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L’Italia al tempo del Re Umberto I, con il desiderio di diventare “un grande Stato”

di Gianni Torre

È nelle librerie (acquistabile anche su Amazon) “Umberto I, Il Re buono” (Historica, Roma, 2024, pp. 211, € 18,00), a cura di Edoardo Pezzoni Mauri e Salvatore Sfrecola. Reca la dedica alla memoria di Alfredo Covelli e si apre con l’introduzione del direttore della Collana, l’Avv. Alessandro Sacchi, e la Prefazione della Principessa Maria Pia di Savoia, primogenita del Re Umberto II.

È il quinto volume della Collana “l’Italia in eredità”. In precedenza, sono stati pubblicati “Vittorio Emanuele II, il Re galantuomo”, “Camillo Benso di Cavour, il primo Ministro”, “Giuseppe Garibaldi, l’eroe dei due mondi”, e “Umberto II, il Re degli italiani”, tutti con contributi di studiosi di valore, storici, giuristi, economisti.

Il libro si sarebbe potuto intitolare “l’Italia al tempo di Umberto I”, il Re ucciso il 29 luglio 1900 dall’anarchico Gaetano Bresci: tre o forse quattro i colpi di pistola che, come scrive Sacchi, “posero la parola fine alla bella favola risorgimentale che era stata il motivo conduttore della vita del Re Umberto I”. Secondo in ordine di successione, dopo il padre Vittorio Emanuele, Umberto fu effettivamente il primo Re d’Italia, nel senso che la trovò unita e visse stabilmente a Roma, dove la consorte, la Regina Margherita, con la sua spiccata personalità, divenne presto molto popolare, per le sue opere di carità e perché raccolse attorno a sé personalità della cultura provenienti da tutto il Regno, in tal modo costituendo, accanto alla Corte tradizionale, un ristretto salotto intellettuale (quasi un “Circolo della Regina”), di cui scrivono Rossella Pace ed Edoardo Pezzoni Mauri (“Il mito della Regina!), frequentato assiduamente da artisti, letterati, filosofi e politici, da Marco Minghetti a Terenzio Mamiani, al Premio Nobel per la poesia Giosuè Carducci. 

È l’Italia che, finalmente unita, anche se mancano ancora Trento e Trieste, ha l’ambizione di diventare “un grande Stato”, come aveva auspicato Cavour all’atto della costituzione del Regno, e intraprende la strada delle riforme amministrative, economiche e sociali con le quali il Paese, fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, sarà all’avanguardia in Europa. Basta ricordare il Codice Zanardelli del 1889 che abolisce la pena di morte che rimarrà, invece, nella legislazione di molti paesi europei fino al ventesimo secolo, una riforma sulla quale ha scritto pagine di straordinario interesse il Professor Nicola Pisani.

Umberto, partecipe dei momenti gioiosi e luttuosi della Nazione, “aveva consolidato, come scrive Sacchi nell’Introduzione, l’immagine di Casa Savoia nell’affetto degli italiani”. È il soldato coraggioso, l’eroe della Terza Guerra d’Indipendenza, che si distingue durante la disastrosa battaglia di Custoza, che ebbe luogo il 24 giugno del 1866, che resiste alla carica della cavalleria austriaca avendo formato un quadrato con il IV battaglione del 49° reggimento di Fanteria, un episodio immortalato dal noto dipinto, “Il Quadrato di Villafranca”, realizzato da Raffaele Pontremoli. Ma è anche generoso e caritatevole: “a Pordenone si fa festa, a Napoli si muore. Vado a Napoli”, una frase che effettivamente pronuncio allorché, mentre si accingeva a partire per un ricevimento che si sarebbe tenuto nella città friulana, informato dello scoppio del colera nell’ex capitale del Regno delle Due Sicilie, preferii accorrere tra la popolazione sofferente.

Apre il volume un bel capitolo, “Umberto I tra Liberalismo, “National building” e Mediterraneo”, di Guglielmo de’ Giovanni Centelles, Professore Straordinario di Storia del Mediterraneo all’Università degli studi “Suor Orsola Benincasa”. Scrittore brillante e colto con straordinaria capacità narrativa sfiora un po’ tutti gli argomenti trattati nei capitoli tematici, spaziando fra arte, cronaca politica e cultura. “La memoria del Re del Liberalismo risorgimentale di Crispi – scrive – del difensore intransigente della laicità dello Stato, del patrono dell’educazione fisica come volano dell’educazione nazionale, del promotore della religione della Patria, del “Re Buono” che aveva cancellato la pena di morte, dell’aspro baluardo contro il populismo, del sovrano della Mittel Europa, divenne scomodissima” ben presto, alla sua morte e successivamente quando l’Italia, nel 1915 avrebbe abbandonato la Triplice Alleanza, con Austria e Germania, la scelta europea di Umberto del 1882, per schierarsi con la Triplice intesa, Francia e Inghilterra, guardando a Trento ed a Trieste”. È una ricostruzione originale, molto interessante, quella del Professor de’ Giovanni. Le pagine del suo capitolo scorrono veloci tra “le vere intenzioni, le vere speranze e anche le illusioni” dell’impresa umbertina in Africa, che si conclude con le sfortunate operazioni a Dogali e ad Adua. L’Italia in questo momento si affaccia sul Mar Mediterraneo, si accorda con Germania ed Austria nella Triplice Alleanza, con Francesco Giuseppe e Guglielmo II, un’alleanza tra i due nuovi stati Italia e Germania, unificati in parallelo negli stessi anni, “iscritta – scrive de’ Giovanni – nella riscoperta del mare, Nordico e Atlantico per i tedeschi e Mediterraneo per l’Italia, ma anche nella mappa genetica delle due dinastie”. Ricorda, in proposito, i matrimoni che avevano legato, fin da Carlo Alberto, Re di Sardegna, Casa Savoia e gli Asburgo. Il Re sabaudo, figlio di Maria Cristina di Sassonia, aveva sposato l’Arciduchessa d’Austria Maria Teresa.

Il “National building”, il consolidamento dell’unità italiana, fu il grande compito del Regno di Umberto I. “Aveva come cardine in politica estera la riaffermazione della proiezione mediterranea verso la sponda africana che necessariamente si scontrava con i consolidati interessi di Francia e Inghilterra”. Ricorda il discorso famoso di Cavour del 6 febbraio 1855 alla Camera subalpina per spiegare le ragioni politiche della spedizione in Crimea, “per impedire alla Russia – spiega de’ Giovanni – di fare del Mar Nero l’arsenale per la conquista del mare Interno”. Ma ricorda anche la prima legislazione sociale italiana e la Rifondazione della struttura statale, rispetto all’informale agglomerato degli otto stati preunitari e la costruzione dell’identità nazionale, con il coinvolgimento dell’alta cultura, da Carducci a D’Annunzio, l’espansione marittima, l’aspro conflitto con il notabilato liberale. E conclude con riferimento alla memoria più bella del Re a Napoli, “il gioiello culturale, creato con la Regina Margherita e l’allora giovane assessore Benedetto Croce: l’Istituto universitario suor Orsola Benincasa, volto a mutare la condizione femminile nel Mezzogiorno formando le future insegnanti dall’asilo all’università. Ne risultò la prima Facoltà di Magistero fondata in Italia e la prima istituzione universitaria con un rettore donna, la principessa Isabella Pignatelli di Strongoli”. È una sfilata di riferimenti a studiosi, a politici, a uomini che fanno di questo capitolo una cavalcata straordinaria nell’Italia degli anni di Umberto I, un tema che si ricollega al capitolo curato da Andrea Ungari, Professore ordinario di Storia contemporanea all’Università “Marconi”, il quale imposta il suo lavoro su Umberto I e la Triplice Alleanza iniziando dai poteri della Monarchia nell’Italia liberale, una tematica, quella del Re che regna e non governa, che tocca i temi dell’attuale dibattito sulle riforme istituzionali che hanno prima proposto una repubblica presidenziale e poi il “premierato”, sul quale si sofferma Salvatore Sfrecola che segnala quanto ebbe a scriverne Vittorio Emanuele Orlando, fortemente contrario al Governo onnipotente quale si era consolidato in Germania e come sarà delineato dall’autoritarismo fascista.

Il Professor Ungari, procedendo dalle norme dello Statuto Albertino che delineano i poteri del Sovrano, conduce una importante ricostruzione della politica militare e della politica estera, materie nelle quali la Corona si riservò sempre un potere di influenza, non solo imponendo degli ufficiali ai dicasteri militari, nella considerazione che l’Esercito fosse il baluardo delle istituzioni, ma anche per rispondere a logiche di carattere simbolico, come osservato anche da Paolo Colombo, storico dello Statuto Albertino. Infatti, è proprio su quel terreno, scrive Colombo, che “il legame a doppia corda tra i due oggetti si rivela saldissimo. La Corona costruisce i propri miti attraverso le Forze Armate” ma, osserva Ungari, “questa difesa a oltranza dell’esercito e delle sue esigenze militari portò la Monarchia umbertina a scoprirsi sovente dal punto di vista politico, accentuando lo iato tra la Corona e l’opinione pubblica”… “se il monopolio sulle questioni militari, dunque, rimase appannaggio della Corona non meno forte fu l’influenza congiunta e dialettica della Monarchia sulle direttrici della politica estera, intervenendo spesso sulla nomina di ministri degli Esteri, di diplomatici di carriera e di funzionari”. La vicenda della Triplice Alleanza, conclude Ungari, “testimonia il ruolo che la Corona svolse nella delineazione della politica estera del Regno d’Italia. Un ruolo senz’altro concorrente a quello portato avanti dalla diplomazia ufficiale, ma che ebbe un peso non indifferente, come le vicende dell’entrata in guerra dell’Italia nel Primo conflitto mondiale avrebbero successivamente mostrato. La stipula della Triplice Alleanza vide un ruolo assolutamente attivo da parte di Umberto I. A spingerlo in tal senso concorsero sia motivazioni dinastiche sia considerazioni più generali”.

Molto interessante il capitolo curato da Elena Manzo, Professore ordinario di storia dell’architettura all’Università degli studi della Campania “Luigi Vanvitelli”, che si sofferma sul risanamento di Napoli, la sanificazione, le bonifiche ma anche sugli sventramenti e sulle pianificazioni urbanistiche nell’Italia umbertina. È il 1883 quando il Re percepisce l’onda che sta travolgendo l’Europa e l’intera Italia, il colera scoppiato lungo il Gange, quel terribile morbo che avrebbe portato a Heinrich Hermann Robert Koch a recarsi immediatamente in Egitto per studiarlo direttamente sulle popolazioni indigene. Il Re è attivo nella ispezione del cordone dei nosocomi, nella riorganizzazione del sistema legislativo in tema di igiene urbana e sociale; organizzazione poi concretizzatasi solo nel 1887 con numerosi Regi Decreti, tra cui quello del 7 giugno, con cui si inserisce la figura dell’ingegnere nei Consigli Sanitari, e quelli del 3 e 5 luglio. Il primo trasforma l’Ufficio speciale di polizia sanitaria in Direzione di Sanità Pubblica, alle cui dipendenze con R.D. del 14 luglio viene affiancato uno specifico ufficio di ingegneri sanitari con l’incarico di svolgere servizi ordinari e ispezioni nei comuni malsani. In contemporanea vengono disposti i prestiti di favore (al 3%) per le opere di risanamento igienico dei piccoli comuni.

Il capitolo della Professoressa Manzo è un prezioso saggio sulla definizione della normativa sull’emergenza sanitaria e abitativa e sulla tempestività degli  interventi dai quali l’Italia di oggi avrebbe molto da imparare, anche per quanto riguarda gli interventi infrastrutturali nell’ex capitale del Regno dei Borbone.

A Gustavo Mola di Nomaglio, storico, Vicepresidente del Centro Studi Piemontesi, si deve il capitolo sul filo rosso anarco-comunista tra cronaca giornalistica e storia, sui tentativi insurrezionali italiani nel 1898 e sull’assassinio di Re Umberto. L’A. smentisce una “dolorosa e pervasiva vulgata” la quale vorrebbe che il Re sia stato ucciso dall’anarchico Gaetano Bresci perché responsabile della sanguinosa repressione dei moti di Milano del 1898, una vulgata – spiega – “creata, consolidata e abilmente diffusa e trasmessa dagli storici, storiografi e giornalisti sia di matrice marxista (pressoché monopolisti e diuturni guardiani della presunta “verità storica”) sia da loro più ingenui emuli”. Sulla base di testimonianze e di cronache l’A. è del parere che a Milano si stesse consumando un vero tentativo rivoluzionario, “un’anticipazione se si vuole, della rivoluzione che era destinata a conoscere la Russia con la instaurazione del primo tra i regimi comunisti del mondo”, e si chiede quali rischi il Paese avrebbe corso “se i diffusi fermenti concretamente insurrezionali avessero avuto la meglio sulle forze che li contenevano”.

Il capitolo che si deve alla penna di Adriano Monti Buzzetti Colella, giornalista RAI, “Lo stile di Umberto e Margherita, icone fin de siécle”, ci immerge nel clima di questo scorcio del XIX secolo che “rappresenta una fase di ottimismo e propulsione socio-economica generata dall’incontro di vari e fecondi fattori. Tra questi l’operosità della nuova classe imprenditoriale; il fervore intellettuale della nuova borghesia in ascesa, che con le sue sostanze muoveva anche l’economia inseguendo le dannunziane “cose inutili e belle”; e infine le effervescenti novità del progresso tecnico-scientifico e industriale. Una congiuntura dunque promettente da più punti di vista, che pittori italiani internazionalmente noti, come Giovanni Boldini, Giuseppe De Nittis, Federico Zandomeneghi e Vittorio Matteo Corcos… trasferirono nelle atmosfere eleganti e rarefatte dei loro quadri, e che il comune sentire di vari Paesi finì invariabilmente per associare alle figure dei rispettivi regnanti”. Sicché, in questo contesto, l’epoca fu chiamata “Umbertina”, come illustra l’A., descrivendo un clima, quella joie de vivre e benessere che caratterizzò l’ultimo scorso scorcio dell’Ottocento e che, ricorda, “lo storico Luigi Salvatorelli ha paragonato alla sottile ma pervasiva “felicità dei tempi” che doveva percepirsi nell’età augustea”.

A Nicola Neri, Associato di relazioni internazionali e storia della guerra e delle istituzioni militari all’Università degli studi di Bari, si deve un capitolo importante il cui tema in qualche modo è stato sfiorato anche da altri autori, quello della politica coloniale del Regno d’Italia al tempo di Umberto I, ma che dalla penna dello storico di questioni militari assume una straordinaria evidenza, anche con riguardo all’iniziativa del Sovrano. Per cui la parabola coloniale: “dai primi successi commerciali alle vittorie militari contro l’Impero sudanese, fino alla battuta d’arresto di Adua tutto si consuma durante il suo Regno”. Il tema naturalmente è quello della politica mediterranea e della necessità di aprire e mantenere aperte le rotte sul mare, soprattutto dopo l’apertura del canale di Suez del 1869, per cui l’Italia si sforzò di consolidare e di ampliare i possedimenti sul Mar Rosso, una scelta che inevitabilmente mise in contrasto l’Italia con i mahdisti sudanesi e con i regoli dell’Abissinia. Il Professor Neri ricorda l’intensa attività diplomatica svolta dal Sovrano, e, dopo la presa di possesso di Assab, il passaggio più critico dello sviluppo coloniale italiano con la conquista di Massaua nel 1885. È richiamato l’importante scambio di lettere con le autorità etiopiche, in particolare con il Negus Menelik, che portano a intese varie, compresa la fornitura di armi all’Etiopia, i fucili Remington, all’epoca famosi.

In questo clima di relazioni internazionali con altri paesi impegnati in esperienze coloniali con i quali si era sviluppato un intenso contrasto, l’A. ricorda il noto episodio del duello tra il Principe Henry d’Orléans, pretendente al trono di Francia, ed il Principe Vittorio Emanuele di Savoia Aosta, Conte di Torino, uno scontro terminato con gravi ferite per il principe francese. L’occasione era stata la difesa da parte del principe sabaudo, dell’onore del soldato italiano offeso dal francese in un articolo per il parigino Le figaro nel quale aveva denigrato il comportamento degli italiani impegnati nella battaglia di Adua.

Nelle conclusioni il Professor Neri ricorda come Re Umberto sia stato un entusiasta e un propugnatore della politica coloniale, cosa non di poco conto in un momento in cui l’Italia, seppur giovane di costituzione, si atteggiava a grande potenza. D’altra parte, i Savoia erano gli eredi di una dinastia dalla grande tradizione militare che il Re interpreta d’intesa con il suo primo ministro, Francesco Crispi.

A Rossella Pace, Ricercatrice universitaria in storia contemporanea, e ad Edoardo Pezzoni Mauri, Avvocato, Vicepresidente dell’Unione Monarchica Italiana, si deve il capitolo “Il mito della Regina”, del quale già ho fatto qualche cenno. La Regina Margherita è subito molto popolare per le sue opere di beneficenza ma anche, fra il ceto medio e colto, per la sua vicinanza ad ambienti della scienza e delle arti, per quella sorta di “salotto letterario” che a Palazzo del Quirinale richiama grandi personalità della politica e della cultura. Questo salotto intellettuale è una scelta molto importante, che avvicina la Monarchia liberale al mondo della cultura e indirettamente della politica. Mancheranno queste iniziative intorno al Re Vittorio Emanuele III, che pure favorì le grandi riforme di carattere politico, economico e sociale dei governi di Giovanni Giolitti. In questo periodo e successivamente il Re sarà debole dal punto di vista dei rapporti con la classe politica, soprattutto di matrice universitaria, lui che pure era un uomo molto colto, numismatico famoso e geografo, richiesto di consulenze e arbitrati internazionali. Questo isolamento danneggerà la Corona nei confronti del Fascismo impegnato a conquistare il consenso dell’alta burocrazia e del mondo universitario con promozioni e onorificenze. La Regina Elena, anch’essa impegnata attivamente in attività benefiche, e pertanto insignita da Papa Pio XI della “Rosa d’oro della Cristianità”, sarà sempre schiva, dedita soprattutto alla famiglia, non seguirà l’impegno culturale della Regina Madre. 

Il “Circolo Margherita”, nonostante fosse frequentato da numerosi esponenti della destra storica, scrivono Pace e Pezzoni Mauri, non assunse mai, tuttavia, una valenza superiore a quella di un ritrovo puramente intellettuale: “tutto ciò che è politica mi interessa pochissimo”, scriveva la Regina a Marco Minghetti. Eppure la sua iniziativa ha avuto indubbi effetti politici. Importante è anche l’attività della Regina in favore della “Federazione romana delle opere di attività femminile”, preludio della nascita del Consiglio nazionale delle donne italiane. A congresso, la Presidente, Lavinia Taverna, insiste con particolare vigore proprio sulla necessità di portare a conoscenza di tutti l’enorme patrimonio delle opere femminili collegate ai movimenti europei.

Gran parte di questo merito va scritto sicuramente alla Regina Margherita, al suo ristretto circolo che – sottolineano Pace e Pezzoni Mauri – non ebbe mai niente da invidiare ai più blasonati salotti italiani frequentati dagli stessi personaggi della politica del tempo.

Importante contributo si rinviene nel capitolo del Professor Nicola Pisani, Ordinario di diritto penale nell’Università degli studi di Teramo e direttore della Scuola di specializzazione per le discipline legali, che tratta un argomento costantemente richiamato nella esaltazione delle riforme liberali del Regno di Umberto I, il Codice penale Zanardelli, una grande riforma che parte dal trentennio fra il 1860 e il 1889 che fu caratterizzato dall’impegno per l’unificazione della legislazione penale toscana con quella vigente nelle altre regioni d’Italia per la creazione di un unico Codice penale per tutto il Regno. Il codice, che abolisce la pena di morte, dette luogo a un grande dibattito politico e scientifico ed a vari tentativi nel tempo di una codificazione unitaria in materia penale compiuti dal Ministro Vincenzo Maria Miglietti e da Pasquale Stanislao Mancini. La riforma però è quella del Ministro Giuseppe Zanardelli, presentata nel 1883 alla Camera dei deputati dall’allora Ministro della Giustizia Bernardino Giannuzzi Savelli. Successivamente Enrico Pessina, autorevole penalista in seguito relatore del codice Zanardelli e Diego Taiani apportarono modifiche al testo. Ma i tentativi di uniformare la legislazione penale risultarono vani. Ci furono importanti interventi parlamentari e commissioni presiedute dallo stesso Zanardelli e delle quali è stato membro Francesco Carrara, illustre esponente della scuola classica. Il Codice, promulgato dal Re Umberto il 30 giugno 1889 entrò in vigore il 1° gennaio 1890. 

Il Codice – scrive Pisani – “aveva una ispirazione di fondo e una trama autenticamente liberali, anche se voci autorevolissime della penalistica italiana lo hanno definito come un Codice penale “con lo sguardo al passato”, in ragione della scarsa apertura alle istanze fatte proprie dalla cosiddetta Scuola Positiva che aveva come esponente di punta Cesare Lombroso”. Naturalmente come spiega il Professor Pisani, il Codice “era il frutto di un lento e difficile processo di codificazione, era nato con l’esigenza di fornire uno strumento di controllo repressivo, nello stato liberale monoclasse, attraverso risposte “emergenziali” capaci di fronteggiare fenomeni generati dall’avvento della società di massa quali il brigantaggio, gli attentati degli anarchici, le rivolte contadine e quelle operaie del tempo e la connessa questione sociale che si affacciava prepotentemente sulla scena italiana. L’impronta liberale, nel Codice coesiste con una matrice autoritaria”. Una impronta scrive l’A. “che sarà immanente a tutta la legislazione penale successiva e anche più recente di un diritto penale “a doppia velocità”: cioè di una legislazione dell’emergenza che tende ad impiantarsi stabilmente consolidandosi nelle strutture e nella legislazione ordinaria (si pensi alla legislazione antimafia o dell’antiterrorismo degli anni di piombo) e che si colloca accanto a un diritto penale ispirato alle garanzie di libertà dell’individuo nei confronti della potestà punitiva dello Stato”.

Andrea Ungari, storico illustre dell’età contemporanea, è l’autore del capitolo “Umberto I e la Triplice Alleanza” che, come si è già fatto cenno, affronta i temi del ruolo politico e istituzionale della Monarchia nell’Italia liberale approfondendo molto le scelte del Sovrano nella politica militare, nella gestione delle forze armate e nella politica estera , che sarà una caratteristica importante anche nei primi governi di Vittorio Emanuele terzo, ad esempio nel 1915 , in occasione dell’entrata in guerra dell’Italia al fianco delle potenze dell’impresa dell’intesa a seguito del Patto di Londra del 26 aprile con il quale l’Italia s’impegnava ad entrare in guerra entro un mese a fianco di Francia e Inghilterra. 

Il capitolo conclusivo si deve a Salvatore Sfrecola, Avvocato cassazionista, già Presidente di sezione della Corte dei conti, il quale richiama l’attualità del pensiero di Vittorio Emanuele Orlando, politico e giurista di straordinario interesse che nella sua lunga vita (1860 – 1952), ha operato durante il Regno di Umberto I, occupandosi precipuamente della legge elettorale, per poi collaborare  con Re Vittorio Emanuele III quale Ministro dell’Interno e della giustizia e Presidente del Consiglio, il “Presidente della Vittoria”, come fu chiamato, perché in carica a conclusione della Prima Guerra Mondiale. Liberale a tutto tondo, Orlando si oppone al regime fascista, si dimette da parlamentare dopo il discorso di Mussolini del 3 gennaio 1924 a proposito del delitto Matteotti, ritenendo che quell’intervento preannunci l’avvio di una svolta autoritaria, e non giura fedeltà al fascismo come imposto anche ai professori universitari.

Orlando, ricorda Sfrecola, è il fondatore della Scuola italiana del diritto pubblico e su questo l’A. si sofferma molto richiamando gli studi, di grandissima attualità per l’impronta liberale che li contraddistingue. Orlando era un grande estimatore del sistema costituzionale inglese e della sua legge elettorale, contrario al “premierato” di cui si parla molto oggi che osserva alle prime mosse del governo Mussolini e intuisce che, nella volontà autoritaria del Duce e del fascismo, ci sarebbe stata un significativo contenimento dei poteri del Sovrano. Soprattutto c’è quella mancanza di libertà civile che invece lui, liberale, amava moltissimo e alla quale ha dedicato tutta la sua vita. Orlando, in uno dei suoi ultimi discorsi, ricorda di essere un homo parlamentaris, un uomo del Parlamento.

Sfrecola ricorda che Orlando ebbe un ruolo importante anche nella fase conclusiva della Seconda Guerra Mondiale, perché, avvicinato da ambienti vicini alla Corona, fu messo a parte dell’intenzione del Re Vittorio Emanuele III di consegnare alla storia il Governo Mussolini, responsabile di una guerra alla quale l’Italia non aveva alcun interesse di partecipare. Orlando fu autore del celebre messaggio di Badoglio (“la guerra continua”) dopo la caduta di Benito Mussolini il 25 luglio 1943.

Il volume è, dunque, un piccolo, prezioso dono che la collana diretta da Alessandro Sacchi offre ai lettori amanti della storia d’Italia e ricostruisce, da vari punti di vista, il clima culturale e politico dell’Italia al tempo del Re Umberto I.

1 commento

  1. […]   “Umberto I, Il Re buono”, a cura di Edoardo Pezzoni Mauri e Salvatore Sfrecola con prefazione di Maria Pia di Savoia, primogenita del re Umberto II, si sarebbe potuto intitolare “l’Italia al tempo di Umberto I”, il Re ucciso il 29 luglio 1900 dall’anarchico Gaetano Bresci: tre o forse quattro i colpi di pistola che, come scrive Sacchi, “posero la parola fine alla bella favola risorgimentale che era stata il motivo conduttore della vita del Re Umberto I”. QUi una sintesi della presentazione di Gianni Torre per il blog Un sogno italiano. […]

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