sabato, Luglio 27, 2024
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“Il Capo di Gabinetto? Me lo hanno imposto”

di Salvatore Sfrecola

L’ho sentita più volte questa frase da ministri degli ultimi governi e dell’attuale. Badate, “imposto”, non “consigliato” come accadeva quando i ministri democristiani facevano la staffetta. Allora poteva avere una logica nella continuità di indirizzo politico e amministrativo. Erano politici dello stesso partito e “pescavano” tra gli stessi grand commis sperimentati personalmente.

Perché mi soffermo ancora una volta sul ruolo dei capi di gabinetto? Non sono l’unico ad averne scritto, a parte il famoso “Io sono il potere – confessioni di un Capo di Gabinetto” (edito da Feltrinelli) che ne ha esaltato la capacità di incidere sulle decisioni e sulla stessa politica del ministero di appartenenza. I capi di gabinetto, infatti, sono una lobby, tra loro collegati e, in qualche tempo, sono stati anche coordinati dal Capo di gabinetto (oggi Segretario generale) della Presidenza del Consiglio dei ministri. Lo ha fatto Antonio Catricalà, Segretario generale nel Governo Berlusconi 2001-2006, il cui nome ricorre più volte in uno dei volumi che hanno scritto di “chi comanda davvero in Italia” (“NomenKlatura” di Roberto Mania e Marco Panara, edito da Feltrinelli).

Essi sono i primi collaboratori dei ministri, presiedono quello che oggi si chiama “Ufficio di diretta collaborazione”, che comprende anche la Segreteria particolare del ministro e l’Ufficio legislativo. In questa veste trasmettono le direttive dei ministri alla struttura amministrativa, ai Capi dipartimento e ai Direttori generali e ne verificano la corretta esecuzione. Essi sono la voce del ministro. Sono tecnici di elevata professionalità, generalmente magistrati del Consiglio di Stato o della Corte dei conti che si segnalano per l’esperienza maturata nella conoscenza delle questioni dell’amministrazione e per essere, in ragione della provenienza, dotati di quella indipendenza che accresce la loro autorevolezza agli occhi dei funzionari ministeriali dei quali parlano lo stesso linguaggio. “Gestire un ministero – ha spiegato Francesco Giavazzi (richiamato da Paolo Bracalini in “La Repubblica dei mandarini”, edito da Marsilio) è una questione complessa: richiede dimestichezza con il bilancio dello Stato e il diritto amministrativo e soprattutto buoni rapporti con i burocrati che guidano gli altri ministeri e la presidenza del Consiglio”.

Non sono politici in senso stretto, ma di ognuno di loro si sa nell’ambiente quale sia l’orientamento ideologico che dovrebbe essere coerente con quello del ministro, altrimenti la struttura non comprenderebbe perché il politico si avvalga di una persona lontana dalle sue idee, pertanto privo di quell’entusiasmo che dovrebbe sempre accompagnare la collaborazione con una personalità politica protesa a perseguire obiettivi di generale interesse.

C’è, dunque, qualcosa che stona nella trasmissione delle decisioni del ministro da parte di un capo di gabinetto che sia di altro orientamento politico, soprattutto se è stato nello stesso ruolo accanto ad un ministro di opposte tendenze.

Ricordato il ruolo del Capo di gabinetto è evidentemente assurdo che una autorità politica si faccia imporre il suo più stretto collaboratore. E da chi? Una certa pudicizia impedisce ad ognuno di dire, anche in sede riservata, chi è stato ad imporre la scelta, ma è facile desumere che possa essere stato chi, in ogni caso, ha l’autorità per farlo: il Capo delegazione al Governo, il Segretario del partito, il Capo gruppo parlamentare. Naturalmente la fantasia che accompagna la narrazione di questi eventi individua altri possibili potentati, che si immaginano “occulti”, i “poteri forti”, ambienti ecclesiastici, oltre la solita Massoneria delle varie obbedienze.

È inevitabile che il Capo di Gabinetto “imposto” sia collegato con colui che lo ha designato dal quale avrà probabilmente indicazioni ed al quale riferirà, anche senza violare princìpi di riservatezza, qualcosa di ciò che fa il personaggio col quale collabora. Questo aspetto a mio giudizio è gravissimo e si inserisce in una più vasta situazione ben messa in risalto dal Ministro Guido Crosetto il quale, all’indomani della formazione del Governo, aveva segnalato l’esigenza di un rinnovamento di parte della dirigenza di nomina governativa in quanto legata ai partiti politici i cui ministri avevano effettuato le nomine, soggetti ritenuti lontani dalla filosofia politica dell’attuale maggioranza. In pratica li accusava di remare contro. Ciò in quanto parte di una rete che i partiti di sinistra hanno creato negli anni, non solo quando hanno governato ma anche quando è prevalso il centrodestra, nel 2001 2006 ad esempio. E che adesso si va ripetendo, non solamente perché le parole di Crosetto si sono disperse al vento, ma perché il Governo ha fatto l’esatto opposto di quanto aveva ipotizzato l’autorevole Ministro della difesa, consolidando i dirigenti a tempo nominati dai ministri dei precedenti governi. Cito ancora Giavazzi il quale “ha imputato alla scelta di mantenere al loro posto, “quasi senza eccezioni, tutti i grandi burocrati che guidano i ministeri”, il vero motivo dell’insuccesso di Mario Monti nel taglio della spesa pubblica” (sempre dal libro di Bracalini).

Così non si governa. Lungi da me, liberale di scuola cavouriana, immaginare un’amministrazione politicizzata. Essa deve essere al servizio dello Stato e non dei partiti. Ho scritto più volte che il pubblico funzionario, il civil servant di Sua Maestà è un professionista dell’amministrazione, un uomo di legge la cui indipendenza è assicurata dall’ordinamento, come avviene, appunto, nel Regno unito.

Con Capi di gabinetto imposti o comunque legati ideologicamente, alcuni in modo smaccato, alle precedenti esperienze di governo ed agli uomini più rappresentativi di maggioranze lontane dall’attuale, nel contesto di una vasta occupazione dei ministeri attuata nel tempo da parte delle sinistre con la complicità di taluni personaggi, abituati a percorrere con passi felpati i palazzi del potere, che così ritengono di “pararsi” a sinistra, è arduo pensare che sia facile perseguire una significativa svolta di governo. Al di là delle buone intenzioni, il governo di Giorgia Meloni potrà fare meno, molto meno di quanto promesso in sede elettorale e indicato nelle dichiarazioni programmatiche se non assume il controllo dell’Amministrazione che, ricordo ancora una volta, è lo strumento attraverso il quale l’indirizzo politico governativo prende forma concreta.

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