di Salvatore Sfrecola
Sentiremo ripetere che la separazione delle carriere dei magistrati vuole affermare l’indipendenza del giudice. Falso. L’indipendenza dei titolari delle funzioni giudicanti non è mai stata in discussione né mai limitata, neppure con riguardo alla nomina alle funzioni direttive, i Presidenti delle Corti e dei Tribunali disposte dal Consiglio Superiore della Magistratura, dove effettivamente possono avere un ruolo, nelle scelte, le correnti che favoriscono l’elezione dei componenti togati dell’organo di autogoverno della magistratura. Nomine, tuttavia, decise da maggioranze che si formano con i componenti laici del Consiglio Superiore. È bene tenerlo presente sempre, come dimostrano le polemiche seguite al “caso Palamara”.
Certo, l’idea come proposta all’opinione pubblica appare convincente. Chi accusa non può appartenere allo stesso corpo di coloro che giudicano, facendo pensare alla gente che, essendo colleghi, non si contraddicono, cosa smentita dalle statistiche che danno conto di un numero rilevante di decisioni difformi dalle richieste delle Procure della Repubblica. Un dato che viene evocato solamente quando fa comodo, ad esempio per denigrare le inchieste o per sostenere che le sentenze di assoluzione in primo grado non debbano essere impugnate. Tesi, invero, peregrina se il P.M. o il rappresentante della parte civile contestano la sentenza.
L’obiettivo vero della politica, dunque, è altro. È il Pubblico Ministero, l’organo titolare dell’azione penale la cui indipendenza, come metteva in risalto Giovanni Falcone, è importante quanto quella del giudice perché in nome della legge l’uno accusa, l’altro giudica. Per questo sono stati concepiti come appartenenti alla medesima carriera, con una medesima cultura giuridica in quanto entrambi sono portatori, in un momento diverso del processo penale, di una medesima esigenza, fare giustizia, attraverso la chiamata in giudizio del presunto responsabile o con sentenza, sempre in nome della legge, anche se le sentenze sono emanate “in nome del popolo italiano”, perché il popolo costituisce la fonte di legittimazione di tutte le funzioni statali, esercitate in suo nome dallo Stato-soggetto (art. 101 Cost.).
La politica, dunque, ha di mira il Pubblico Ministero. Non è un processo alle intenzioni. Lo hanno sempre detto tutti, sia pure con parole diverse. Ad esempio, quando si propone di eliminare la obbligatorietà dell’azione penale (art. 112, comma 1, Cost.), norma che attua il principio costituzionale di uguaglianza. Si dice, per scalfire il principio, che l’azione penale è obbligatoria a parole perché di fatto il Procuratore della Repubblica decide, in presenza di una molteplicità di notizie di reato, per quali avviare l’istruttoria. È vero, ma in presenza di un obbligo il Procuratore distratto, magari volutamente distratto, può essere richiamato all’ordine e anche sanzionato sul piano disciplinare.
La politica vuole, invece, decidere quali reati perseguire, ad esempio le truffe anziché il peculato, la corruzione o la concussione. Un esempio estremo ma che dà l’idea dell’ampia discrezionalità che si potrebbe introdurre con l’effetto che, tra gli altri, molti potrebbero rientrare nella scelta del 2025 non più in quella prevista per il 2026, con quale effetto sulla amministrazione della giustizia è facile prevedere, anche sotto il profilo della prevenzione che è uno degli effetti dell’azione giudiziaria.
Staccato dal ruolo della magistratura, nella quale si passa dalle funzioni requirenti a quelle giudicanti e viceversa con grande difficoltà e comunque cambiando distretto di Corte d’appello, oggi nella misura dello 0,2%, e attuata un’indicazione politica dei reati da perseguire sarebbe inevitabile che il Pubblico Ministero ricadesse nell’ambito del potere governativo. Del resto nel Regno d’Italia il Procuratore del Re era il rappresentante dell’amministrazione presso l’autorità giudiziaria. Che poi i procuratori fossero indipendenti era l’effetto dell’unicità della carriera che abituava il magistrato, che iniziava come pretore a tenere alla propria indipendenza. Del resto, la subordinazione al potere politico è ovunque le carriere sono separate. Nulla di nuovo, dunque, anche se quel successivo passaggio è oggi solennemente negato come obiettivo finale.
Ecco, dunque, un quadro sintetico dei problemi sullo sfondo della norma sulla separazione delle carriere, con due distinti Consigli Superiori che escludano il ruolo determinante delle scelte delle correnti (unico problema, questo, autentico) e un diverso concorso di reclutamento. Con quali caratteristiche non è detto, per continuare ad avere la cultura di un giudice o per somigliare ad un poliziotto? Una domanda lecita alla quale la politica non ha dato ancora una risposta. Neppure si trova negli scritti di chi negli anni passati aveva richiesto la separazione delle carriere, da Licio Gelli a Silvio Berlusconi.