di Salvatore Sfrecola
Torna nella proposta di alcuni politici l’idea di introdurre uno ius scholae, inteso come requisito per il conferimento della cittadinanza italiana a chi abbia effettuato un ciclo di studi nel nostro Paese. L’idea deve essere apparsa intelligente forse anche per l’uso del latino, che fa sempre cultura, ma denuncia, come in tanti altri casi, una estrema superficialità quanto alla conoscenza della realtà dell’ambiente nel quale maturerebbe il desiderio di ottenere la cittadinanza. Infatti, ritenere che un percorso scolastico sia requisito sufficiente per riconoscere, in capo ad un soggetto proveniente da un’altra società, un diritto alla concessione della cittadinanza italiana significa non comprendere e non avere consapevolezza del fatto che i giovani cui questa norma si applicherebbe sono condizionati nella loro vita di relazione, più che dal percorso scolastico, dalla appartenenza ad una famiglia, dalle sue tradizioni e dai suoi costumi che, soprattutto in alcuni contesti, diciamo senza mezzi termini in ambienti islamici, guida in modo molto rigido giovani e adulti, come abbiamo avuto modo di percepire quotidianamente dalle cronache.
Torno a fare un esempio, quello delle giovani che frequentavano un istituto di istruzione superiore italiano, invitate dai docenti ad alzarsi in piedi per un minuto di silenzio in ricordo delle vittime del Bataclan, discoteca parigina oggetto su un attentato che provocò morti e feriti, giovani più o meno della stessa età degli studenti di quella scuola. Ebbene, le ragazze islamiche non si sono alzate perché evidentemente, come ho scritto in altra occasione, non ritengono che quello fosse un atto terroristico, che la scuola dovrebbe insegnare a respingere. Certamente i docenti avranno individuato il carattere terroristico dell’azione, tanto da richiedere un minuto di silenzio per rispetto delle vittime, ma evidentemente l’insegnamento della famiglia e dell’ambiente ha portato le ragazze di fede islamica a non condividere quella condanna in ragione di quei valori di libertà e di rispetto per la persona che è espressione della nostra civiltà giuridica, che la scuola insegna.
Per far comprendere agli smemorati ed a quanti non sono attenti alla realtà sottostante che vorrebbero disciplinare ricordo un episodio della mia vita scolastica. Al secondo anno della Scuola media annessa al Ginnasio Liceo “Torquato Tasso” di Roma, quando mi iscrissi provenendo da un altro istituto avendo cambiato residenza, trovai una collega graziosa, molto timida, molto educata la quale proveniva dagli Stati Uniti dove era nata e dove aveva vissuto fino all’anno precedente, a New York. Tutti ci stupimmo che non sapeva una parola di inglese perché, ci spiegò, viveva in un quartiere a prevalenza italiana e aveva frequentato una scuola italiana. In famiglia parlava esclusivamente italiano.
Questi due esempi mi auguro servano a dimostrare che il desiderio che hanno alcuni partiti politici di imbarcare tanti extracomunitari, individuandoli come frequentatori di una scuola italiana, non è la strada giusta perché noi vogliamo persone che abbiano rispetto per dei valori che prima che in Costituzione sono scritti nella storia civiltà occidentale, quella civiltà giudaico-cristiana o greco-romana, come preferiamo, alla quale ci onoriamo di appartenere, che ha rispetto per tutti, anche per coloro i quali non credono in questi valori, i quali però non possono diventare cittadini, perché quello status si concede a quanti sono consapevoli delle regole della nostra democrazia. Tutti gli altri potranno studiare e lavorare in Italia, godranno del diritto alla salute, all’istruzione, allo sport anche senza avere la cittadinanza che è partecipazione alle scelte che guidano la nostra società. Del resto, abbiamo centinaia di migliaia di italiani i quali operano e lavorano all’estero, in Europa e in altri continenti ma non per questo diventano cittadini di quei paesi. Spesso perché non hanno i requisiti o non vi hanno interesse.