di Salvatore Sfrecola
Il quesito referendario sulla cittadinanza, che siamo chiamati a votare l’8 e il 9 giugno, con il quale si propone di ridurre da 10 a 5 gli anni necessari ai residenti per chiedere di diventare cittadini italiani va, a mio giudizio, respinto con un convinto NO, come cercherò di spiegare ai miei lettori e come ho detto nei giorni scorsi in occasione di una conviviale “Fratria adelphi”, come chiama queste serate Gianluigi Biagioni Gazzoli che di questa comunità è il Presidente che coordina insieme a Valentina, cui spetta aprire il dibattito indicando i temi e stimolando i relatori e la curiosità dei partecipanti.
Ho ricordato iniziando quel che ha ripetuto più volte in questi giorni l’On. Marco Rizzo, Coordinatore di Democrazia Sovrana Popolare: “In Svizzera, per avere la cittadinanza serve essere residente in quel paese da 12 anni, non aver commesso nessun reato, conoscere molto bene la lingua, per dimostrare di potersi integrare. Poi viene concessa la cittadinanza ma se nei primi 5 anni commetti un reato ti viene tolta la cittadinanza. Perché in Italia non potrebbe essere come in Svizzera?”
Io credo che, per affrontare il tema della cittadinanza italiana, si debba iniziare da alcune riflessioni
Per affrontare il tema della cittadinanza occorre approfondire le caratteristiche che ha assunto l’attuale fase migratoria, “un fenomeno serio, fino ad ora fin troppo sottovalutato” come scrive Vàclav Klaus, Presidente della Repubblica Ceca dal 2003 al 2013, in un volumetto scritto con Jiri Weigl “Comprendere l’immigrazione” (titolo originale:Europe All Inclusive. A brief Guide to Understanding the Current Migration Crisis), a cura di Francesco Giubilei (Giubilei Regnani Editore, Roma, 2019, pp. 123, € 13,00). Oggi assistiamo a un’immigrazione organizzata “direttamente da trafficanti professionisti, persone che hanno basato la propria vita sulle attività dell’economia grigia o nera, o a volte perfino sul crimine organizzato” che Klaus non ha il timore di definire un “business di dimensioni considerevoli” sviluppato grazie a un preciso disegno promosso dalle élite europee che usano l’ondata migratoria a proprio vantaggio. Aggiungendo che un ulteriore elemento per capire cosa sta avvenendo in Europa è la distinzione tra la migrazione individuale e quella di massa, oggi stiamo assistendo a un fenomeno migratorio collettivo che non nasce con lo scopo di integrarsi ma “di rimanere attaccati al vecchio mondo e al precedente stile di vita, nonostante ci sia trasferiti in un paese diverso”. Ciò porta a “un’esplicita e ragionata intenzione di espandere il proprio mondo all’interno di un altro, per trasformare gradualmente il nuovo paese in quello vecchio”.
Sono indicazioni sufficienti per ritenere un problema reale un rischio di destabilizzazione per l’equilibrio sociale degli Stati europei. Non a caso, sottolinea Klaus, “tutta l’idea dell’area di Schengen è basata esplicitamente sull’impermeabilità dei confini europei”. A suo giudizio non c’è una seria volontà di fermare l’immigrazione ma la necessità di ricollocare “quanti più nuovi europei possibile”.
Gli autori si soffermano poi sugli effetti economici dell’immigrazione che porterà a mettere in crisi i sistemi previdenziali, in particolare nei paesi europei meno ricchi: “le economie stagnanti dei paesi più deboli stanno rimanendo indietro rispetto al resto del mondo” con un forte impatto sulla coesione della società poiché “il risultato finale della migrazione di massa non farà che danneggiare l’equilibrio sociale europeo esistente e la sua stabilità”.
Difronte a questa analisi la cui validità non appare contestabile occorre prendere in considerazione quali requisiti deve possedere chi richiede la cittadinanza italiana, tenuto conto della necessità di distinguere i cittadini dai residenti e dagli ospiti, per motivi di lavoro o di studio.
Io credo che si debba, in primo luogo, ragionare su cosa significa essere cittadino. La cittadinanza è una condizione giuridica per la quale un soggetto ha tutti i diritti di partecipazione alla vita politica dello Stato essendo interessato alle regole che lo disciplinano. Il cittadino è un po’ come il socio di una società per azioni. Come l’azionista dà il suo apporto con il voto nell’assemblea societaria perché è interessato al suo buon funzionamento in quanto detiene una parte del capitale, anche il cittadino al momento del voto fa delle scelte che tengono conto delle proprie necessità, del proprio modo di concepire la società ed il suo sviluppo. Non a caso, fino all’800, il diritto di voto era riservato a chi svolgeva un’attività economica ed aveva un determinato reddito. Il primo “patto” tra il sovrano ed il popolo, raccolto dalla Magna Charta Libertatum firmato il 15 giugno 1215 da Re Giovanni d’Inghilterra conclude una lunga contesta con i baroni inglesi che si erano ribellati alle esazioni fiscali ritenute. E collega la tassazione alla rappresentanza politica. Che sarà il motivo della secessione delle colonie inglesi d’America “no taxation wìthout rappresentation”.
Oggi, tuttavia, non è sufficiente pagare le tasse per ambire alla cittadinanza. Né lavorare o studiare in Italia. L’appartenenza ad una comunità è innanzitutto condivisione di valori sentire di appartenere a una storia, quella che chiamiamo identità di un popolo.
Infatti, viene richiamata la condizione di chi studia nelle nostre scuole. Lo chiamano ius scholae per nobilitare l’iniziativa e aggiungono che quei bambini – si prende sempre l’esempio dei bambini o degli anziani per intenerire i cuori – sono compagni di scuola dei nostri figli e nipoti. Ma non basta. Perché frequentare una scuola non fa naturalmente di uno straniero un italiano. Lo abbiamo constatato più volte. I bambini che appartengono a famiglie che hanno un’altra cultura, un’altra idea di Stato e di società, non sono disponibili a condividere le nostre abitudini, il senso della nostra identità.
Vorrei fare degli esempi pratici perché così ci intendiamo. Tutti ricorderete quel bambino coraggioso che, trovandosi, insieme ai suoi compagni, a bordo di uno scuolabus sequestrato da un terrorista non perse la calma. E utilizzando un telefonino avvertì i Carabinieri che intervennero salvando la comitiva da un grave pericolo.
È stato un ragazzino coraggioso che tutti abbiamo ammirato. È stato premiato con la concessione della cittadinanza italiana, una scelta che è stata un errore. Gli si poteva e doveva dare una medaglia. La cittadinanza, come già detto, è condivisione di una appartenenza che per quel bambino è l’Egitto. E, infatti, per festeggiare si è fatto fotografare orgogliosamente con la bandiera egiziana sulle spalle. Niente di male, è e si sente egiziano. Appartiene ad una civiltà antichissima, nobilissima. Perché dovremmo sradicarlo dalla sua identità? Per lui il Padre della Patria sarà un Faraone, Ramses II ad esempio, non Garibaldi, Mazzini o Vittorio Emanuele II. Qui è ospite gradito, può studiare nelle nostre scuole, avere i relativi diritti, quanto alla sanità ed agli sport. Il voto è altra cosa.
Altro episodio significativo. In una scuola italiana, nella ricorrenza della strage del Bataclan, la discoteca di Parigi dove il 13 novembre 2015, al termine di una serie di attacchi terroristici di matrice islamica, vennero colpiti a morte 90 giovani di varie nazionalità, fu deciso di ricordare le vittime, con un minuto di silenzio, in piedi. Ebbene, le ragazze musulmane non hanno partecipato all’omaggio. Sono rimaste sedute. Evidentemente nella loro cultura, nell’educazione familiare, nonostante la frequenza di una scuola italiana, nella loro mentalità, quegli che per noi sono senza dubbio degli assassini per loro sono dei patrioti, che combattono l’Occidente corrotto. Vogliamo dare a queste ragazze la cittadinanza italiana?
Forse l’avrebbe meritata Saman Abbas, la diciottenne di origini pakistane, scomparsa il 1º maggio 2021 a Novellara, in provincia di Reggio Emilia, uccisa dai familiari perché voleva e fare una vita da italiana e fidanzarsi e magari sposare un ragazzo italiano.
Ancora, Governo e partiti si sono mobilitati in favore del giovane studente egiziano che frequentava l’Università di Bologna, Patrick Zaki, imprigionato in patria perché avrebbe manifestato idee critiche nei confronti del suon governo. È stato un impegno apprezzabile, a difesa della libertà di manifestazione del pensiero. Tornato in Italia, accolto dalle nostre autorità e, a Bologna, dal Rettore di quell’Ateneo, il ragazzo non è riuscito neanche a dire grazie in italiano. Mi chiedo cosa e come studiasse in una università italiana.
Io appartengo ad una cultura politica che affonda le sue radici nei principi di libertà della civiltà occidentale, al centro della quale c’è l’esperienza di Roma, laddove è stata emanata la prima legge sull’asilo. Roma, simbolo stesso dell’inclusione, che significa acquisizione di chi condivideva l’identità romana ed ambiva diventare cittadino romano.
I romani, a differenza di altri popoli antichi, hanno nel loro archetipo l’idea dell’unità nella diversità. Roma – come ricorda Giuseppe Valditara, Ordinario di diritto romano, oggi Ministro dell’istruzione e del merito – nasce dall’incontro di popoli e culture differenti. Con pragmatismo e concretezza. La storia dimostra come a Roma gli stranieri, almeno quelli utili alla comunità, si integrassero senza troppe difficoltà e potessero arrivare anche a posizioni di comando. Tarquinio Prisco, il quinto re di Roma, sarebbe stato figlio di Demarato di Corinto, un greco immigrato in Etruria tempo addietro. Tarquinio, esperto conoscitore della tattica oplitica, e per questo chiamato a Roma dal vecchio re Sabino Anco Marzio, avrebbe preso il potere fino a cambiare profondamente la costituzione romana. Servio Tullio, che sarebbe stato addirittura figlio di una schiava di umilissime condizioni sociali, ascese ai vertici di Roma grazie alla sua abilità militare e alla sua saggezza politica, prima come collaboratore di Tarquinio, poi come suo successore al trono.
Roma favorì l’immigrazione di qualità. Arrivavano sulle rive del Tevere etruschi e greci che impiantavano imprese artigiane e botteghe. Non venivano per cercare lavoro, ma per offrirlo, per fare affari. Estranea a Roma fu sempre l’idea razziale, ma si preferiva la gradualità, nel senso di attribuire la cittadinanza a chi già da tempo aveva assimilato i costumi romani, perché avrebbe reso più facile l’integrazione. La concessione della cittadinanza era nell’interesse di Roma, non dello straniero. “Qualsiasi straniero, laddove fosse utile alla res publica, poteva diventare cittadino, ma doveva alla fine condividerne i valori essenziali ed essere fedele solo alla res publica. E quel centurione di origine libica che in Tripolitania portava con orgoglio il nome di Tullio Romolo testimonia il successo di questa politica” (G. Valditara, L’Impero romano distrutto dagli immigrati, Il Giornale – Fuori dal Coro, 2016, 34).
Di una attenta immigrazione si era fatto portatore anni addietro il Cardinale Giacomo Biffi, Arcivescovo di Bologna, che suggeriva di privilegiare immigranti provenienti dai paesi dell’est mediamente acculturati, molti di cultura cristiana, nella consapevolezza della difficoltà di far convivere situazioni estremamente diverse che poi avrebbero creato quei problemi di ordine pubblico e di convivenza che vediamo tutti i giorni. D’altra parte, persone senza possibilità di lavoro, o perché non c’è o perché non hanno nessuna esperienza lavorativa, devono necessariamente vivere di espedienti e questo significa disordine, criminalità diffusa.
Se ne parla con troppa superficialità. Accogliamo chi merita, sapendo che non tutti sono disponibili a condividere i nostri valori di libertà.