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Mefistofele al Teatro dell’Opera di Roma: quel che la critica ufficiale non “osa” dire

di Dora Liguori

Lunedì 27 Novembre si è inaugurata con il Mefistofele di Arrigo Boito la stagione lirica del teatro dell’Opera di Roma, titolo che dal 2010 mancava dalla capitale.

L’opera, pur interessantissima, non è, come dire, di repertorio, essendo la sua messa in scena un’operazione assai complessa poiché prevede, oltre alla presenza di grandi cantanti anche un notevolissimo allestimento scenico e un altrettanto grande regista. Insomma, barcamenarsi, visto l’argomento dell’opera, fra paradiso e inferno non è “fuscel da niente”! E, appunto, il regista del presente spettacolo – l’australiano Simon Stone – ha preferito, in accordo con la realizzatrice di scene e costumi, Mel Page, anch’essa australiana, offrirci la visione, ad esser buoni, appunto, del “niente”.

Infatti, tale è da considerarsi la visione scenografica della Page che, al posto di una qualsivoglia scena più o meno canonica e comprensibile, ci ha propinato uno claustrofobico scatolone bianco, quadrato e piatto, del tutto privo di un minimo di prospettiva. Insomma, la regista, volendo essere ultramoderna, ha scelto un ritorno alla “notte dei tempi” allorché, non avendo ancora i teatri una struttura ben definita, men che mai possedevano le cosiddette “quinte”, geniale invenzione, questa, apparsa ai primi del Seicento ad opera dal geniale scenografo Giacomo Torelli. Di seguito la novità introdotta dal Torelli avrebbe consentito allo spettatore d’avere quella che si definisce una “fuga prospettica” del palcoscenico. In parole povere, Torelli portò in teatro quello che il grande Giotto aveva ideato per introdurre la prospettiva nell’arte medievale.

Pertanto, per volontà della Page, sia l’Inferno che il Paradiso si svolgevano nel citato scatolone bianco, privo di prospettiva, all’interno del quale, non si aggiravano ma stavano impalati dei signori, alcuni dei quali, angeli o diavoli che fossero, erano abbigliati più o meno in “mutande”(vedi gli angioletti del possente prologo). Un’idea registica davvero superba e all’altezza delle scene. Come dire: Dio li fa e poi li accoppia!

Lascio immaginare tutte le scempiaggini che in simile contesto si sono susseguite: dal giardino di Margherita trasformato in una fossa piena di palle colorate (è consentita ogni maliziosa allusione) a Mefistofele, con tanto di telefonino e consimili, sino ad una giostra che forse doveva simulare i gironi infernale. Bah! E comunque un’accozzaglia tale da far chiedere al disgraziatissimo spettatore: ma in quale manicomio, davvero satanico, sono finito? Inutile aggiungere come al termine dello spettacolo, vista la reazione sacrosanta del pubblico, la critica, cosiddetta ufficiale, essendo pur costretta a dire qualcosa, sudando freddo si sia ritrovata seduta per terra. È stato allora che alcuni critici, forse per non offendere regista e scenografa (gli italiani sono sempre ospitali verso gli stranieri) si sono affidati, onde illustrare lo scatolone e restanti invenzioni, a spiegazioni di tipo filosofico, spargendo intendimenti quantomai dotti e complessi che, però, a detta del volgo (dicasi gli imbufaliti e fischianti spettatori) ci azzeccano come gli arcifamosi… cavoli a merenda.

Per quanto invece mi riguarda, l’unica spiegazione che riesco a dare per simili scelte teatrali mi rimanda ad una famosa pubblicità di un digestivo ove si vede un poveretto che, avendo mangiato pesante, si risveglia, la notte, con l’incubo di un bestione sullo stomaco. Personalmente, non so cosa mangino i signori Stone e Page, certo è che certe idee sono possibili solo se si è preda di incubi notturni.

Questo, il quanto sulla parte visiva dello spettacolo; passando invece alla parte musicale, il direttore Mariotti e il direttore del coro Visco hanno mostrato tutta la loro bravura, altrettanto, però, non è possibile dire dei protagonisti dell’opera. Infatti, i cantanti, quasi tutti stranieri, dicasi il tenore proveniente dal Nevada, Joshua Guerrero (Faust), che, per tirare fuori la voce (poca, a parte qualche buon acuto), ci ha messo quasi tutta l’opera, con a seguire il basso, il canadese John Relyea (Mefistofele) dalla voce possente ma dalla dizione impossibile e con un’emissione tanto strana da far pensare che avesse in bocca delle patate bollenti. Migliore, invece, la georgiana Sofia Koberidge (Marta). Con simile compagnia era abbastanza ovvio che la bravissima italiana Maria Agresta (Margherita) venisse, letteralmente, osannata dagli spettatori… la differenza c’era e come!

Ma, dico io, per ottenere questi discutibili risultati c’era proprio bisogno di scomodare gente proveniente dall’Australia, dal Canadà, dal Nevada e dalla Georgia? Perché il denaro di noi poveri cittadini deve essere speso così male, tra l’altro togliendo il lavoro a dei bravissimi artisti italiani?

E ancora: il Ministro Sangiuliano, per una volta, potrebbe farsi la domanda circa gli ingaggi che fanno determinati e ormai solo esterofili sovrintendenti dei teatri? Per caso, detti sovrintendenti sarebbero stati tutti colpiti da una brutta epidemia, capace di lasciarli privi di buon udito e capacità visive? Ahime! Solo così potrebbe tornare possibile una spiegazione sul perché essi scritturino alcuni cantanti (per fortuna non tutti) che, in Italia, non supererebbero neppure la prova attitudinale per entrare in Conservatorio a studiare canto?

 E a tale proposito, sempre i sovrintendenti, le odono le contestazioni del pubblico o la cosa, come direbbe il poeta: “non li tange affatto”.

Purtroppo, volendo dare una logica lettura alla pervicace presenza nei teatri italiani di questi spettacoli, sempre contestati e sempre ostinatamente portati in scena, non posso che affidarmi ad un detto napoletano, alquanto volgare (e ne chiedo scusa) ma assolutamente efficace. In sintesi, i signori che dirigono i teatri, prediligendo, per motivi loro, tutta la genìa di registi, scenografi etc, cosiddetti “a la page”, è possibile che, in cuor loro, abbiano forse maturato, nei confronti degli spettatori una suprema convinzione, ossia: “addora, addora pure la m… addora!

Personalmente non so come andrà a finire ma credo che il pubblico, l’olfatto, almeno quello, cercherà di conservarlo! D.L.

P.S. Mentre quasi tutto il mondo viene a studiare canto in Italia (vedi la Koberidge che esce dal Conservatorio di Catania) i nostri bravissimi cantanti, debbono, invece, espatriare per trovare lavoro. E dire che, in patria, volendo, i sovrintendenti non avrebbero che l’imbarazzo della scelta e, invece, non vogliono! Pertanto solo stranieri: dall’Australia, al Nevada, dall’America a Dio solo sa dove altro. E passi quando ne vale la pena! I fatti, purtroppo, sono ben diversi: privi di remore, buona parte dei responsabili dei teatri, altro non fanno che rifilarci gente mediocre… potenza delle agenzie!

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