di Salvatore Sfrecola
Se fosse vivo, Giovan Battista Vico, che nei ricordi scolastici è l’autore della teoria dei “corsi e dei ricorsi storici”, ne troverebbe probabilmente la conferma in quel progetto di riforma dell’accesso alla dirigenza pubblica nel quale ha largo spazio la “nomina”, cioè la scelta, per grazia del sovrano, il potere politico. Come accadeva, “mutatis mutandis”, quando vigeva il principio della “venalità” nell’assegnazione delle cariche pubbliche. Un po’ ovunque in Europa, in particolare tra il XIV e il XVIII secolo, specialmente in Francia e Spagna, ma anche in alcuni stati italiani. Ad esempio, il Ducato di Savoia, a lungo vassallo del Regno di Francia, che occupava aree d’oltralpe, già appartenute alla Borgogna, conosceva la “venalità” nella nomina dei funzionari, balivi e castellani. In regime di stato patrimoniale, di proprietà dei sovrani, questi si attribuivano il diritto di vendere gli uffici, per alimentare le casse dello Stato. Nasce in questo periodo un ceto burocratico, non nobile, proprietario delle cariche, con tutte le conseguenze che ci sono state tramandate, l’inefficienza, le frequenti malversazioni, la difficoltà di controllare che i titolari delle cariche non fossero inclini a curare interessi personali. Mentre nepotismo e clientelismo dilagano. Lo stesso esercito era di mercenari.
Oggi, agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e in genere alle cariche pubbliche – conquista dello stato di diritto – si accede tramite concorsi pubblici o selezioni, come previsto dalla Costituzione all’art. 97, comma 3, “salvo i casi stabiliti dalla legge”, che con molta prudenza aveva inizialmente previsto per i dirigenti nomine anche di estranei alla pubblica amministrazione nei casi nei quali sia necessaria una professionalità non presente nel ministero che provvede alla nomina. Un caso raro, in quanto la Pubblica Amministrazione dispone di ogni possibile professionalità e, all’occorrenza, chi ne fosse sprovvisto l’acquisisce in comando o distacco.
Inizialmente, ho scritto, la norma derogatoria (“salvo i casi”) aveva una logica. Poi la politica ha presto capito che avrebbe potuto nominare dirigenti fra persone fedeli, vicine al governo in carica (ricordo una intervista del Ministro Crosetto, all’indomani della formazione dell’attuale Governo, nella quale sosteneva non si dovessero confermare i funzionari scelti sulla base di una filosofia diversa, quella delle sinistre), cosa che è stata fatta ampliando progressivamente le possibilità di nomina perfino a persone della stessa amministrazione (art. 19, comma 6, del dlgs n. 165 del 2001), una evidente contraddizione rispetto ad una regola confermata (la mancanza di professionalità nell’amministrazione conferente). E così sono stati nominati anche soggetti che non avevano superato il relativo concorso.
Oggi, pudicamente coperta con riferimento ad un requisito, il “merito”, che formalmente non è mai mancato, questa possibilità di assunzioni “ad libitum” viene ampliata con evidente mortificazione delle aspettative di quanti, tra i funzionari, hanno svolto e svolgono “con disciplina ed onore” (art. 54 Cost.) il loro servizio, avendo superato un concorso con più prove, spesso difficili e con il desiderio di cimentarsi in un concorso a dirigente.
Il “merito”, dunque, che il Governo richiama come requisito oltre a non essere, come si è visto, una novità non lascia prevedere un cambio di passo se si tiene conto del ricco contenzioso che, ad esempio, ha riguardato l’Agenzia delle entrate dove non si riesce a dare attuazione neppure all’assunzione degli idonei, come affermato dalla Cassazione e dal Consiglio di Stato.
Diventare dirigenti senza superare un concorso pubblico costituisce una gravissima lesione della Costituzione ed è contrario alle pronunce dei giudici amministrativi, ancorché si provveda alla nomina attraverso un percorso interno, basato sulla valutazione della performance e dei risultati. Non è una novità e conosciamo il valore di queste selezioni. La superano soprattutto quelli che hanno il “timore della firma”, perché hanno studiato poco e fatta poca esperienza che l’attuale maggioranza premia eliminando controlli e la possibilità che siano chiamati a risarcire i danni erariali causati con “colpa grave”. Cavour si rivolta nella tomba!
Se ufficialmente l’obiettivo è premiare i migliori, nella realtà è una operazione immaginata in vista delle elezioni che rischia di smantellare le garanzie di imparzialità nelle nomine, che il concorso assicura, istituzionalizzando un sistema basato sulla cooptazione più che sulla competenza oggettiva. Anziché una riforma meritocratica, si profila un meccanismo perfetto per promuovere i fedelissimi. Individuati da una “relazione dettagliata, sottoscritta dal dirigente sovraordinato al candidato”. In un colpo solo, il futuro di un funzionario viene messo nelle mani del suo capo diretto. Chi si rivelerà poco incline al conformismo o in disaccordo con le linee del suo superiore segnerà il passo e si vedrà superato da un funzionario meno brillante ma fedele e servizievole.
Il “merito” che verrà premiato, dunque, rischia di essere quello della fedeltà al superiore e alla sua “filosofia” politica e non renderà un buon servizio ai cittadini ed alla stessa classe politica e di governo. Che, come al solito, non riesce a guardare lontano, “alle prossime generazioni”, come suggeriva De Gasperi. Perché guarda solamente alle prossime elezioni.
Questa riforma, mascherata con parole nobili, “merito”, “performance” e “valutazione”, sostituisce la certezza oggettiva del concorso con l’incertezza soggettiva di valutazioni gerarchiche e commissioni “indipendenti”.
Anziché attrarre i migliori, rischia di promuovere i più fedeli.