di Salvatore Sfrecola
Arduo slalom tra princìpi e regole per affermare la coerenza con i princìpi costituzionali in tema di legalità e buon andamento, e pertanto di tutela degli interessi pubblici, della norma introdotta dal governo Conte1 e prorogata dal Conte2, da Draghi e da Giorgia Meloni, quanto alla esenzione fino al 31 dicembre 2024 dalla responsabilità per danno erariale di coloro i quali abbiano provocato una lesione degli interessi finanziari o patrimoniali dello Stato e degli enti pubblici con “colpa grave”. Nel linguaggio politico-giornalistico si chiama “scudo erariale”, tanto per confondere le idee. Lo scudo è una protezione ma nel caso specifico l’aggettivo erariale significa che la protezione non è per l’erario ma per coloro che lo danneggiano. E così la sentenza n. 132, depositata il 16 luglio, è stata interpretata da alcuni organi di stampa come se lo “scudo” fosse legittimo solo perché temporaneo, mentre le affermazioni che si leggono nella parte in diritto della pronuncia costituiscono una gravissima interpretazione del ruolo della responsabilità erariale rispetto all’amministrazione pubblica in ragione dell’attività dispiegata per raggiungere degli obiettivi, dei risultati. “In particolare – si legge nella sentenza -, quest’ultima (l’Amministrazione, n.d.A), come stabilito dalla legge n. 241 del 1990, oltre che dal principio di legalità, sarebbe stata retta dai criteri di economicità ed efficacia (art. 1). I dirigenti, poi, in forza della legge n. 142 del 1990 e del d.lgs. n. 29 del 1993, si sono visti compiutamente attribuire il compito di conseguire gli obiettivi assegnati dagli organi di governo e, conseguenzialmente, sono stati configurati quali responsabili per i risultati effettivamente raggiunti.
Tali fondamentali innovazioni – tra le altre – marcavano il passaggio da un’amministrazione che, secondo il modello dello Stato di diritto liberale, doveva dare semplicemente esecuzione alla legge, adottando un singolo e puntuale atto amministrativo, a quella che è stata definita “amministrazione di risultato”, cioè un’amministrazione che deve raggiungere determinati obiettivi di policy e che risponde dei risultati economici e sociali conseguiti attraverso la sua complessiva attività”.
Scrivono i Giudici costituzionali come se il raggiungimento dei risultati fosse una novità dell’ordinamento. Sicché un lettore che abbia studiato poco potrebbe essere indotto a ritenere che le pubbliche amministrazioni fossero fino agli anni ’90 del secolo scorso preoccupate esclusivamente del rispetto di regole giuridiche le quali non prevedevano nel loro insieme l’obiettivo del perseguimento del risultato voluto dalla legge. Cioè, come se la norma fosse concepita senza pensare all’effetto che essa avrebbe dovuto perseguire. Affermazione gravissima, contraddetta da tutta la dottrina del diritto pubblico, dalla più antica la quale ha costantemente affermato che compito dell’attività amministrativa è quello di perseguire un pubblico interesse che, evidentemente, è quello del raggiungimento dell’obiettivo per il quale la norma di diritto è stata concepita unitamente alla previsione di un adeguato finanziamento che consentisse appunto il raggiungimento della finalità voluta. Amministrazione, ha scritto Guido Zanobini, il maestro di tutti i cultori degli studi sulla P.A. è “l’attività pratica che lo Stato dispiega per curare, in modo immediato, gli interessi pubblici che assume nei propri fini”, con la precisazione che “i fini sono determinati in modo obbligatorio dalla legge” (Corso di Diritto Amministrativo, ottava edizione, 1958, 29, 31). In tempi più recenti lo ha scritto lo stesso redattore della sentenza, laddove afferma che la “macchina organizzativa” dello Stato “è congegnata in modo tale da soddisfare gli interessi pubblici per la cui cura è stata creata” (R. Bin – G. Pitruzzella, Diritto costituzionale, Giappichelli, Torino, 2004, 31). Ed è impossibile soddisfare gli interessi pubblici senza che la macchina organizzativa persegua un risultato, quello prefigurato dalla legge, con previsione delle occorrenti risorse finanziarie.
Sarebbe assurdo se, seguendo le argomentazioni del Giudice delle leggi, noi ritenessimo che Camillo di Cavour, Giovanni Giolitti e via via Alcide De Gasperi, i Governi ed i Parlamenti che hanno approvato le varie leggi per costruire strade, ferrovie, ponti, acquedotti e via enumerando non avessero immaginato il raggiungimento degli obiettivi delineati con impiego delle risorse assegnate agli stessi nella legge di bilancio. Gli studiosi di contabilità pubblica sanno bene che per spendere risorse di bilancio è necessario che lo stanziamento abbia una specifica destinazione, come si desume dalla denominazione del relativo capitolo.
Se ne deve dedurre che i riferimenti all’“amministrazione di risultato” nel rispetto dei princìpi di economicità, efficienza ed efficacia dell’azione di una P.A. richiamati ripetutamente in sentenza siano stati solamente esplicitati nella normativa citata secondo il linguaggio politico dell’epoca che ne enfatizza il ruolo. Lo dimostra il riferimento al Codice degli appalti pubblici laddove afferma che “Il principio del risultato costituisce attuazione, nel settore dei contratti pubblici, del principio del buon andamento e dei correlati princìpi di efficienza, efficacia ed economicità” (art. 1, comma 3). E la stessa sentenza che, nel rafforzare il senso della immaginata inadeguatezza dell’attuale disciplina della responsabilità per danno erariale all’amministrazione “per risultati” richiama le disposizioni del vigente Codice dei contratti pubblici per aver “tipizzato” le ipotesi di responsabilità per “colpa grave” laddove afferma che “nell’ambito delle attività svolte nelle fasi di programmazione, progettazione, affidamento ed esecuzione dei contratti, ai fini della responsabilità amministrativa costituisce colpa grave la violazione di norme di diritto e degli auto-vincoli amministrativi, nonché la palese violazione di regole di prudenza, perizia e diligenza e l’omissione delle cautele, verifiche ed informazioni preventive normalmente richieste nell’attività amministrativa, in quanto esigibili nei confronti dell’agente pubblico in base alle specifiche competenze e in relazione al caso concreto”. Che è esattamente quello che la dottrina e la giurisprudenza della Corte dei conti identificano da sempre nella colpa grave. Ugualmente è evidente che “non costituisce colpa grave la violazione o l’omissione determinata dal riferimento a indirizzi giurisprudenziali prevalenti o a pareri delle autorità competenti”.
Inoltre, in quanto la colpa grave è conseguenza di macroscopica negligenza o imprudenza o imperizia non si comprende come quelle condotte non possano punire il funzionario cui è attribuita una elevata discrezionalità nel perseguimento dei risultati prefigurati dalla legge e concretamente delineati dagli atti di esecuzione, come nel caso della realizzazione di un contratto di appalto. Conclusione alla quale nessun cittadino italiano, cioè nessuno di coloro che, pagando imposte e tasse, alimentano i bilanci pubblici, perverrebbe con un po’ di buon senso, quello che, sulla base dell’esperienza e della cronaca giudiziaria, ci dice che alcuni funzionari, i più, gestiscono nel rispetto delle regole, altri, pochi, ignorandole. Ed è evidente che, platealmente ignorando queste regole, si può incorrere in una responsabilità che in taluni casi può essere di natura gravemente colposa che il legislatore ha voluto, oltre che fosse un deterrente nei confronti di incapaci e disonesti, anche di natura risarcitoria. Perché, secondo un principio raccolto dalla saggezza popolare, “chi causa un danno deve risarcirlo”.
Parliamo di “colpa grave” che gli antichi romani, i quali avevano un’idea precisa del diritto equiparavano al dolo (dolo aequiparatur). Sono due condotte che assai si somigliano tanto è vero che il decreto nell’escludere la responsabilità nel caso di colpa grave ha previsto che “la prova del dolo richiede la dimostrazione della volontà dell’evento dannoso”, nei termini dell’art. 43 del codice penale.
Niente di nuovo, dunque, sotto il sole della Repubblica. La giurisprudenza della Corte dei conti, infatti, ha costantemente affermato che la colpa grave è proprio quella che il Codice dei contratti ha richiamato.
Ritiene il Giudice costituzionale che il riassetto della responsabilità amministrativa in essere (l’art. 1 della legge n. 20/1994) “era una componente di un processo riformatore di più ampio respiro che ha avuto luogo negli anni Novanta del secolo scorso” con il nuovo Ordinamento delle autonomie locali, le Nuove norme in materia di procedimento amministrativo, la Razionalizzazione della organizzazione delle Amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della pubblica amministrazione e per la semplificazione amministrativa, lo snellimento dell’attività amministrativa e dei procedimenti di decisione e di controllo.
Non si comprende, dunque, come “attraverso un articolato e complessivo processo di riforma” che introduceva “un nuovo modello di pubblica amministrazione”, debba ritenersi superato il “riassetto della responsabilità amministrativa operato dalla legge n. 20 del 1994 e dalle successive modifiche” che “intendeva promuovere un’amministrazione sempre meno relegata all’esecuzione del già deciso con la legge, ma orientata – appunto – al risultato, e perciò sempre più ampiamente investita del compito di scegliere, nell’ambito della cornice legislativa, i mezzi di azione ritenuti più appropriati, di ponderare i molteplici interessi pubblici e privati coinvolti dalla decisione amministrativa, di legare insieme in un disegno unitario differenti atti e provvedimenti, e di assicurare l’efficienza, operando in un orizzonte temporale ben preciso”. Il tempo, e non da oggi, è un “costo” per il privato e la P.A..
Considerato, poi, che “l’ampia discrezionalità, peraltro esercitata in un ambiente in cui la complessità istituzionale, sociale e giuridica è andata progressivamente crescendo, è una componente essenziale e caratterizzante tale tipo di amministrazione…(che) ”La necessità di scegliere, entro un termine predeterminato, sovente tra un ventaglio ampio di possibilità e in un ambito non più integralmente tracciato dalla legge”, “accresce inevitabilmente la possibilità di errori da parte dell’agente pubblico”, non si comprende perché debba ingenerare “il rischio della sua inazione” considerato il richiamato ambito della condotta caratterizzata da “colpa grave”. In particolare, che la stessa sentenza afferma che, “per evitare tale pericolo… l’art. 3, comma 1, lettera a), del d.l. n. 543 del 1996… ha escluso la colpa lieve dalla configurazione dell’elemento soggettivo della responsabilità amministrativa”, che rimane circoscritta ai casi di dolo o colpa grave. Quella limitazione l’aveva sollecitata Camillo di Cavour nel 1852, in occasione della riforma della legge di contabilità di Stato, ma all’epoca la Camera del Parlamento subalpino non l’aveva seguito mantenendo il requisito della “colpa lieve”. Le ragioni del grande statista sarebbero state riconosciute solamente nel 1996, e solo dopo che ai dipendenti degli enti locali era stato esteso il regime della responsabilità prevista per i dipendenti dello Stato.
Il Giudice delle leggi aveva già affrontato il tema e chiarito che la limitazione della responsabilità alle condotte gravemente colpose sulla base dei lavori preparatori evidenziavano “l’intento di predisporre, nei confronti degli amministratori e dei dipendenti pubblici un assetto normativo in cui il timore della responsabilità non esponga all’eventualità di rallentamenti ed inerzie nello svolgimento dell’attività amministrativa” (sentenza n. 371 del 1998). Aggiungendo che “pertanto, “[n]ella combinazione di elementi restitutori e di deterrenza che connotano l’istituto qui in esame, la disposizione risponde […] alla finalità di determinare quanto del rischio dell’attività debba restare a carico dell’apparato e quanto a carico del dipendente, nella ricerca di un punto di equilibrio tale da rendere, per dipendenti ed amministratori pubblici, la prospettiva della responsabilità ragione di stimolo, e non di disincentivo”. Infatti, “da una parte, la responsabilità amministrativa, oltre a una funzione risarcitoria, variamente modulabile, ha una funzione deterrente. La sua stessa esistenza scoraggia i comportamenti non solo dolosi ma anche gravemente negligenti dei funzionari pubblici, che pregiudicano il buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.) e gli interessi degli stessi amministrati, la cui contribuzione al funzionamento della macchina pubblica potrebbe essere dissipata senza alcun beneficio per la collettività. Dall’altra parte, vi è l’esigenza di impedire che, in relazione alle modalità dell’agire amministrativo, il rischio dell’attività sia percepito dall’agente pubblico come talmente elevato da fungere da disincentivo all’azione, pregiudicando, anche in questo caso, il buon andamento”.
Di qui l’affermazione che “il punto di equilibrio può non essere fissato dal legislatore una volta per tutte, ma modulato in funzione del contesto istituzionale, giuridico e storico in cui opera l’agente pubblico, e del bilanciamento che il legislatore medesimo – nel rispetto del limite della ragionevolezza – intende effettuare, in tale contesto, tra le due menzionate esigenze. La stessa scelta legislativa della limitazione della responsabilità alle ipotesi dolose e gravemente colpose, positivamente scrutinata da questa Corte con la citata sentenza n. 371 del 1998, si collocava nel processo di trasformazione dell’amministrazione di cui si è fatto cenno”.
Ancora, dunque, nulla di nuovo sotto il sole della Repubblica. Considerato che “la concreta configurazione della responsabilità amministrativa e la definizione del margine di discostamento dai princìpi comuni della materia sono rimessi alla discrezionalità del legislatore… “con il solo limite della non manifesta irragionevolezza e arbitrarietà della scelta” sembrano senz’altro un fuor d’opera i riferimenti al decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, recante «Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche», alla legge 15 luglio 2002, n. 145, recante «Disposizioni per il riordino della dirigenza statale e per favorire lo scambio di esperienze e l’interazione tra pubblico e privato», e al decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150, recante «Attuazione della legge 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni»).
È così continua ossessivo il richiamo alle “ricordate trasformazioni” che tuttavia – bontà loro – i Giudici ritengono che la limitazione “alla sola ipotesi del dolo” non “realizzerebbe una ragionevole ripartizione del rischio, che invece sarebbe addossato in modo assolutamente prevalente alla collettività, la quale dovrebbe sopportare integralmente il danno arrecato dall’agente pubblico. I comportamenti macroscopicamente negligenti non sarebbero scoraggiati e, pertanto, la funzione deterrente della responsabilità amministrativa, strumentale al buon andamento dell’amministrazione, ne sarebbe irrimediabilmente indebolita”.
Detto questo per la Consulta “diverso, però, è il caso in cui la disciplina che circoscriva alle sole ipotesi di dolo l’elemento soggettivo della responsabilità riguardi esclusivamente un numero limitato di agenti pubblici o determinate attività amministrative, allorché esse presentino, per le loro caratteristiche intrinseche, un grado di rischio di danno talmente elevato da scoraggiare sistematicamente l’azione e dare luogo alla “amministrazione difensiva”.
Non è questa la fattispecie al suo esame perché il decreto-legge 76/2020 non identifica categorie di operatori per cui si applica a tutti, a coloro che hanno acquistato mascherine farlocche ad un prezzo esoso o banchi a rotelle mai usati come a qualunque altro pubblico amministratore o dipendente, anche per chi abbia causato un incidente stradale.
Decidere, dunque, che “può essere ritenuta non irragionevole una disciplina provvisoria che limiti al dolo l’elemento soggettivo della responsabilità amministrativa, avuto riguardo a un contesto particolare che richieda tale limitazione al fine di assicurare la maggiore efficacia dell’attività amministrativa e, attraverso essa, la tutela di interessi di rilievo costituzionale” è assolutamente illogico. Perché se quello fosse stato l’obbiettivo da raggiungere il legislatore avrebbe potuto, e dovuto, incidere sui procedimenti, semplificandoli per facilitare l’attività degli operatori, magari prevedendo forme di controllo più accelerate.
Concludere questa ricerca forzosa di una ragione che non sia irragionevole escludere la colpa grave per condotte assolutamente ingiustificabili dimostra la condivisione di una scelta di politica legislativa che ignora princìpi fondamentali lasciando a carico della comunità danni ingiusti causati con colpa grave determina uno squilibrio nei conti pubblici. Anche “la necessità di «semplificare e agevolare la realizzazione dei traguardi e degli obiettivi stabiliti” dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) è argomento assolutamente ininfluente. Perché se “per attivare un sentiero di crescita economica sostenibile, il PNRR prevede un complesso di investimenti… ” per cui “ogni indugio e ritardo delle amministrazioni pubbliche può compromettere il rispetto del cronoprogramma stabilito, bloccando, alla scadenza prevista, l’erogazione da parte dell’UE della tranche di risorse stanziate” un Governo ed un Parlamento rispettosi dei diritti del cittadino-contribuente avrebbe semplificato le procedure e magari i controlli, non assicurare lo “scudo” a incapaci e disonesti. Quelli che si è voluto salvare.
E non è finita qui. Perché il Giudice delle leggi, da tempo abituato a debordare in una funzione di suggeritore di governo e Parlamento, ipotizza nuove ipotesi di responsabilità così contraddicendo la ritenuta congruità della riforma della legge 20/1994 a suo tempo modulata nella considerazione della “amministrazione per risultati”.
Il cittadino non ringrazia.