di Salvatore Sfrecola
Il risultato del voto locale dei giorni scorsi ha scatenato bagarre sulla stampa. Storie locali con candidati locali, evidentemente indovinati, per alcuni avrebbe cambiato gli scenari politici nazionali. Sicché la sinistra, che ha portato a casa alcuni risultati indubbiamente positivi, esulta in ragione della (temporanea) unità raggiunta facendo intravedere l’inizio della crisi della maggioranza fino a ieri ritenuta imbattibile.
“Naturalmente – dice Claudio Velardi, Direttore de Il Riformista – non è cambiato niente e da domani si riparte come prima con gli stessi problemi aperti. Cioè un governo che non brilla perché obiettivamente piuttosto incolore, statico e un’opposizione che non è in grado di presentarsi come una credibile alternativa”.
Direi che è un giudizio generalmente condiviso. Giorgia Meloni ha scelto di dedicarsi alle relazioni internazionali in ambienti nei quali viene accolta con una certa simpatia ma pur sempre destinata a contare per quanto conta il Paese del quale presiede il Governo. Purtroppo non quanto desidereremmo e questo è un limite che ha un inevitabile risvolto interno, quanto al consenso della maggioranza in vista delle prossime elezioni regionali, un test significativo per l’ampiezza dell’elettorato coinvolto.
Il fatto è che, impegnata sul fronte estero, la Presidente del Consiglio è stata costretta a lasciare mano libera sulle questioni interne a persone modeste che innamorate dei rispettivi ruoli mancano di una visione politica che riveli immediati effetti sull’opinione pubblica. E così, mentre il Paese avrebbe bisogno di una radicale riforma delle regole che interessano i cittadini e le imprese, la Pubblica Amministrazione rimane quel pachiderma lento quando fa per realizzare le politiche pubbliche o quando autorizza a fare con procedimenti macchinosi, defatiganti, costosi in termini di gabelle e di tempi, che sono essi stessi un costo, spesso capace di dissuadere dall’intraprendere.
Un’amministrazione snella, efficiente è una chimera eppure dovrebbe essere la prima delle preoccupazioni di una maggioranza di governo. Qualcuno dovrebbe dire a Giorgia Meloni che il più illustre dei suoi predecessori, il Conte di Cavour, diede vita, appena assunto l’incarico di Presidente del Consiglio, ad una profonda riforma dell’amministrazione che rese rapidamente idonea a perseguire gli obiettivi di sviluppo che quel grande statista si prefiggeva. E il Regno di Sardegna divenne presto uno stato moderno, con strade, ferrovie, canali navigabili, infrastrutture navali a fini di sviluppo dell’economia. Imponendo le proprie scelte, maturate anche con attenzione ad esperienze estere, ma senza aprire conflitti. Cosa che, invece, caratterizza questo Governo che, ad esempio ha immediatamente aperto un conflitto con la magistratura su temi di nessun interesse per l’opinione pubblica, come la separazione delle carriere, portata aventi solo perché era un desiderio di Berlusconi, come non si dimentica di ricordare Antonio Tajani, mentre nessuna riforma accelera i processi, il civile, che interessa tanto i cittadini quanto le imprese, e il penale, risultando trascurate le esigenze di tutela delle vittime dei reati.
Quanto alla Pubblica Amministrazione la principale preoccupazione del Ministro Zangrillo sembra essere quella di poter assumere dirigenti ad nutum, senza passare da un concorso, nonostante lo preveda la Costituzione sulla base di un principio costantemente richiamato da Consiglio di Stato e Corte di Cassazione. È evidente l’intento di poter reclutare amici ma si trascura l’effetto negativo e mortificante sui vincitori dei concorsi, che sono anche gli idonei ai quali in non pochi casi sono stati preferiti, con nomina fiduciaria, alcuni che quei concorsi avevano perso.
Cavour che voleva un’Amministrazione efficiente, che significa anche attenta alle regole, si preoccupò dei controlli, che voleva affidati ad un giudice indipendente, La Corte dei conti. Istituzione che, a quanto pare, non piace oggi, tanto che se ne intende condizionare l’attività limitando la sua funzione di guardiano dei conti pubblici. E così la politica immagina di stabilire che chi fa danno non deve risarcire integralmente o per quanto può, come accade nel civile. In sostanza arrogandosi il diritto di rinunciare ad un credito pubblico che è dello Stato e dei cittadini che pagano imposte e tasse. Non è la destra di Cavour e neppure di Sella o di Giolitti e neppure quella (ammesso che si possa qualificare destra) del Cavaliere Benito Mussolini che della Corte dei conti ha sempre avuto grande rispetto.
Tornando alla situazione politica generale, la sinistra fa certamente bene a gioire per il successo elettorale locale ma non deve illudersi perché un conto è governare una città un altro è immaginare di governare insieme a quella galassia variopinta di difensori di realtà minime delle quali il popolo elettore non sente la necessità, come dimostra quotidianamente Marco Rizzo, a capo di Democrazia Sovrana Popolare le cui idee molto spesso condivide un liberale risorgimentale come mi onoro di essere.
Certo la confusione è tanta e giova a Giorgia Meloni che deve confrontarsi con una opposizione al momento incapace di presentarsi come una alternativa credibile. Ma attenzione, che’ la politica ci ha abituato a risultati imprevisti, come nel 2006, quando una maggioranza ragguardevole con un governo di ben altro spessore fu mandata a casa per un pugno di voti. Stavolta potrà essere il costo della vita, dalla spesa alimentare alle bollette, ai disagi nelle città che potrebbe limitare la partecipazione al voto ed erodere consensi.
Eppure non sarebbe difficile governare facendo funzionare gli apparati. Con qualche significativo intervento di semplificazione che dia agli italiani la sensazione che la vita è diventata più facile. “Conoscere per deliberare”, diceva Luigi Einaudi, ma lui studiava, molto.