatro originario della produzione (i topi albergano in tutti i teatri) e che, ci mancherebbe, hanno anche loro diritto a un sostanzioso cachet.

In un primo momento, non volendo sempre pensare a male, ho ritenuto che detti sovrintendenti, ritenendo poco colto il pubblico italiano, con questa operazione intendessero offrire la possibilità della conoscenza, sempre agli italiani, di opere di non facile ascolto in Italia… insomma una benemerita opera di acculturamento generale. Poi, però, scorrendo i cartelloni, ho notato come la lezione stia divenendo esagerata, come dire… troppa grazia sant’Antonio!

Insomma, non più convinta di questa “operazione cultura”, che tanto viene a costare ai contribuenti italiani, vorrei che qualcuno mi spiegasse per quale motivo i nostri soldi dovrebbero così massicciamente andare a beneficio quasi esclusivo degli artisti e dei teatri stranieri?

Ritengo che la risposta sia quasi obbligata: o davvero l’Italia, già Paese della musica, non ha più artisti o produzioni degne di questo nome oppure… fate voi! (La raccomandazione è dell’avvocato).

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