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Il “giorno del ricordo”, memoria di italianità

di Salvatore Sfrecola

Il “Giorno del ricordo”, è scritto nella legge 30 marzo 2004, n. 92, approvata pressoché all’unanimità, che l’ha istituito, ha il “fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale”. Una immane tragedia che commuove ancora per le dimensioni che ebbe l’esodo dalle terre che da secoli gli italiani avevano reso feconde, civilissime. Ciò che ha reso ancor più crudele la caccia all’uomo che la furia dei comunisti titini ha accompagnato con crudeltà indicibili, annegamenti, fucilazioni, massacri, attentati. Perché se resta nel ricordo di tutti la soppressione violenta di quanti furono uccisi solo per vendetta e gettati nelle cavità carsiche della regione, le foibe, la storia ci ha consegnato migliaia di eventi terribili, sevizie e stupri, condotti con raffinata crudeltà.

Chi riuscì a fuggire dovette farlo spesso di notte, improvvisamente, per mettersi in salvo, con solo quanto avevano indosso, abbandonando con la terra dei propri avi, anche tutti i beni di una condizione economica agiata. Come molti degli italiani dell’Istria e della Dalmazia, operosi nelle professioni e nelle attività artigianali e commerciali. 

Chi è cultore di storia patria sa di questi fatti. E sa anche che, nel clima esasperato delle contrapposizioni politiche, i carnefici titini ebbero manforte dai comunisti italiani, nell’area e in altre regioni limitrofe dove tanti si scagliarono contro i connazionali in fuga con episodi di odio politico di rara inumanità. Un autentico calvario che ha coinvolto centinaia di migliaia di italiani i quali attendevano di essere accolti in Patria a braccia aperte. Non fu quasi mai così. Anzi si ricordano episodi di straordinaria crudeltà, quando ai profughi fu impedito di scendere dai treni, di essere assistiti ed alimentati, ovunque il Partito Comunista Italiano (P.C.I.) impose il suo veto all’accoglienza delle istituzioni caritatevoli. Come a Bologna, dove fu impedita anche l’alimentazione dei più piccoli, con la dispersione del latte sul selciato.

Molti trovarono l’accoglienza di amici e parenti. Altri trascorsero lunghi mesi nei centri di raccolta, stipati “in dieci o dodici” in una stanza, come ha scritto Indro Montanelli in un articolo per il Corriere della Sera, dove sono riesciti a vivere “in un ordine e pulizia esemplari cercando lavoro, ma rifiutando elemosine e senza mai lamentarsi”. Ho visitato un centro di raccolta mantenuto a memoria di quei tempi, locali che dicono di grandissime sofferenze.

Sono ricordi che molti di noi, appartenenti a famiglie che coltivano i valori dell’identità del nostro popolo, hanno imparato a conoscere fin da bambini e ancora oggi, a molti decenni di distanza, tornano a turbarci dolorosamente attraverso i tanti libri, i filmati sbiaditi, tragici testimoni dell’esodo che gli esuli continuano a presentarci, che rivivono nei loro discendenti come una delle più grandi tragedie dell’umanità, la soppressione della Patria.

La storia è un dato certo, che ci appartiene. Che va conservata con iniziative continue innanzitutto per i giovani delle scuole di ogni ordine e grado, mentre istituzioni ed enti favoriscono la realizzazione di studi, convegni, incontri e dibattiti in modo da conservare la memoria di quelle vicende. Queste iniziative, come scrive ancora la legge istitutiva del “Giorno del ricordo”, sono volte “a valorizzare il patrimonio culturale, storico, letterario e artistico degli italiani dell’Istria, di Fiume e delle coste dalmate, in particolare ponendo in rilievo il contributo degli stessi, negli anni trascorsi e negli anni presenti, allo sviluppo sociale e culturale del territorio della costa nord-orientale adriatica ed altresì a preservare le tradizioni delle comunità istriano-dalmate residenti nel territorio nazionale e all’estero”.

La giornata del ricordo degli esuli istriani non può essere solo un momento di commemorazione commossa ma anche un’occasione per riflettere sull’importanza della convivenza pacifica e del rispetto delle diversità. La memoria di questo esodo forzato ci ricorda quanto sia preziosa la stabilità e la pace e come sia fondamentale impegnarsi per evitare che simili tragedie si ripetano. 

Eppure, continua in alcuni ambienti della sinistra italiana ad essere vivo un negazionismo assurdo che alimenta una contrapposizione della quale non abbiamo bisogno e che non trova alcuna giustificazione se non nell’odio per la storia e la cultura italiana di quelle terre. È “l’uso politico della storia” contro la realtà dei documenti, come quelli che ci ha offerto il volume“Foibe, esodo, memoria” (Aracne, Roma, 2023, pp. 299, € 25,00) di estremo interesse. Gli autori, Giovanni Stelli, Presidente della Società di Studi Fiumani, Marino Micich, Direttore dell’Archivio Museo Storico di Fiume e Pier Luigi Guiducci, storico della Chiesa e giurista, assente Emiliano Loria, Capo redattore della rivista di studi adriatici “Fiume”, sono impegnati da anni, quasi quotidianamente, presenti ad ogni iniziativa che mantenga viva la cultura delle terre dell’Istria e della Dalmazia. E che rivive nell’appassionato ricordo familiare degli amici, come i miei colleghi Atelli, padre e figlio, Umberto e Massimiliano, con annotazioni di carattere storico e culturale sulla realtà delle popolazioni italiane delle terre dell’Adriatico orientale, sempre coinvolgenti. Contro ogni “negazionismo” che purtroppo ha a volte alimentato atti di vandalismo contro vari simboli dell’esodo e delle foibe, spesso in prossimità delle celebrazioni del 10 febbraio, prendendo di mira le targhe innalzate in luoghi pubblici e i monumenti a memoria delle vittime.

Concludo ancora una volta con un ricordo personale, consegnato in un capitolo di un mio libro di alcuni anni fa, “Un’occasione mancata”, edito da Pagine, del quale pubblico un capitolo nel quale racconto di un commovente incontro con uno straordinario personaggio, il Prof. Tullio Parenzan, studioso di Contabilità pubblica, profugo dall’Istria italiana. All’epoca ero il Capo di Gabinetto di Gianfranco Fini, Vicepresidente del Consiglio, che avevo accompagnato a Trieste nel giorno del ricordo.

“Ho visto un anziano signore non riuscire a trattenere le lacrime

In un Campo di Raccolta, vicino Trieste, a ricordo dell’esodo dei trecentocinquantamila italiani che dopo la guerra dovettero lasciare le terre italianissime dell’Istria e della Dalmazia. Affamati, impauriti, disorientati, con null’altro che un misero fagotto, che riassumeva i loro averi ed il lavoro di una vita e delle generazioni che li avevano preceduti, furono assistiti alla meglio in spazi angusti, pochi metri quadrati, un pagliericcio, un tavolo, un misero armadietto.

Noto quel signore elegante, accanto a sua moglie, abbracciati nella sofferenza del ricordo. Ad un certo momento fa il mio nome, rivolgendosi ad Enrico Para, il fotografo ufficiale di Fini. “C’è il Consigliere Sfrecola?” È il Professor Tullio Parenzan, docente di contabilità pubblica nell’Università di Trieste, studioso di valore, che ha soffermato la sua attenzione sui diritti del cittadino alla corretta allocazione e gestione delle risorse pubbliche, diritti che Parenzan in un famoso studio ha individuato come “diritti fondamentali dell’uomo e del cittadino”.

Con lui sono da tempo in contatto epistolare e telefonico, ma non lo conosco di persona. Né mai avrei pensato di incontrarlo in un Campo di Raccolta di profughi istriani.

Mi dice di sé, mentre sullo schermo passano le immagini tremende delle colonne di profughi che si imbarcavano sul piroscafo Toscana, che fa la spola tra l’Istria, Venezia ed Ancona. Bambino, aveva lasciato Pola portando con sé soltanto una gabbietta con un piccolo cardellino. Vedo gli occhi arrossati di sua moglie, profuga anch’essa. Lo sguardo che vaga sulle brande, sugli armadi di fortuna, sui miseri fornelli per cucinare quel poco per sopravvivere. Tutto parla di dolore, come le foto, le immagini degli occhi smarriti e impauriti di giovani, vecchi, di donne. Non ti viene voglia di parlare. Non sai cosa dire.

Vedo Fini commuoversi. Non è la prima volta. Da uomo di partito, con un’alta eredità culturale e ideale che richiama i valori della Patria, che vuol dire “terra dei padri”, ricorda, e da uomo di governo impegnato, pur tra mille difficoltà, a ricercare soluzioni dignitose, possibili giuridicamente e politicamente corrette. Per un’esigenza elementare di giustizia verso quanti hanno sofferto per il solo fatto di chiamarsi italiani e di sentirsi italiani.

Non è un discorso quello di Fini. Lui che tanta capacità ha di toccare le corde del cuore, preferisce parlare sommessamente, come in un colloquio privato. Ricorda come l’accoglienza dei profughi non fu sempre ispirata a cristiana pietà. Come nella sua Bologna, dove la Pontificia Opera di Assistenza aveva preparato alla stazione un pasto caldo per quanti provenivano da Pola, via Ancona. I comunisti bolognesi minacciarono lo sciopero in caso il convoglio si fosse fermato. E il treno non si fermò. “Gli esuli non elevarono proteste, sentendosi quasi in colpa per il disturbo arrecato e, piangendo, si dileguarono nella nebbia in direzione di La Spezia, verso i cameroni della Caserma Ugo Botti.

Proseguiamo per Trieste, dove si celebra la Giornata della Memoria, per scrivere una pagina di storia rimasta in bianco. E bianco è un piccolo nastrino che ci viene attaccato sul bavero della giacca, a rappresentare la pagina di storia che va scritta.

La commozione è grande nel teatro Verdi, il grande musicista, un nome con il quale nel corso del Risorgimento veniva evocata l’aspirazione all’unità d’Italia, sicché la scritta Viva Verdi, che la polizia austriaca non poteva contestare, per i patrioti significava “Viva Vittorio Emanuele Re d’Italia”. Commozione grande al canto di Vola colomba bianca, struggente richiamo alla separazione delle famiglie e delle persone, resa celebre da Nilla Pizzi. Dio del Ciel se fossi una colomba/ Vorrei volar laggiù dov’è il mio amor,/ Che inginocchiato a San Giusto/ Prega con l’animo mesto:/ Fa che il mio amore torni/ Ma torni presto. La voce della giovane soprano arriva in ogni ordine di posti nel teatro affollato. Non riesco a controllare la commozione!

Un canto, una volontà di riscatto, una richiesta di giustizia. Fini segue costantemente con particolare attenzione le questioni che gli pongono le associazioni degli esuli, pur tra le mille difficoltà dovute alla scarsità di risorse da mettere a disposizione degli indennizzi e per l’azione dei governi dell’ex Iugoslavia, soprattutto del croato, nonostante le pressioni che vengono esercitate in vista dell’ingresso nell’Unione europea.

Credo che non tutti si siano resi conto delle difficoltà che Fini incontra. E comprendo le difficoltà degli esponenti delle associazioni, soprattutto del senatore Lucio Toth e di Guido Brazzoduro, Presidente della Federazione delle associazioni degli esuli istriani fiumani e dalmati, ad ammortizzare la protesta.

Il 10 febbraio 2003 è la “Giornata della Memoria”. Nell’anniversario del Trattato di Pace (1947), che assegna alla Jugoslavia gran parte dell’Istria, Fiume e Zara, Brazzoduro spiega, in una dichiarazione ad “Arcipelagoadriatico” che “il Trattato non ha semplicemente definito i nuovi confini orientali dell’Italia ma ha comportato un esodo di massa della popolazione italiana rimasta al di là della linea di demarcazione, iniziato ben prima della sua firma. Vogliamo, aggiunge, che l’Italia sappia che non si è trattato solo di un avvicendamento tra Stati ma della tragedia di un popolo… per iniziativa di una minoranza violenta… (con) intimidazioni e vessazioni, fino all’eliminazione fisica delle persone”.

Incontro spesso Brazzoduro e Toth, un garbato signore che mi ricorda spesso di sollecitare Fini o di chiedere notizie al Ministero dell’economia sullo stato delle pratiche di indennizzo.

L’ultima volta che l’ho sentito al telefono mi chiede conferma della diramazione delle disposizioni per l’esposizione del Tricolore nella “giornata del ricordo”.

Ho sempre prestato la massima attenzione nei confronti di aspettative legittime e giuste. Loro hanno perso la terra dei padri, noi abbiamo perso un pezzo di Patria”.

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