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Gennaio 2008

NO, Napolitano non doveva farlo!
di Senator

Stavolta, caro direttore, non sono daccordo! Hai avuto un eccesso di prudenza e, forse, di deferenza istituzionale nei confronti del Presidente della Repubblica.
Il fatto è che Napolitano di fronte all’accertata dissoluzione della maggioranza parlamentare del 2006 avrebbe dovuto semplicemente prenderne atto e sciogliere le Camere, senza indugi, senza il passaggio Marini destinato a sicuro fallimento.
E’ vero quello che dici, anche se non insisti sull’argomento. Con Marini, governo del Presidente, cioè privo di una maggioranza precostituita, eventualmente battuto alle Camere Napolitano fa un grosso favore alla Sinistra perché allontana dagli occhi degli italiani l’immagine deleteria del Governo Prodi, certamente il peggiore della storia della Repubblica. Irresoluto sulle questioni importanti, preoccupato solo di collocare a destra e a manca amici fidati il Presidente del Consiglio ha offerto quotidianamente argomenti all’opposizione. Che non ha saputo coglierli, come hanno scritto in molti, da Galli della Loggia ad Angelo Panebianco, dimostrando di non aver imparato nulla dalla sconfitta del 2006 e di non aver saputo costruire il ruolo altissimo in un paese democratico dell’opposizione. Nonostante questa palese inconsistenza programmatica ed operativa il Centrodestra vincerà alla grande le prossime elezioni, anche se non avrà dimostrato agli italiani di essere in condizioni di governare. Infatti, come abbiamo scritto, non ha preparato nei quasi due anni di opposizione un credibile “governo ombra”. Vincerà lo stesso. Ma se avremo un governo Marini, cosa della quale non sono ancora convinto, avrà meno consensi di quanti ne avrebbe avuti se avessimo mantenuto il Governo Prodi. Questo Veltroni lo ha capito. Lo si è letto sul suo volto allucinato all’uscita dal Quirinale, lo si è capito dal discorso-appello fatto davanti alle telecamere per sostenere che gli italiani vogliono attendere ancora prima di andare al voto. Un tentativo in extremis di salvare il salvabile e di salvarsi lui stesso. Napolitano lo ha aiutato ed ha aiutato la Sinistra. Ma non è detto che Marini stia al gioco.
31 gennaio 2008

Napolitano doveva farlo!
di Salvatore Sfrecola

Sbaglia Mario Giordano, intelligente ed acuto direttore de Il Giornale quando, immaginando di confrontarsi con un amico proveniente dall’Australia, ritiene che si stupisca dell’incarico che il Presidente della Repubblica ha conferito a Franco Marini, Presidente del Senato, per un governo con finalità limitate e, quindi, a tempo. Sbaglia perché il Capo dello Stato non avrebbe potuto agire diversamente. Di fronte ad una crisi di governo aperta in Parlamento non avrebbe potuto reincaricare Prodi neppure al limitato fine di andare subito ad elezioni anticipate. Avrebbe potuto, è vero, sciogliere immediatamente le Camere avendo accertato nel corso delle consultazioni che non vi è più la maggioranza che ha vinto le elezioni del 2006. Ma ha voluto essere prudente. E con l’incarico alla seconda carica dello Stato il Presidente della Repubblica ha inteso accertare definitivamente quali siano le aspettative dei partiti rispetto ad un passaggio essenziale da tutti affrontato, anche se a mio avviso con l’intento di non risolverlo, come la riforma della legge elettorale. Visto, aggiungiamo, che comunque andiamo al voto Marini con ogni probabilità non riuscirà nell’intento. Il Centrodestra è all’unisono contrario, a Sinistra vi sono significativi distinguo. Non vi è una maggioranza per riformare la legge elettorale. E ciò individua la condizione politica e giuridica per sciogliere correttamente le Camere dopo un tentativo, quello di Marini, appunto. Anche per raffreddare gli animi. E’ vero che in tal modo Napolitano in fin dei conti gioverà alla Sinistra se si andrà al voto senza l’immagine negativa del fallimentare governo Prodi. Che Berlusconi avrebbe voluto avere come interlocutore per fare il pieno di voti. Marini, tuttavia, non riuscirà a far dimenticare Prodi, il suo governo e la sua politica: Andiamo, dunque, al voto. Probabilmente con un esecutivo Marini battuto alle Camere, una scelta costituzionalmente corretta che sottolinea il profilo istituzionale e lo spirito di servizio del Presidente del Senato.
31 gennaio 2008

Una strada in salita per l’alpino Marini!
di Senator

Il Presidente Napolitano ha detto di aver fatto affidamento sul suo senso di responsabilità. E in effetti Franco Marini, uomo equilibrato e tenace tessitore, è la scelta giusta per un tentativo in extremis di chiudere la crisi di governo, riformare la legge elettorale, evitare il referendum ed andare alle elezioni. Non è poco. E considerato che, come ha detto il Presidente della Repubblica, il governo dovrà anche affrontare alcune questioni urgenti, economiche e sociali. Le difficoltà delle famiglie, lo smaltimento dei rifiuti in Campania.
Un compito impegnativo, che non preoccuperebbe Marini, se fosse semplice costruire una maggioranza, magari limitata ma coesa.
Un compito pressoché impossibile perché quegli stessi obiettivi indicati da Napolitano a Marini erano presenti a Prodi che non è riuscito a risolverne uno solo.
Soprattutto appare arduo trovare un’intesa condivisa sulla legge elettorale, tenuto conto dei diversi interessi in campo e del fatto che, in fin dei conti, come ha scritto ieri il nostro Direttore, questa legge piace a tutti, perché assicura omogeneità alle varie compagini parlamentari costruite dei segretari dei partiti a tavolino, con rigida individuazione dei fedelissimi.
Quindi è probabile che Marini abbia difficoltà a mettere insieme una maggioranza anche per pochi mesi. Lo vuole ardentemente Veltroni, che misura ogni giorno le difficoltà della sua leadership, compressa tra le pressioni dei cattolici, che lamentano una scarsa visibilità, e l’aggressivo attivismo della Sinistra radicale che pensa di trarre vantaggio dalle difficoltà del PD pescando tra i dissenzienti e i delusi. A Ballarò Diliberto ha letteralmente aggredito Anna Finocchiaro con contestazioni a tutto campo, dalla mancata approvazione di una nuova legge sul conflitto di interessi al modesto impegno sociale.
Il volto paonazzo di Veltroni all’uscita dal Quirinale è stato un libro aperto sulla prevedibile disfatta elettorale e sul suo personale ridimensionamento da parte di D’Alema e Fassino.
E’ probabile, dunque, che, con nobilissime giustificazioni, pezzi della maggioranza del 2006 non daranno alcun appoggio a Marini o lo faranno cadere alla prima occasione. In fin dei conti a Diliberto e Bertinotti, duri e puri, non interessa un governo che rinvii le elezioni di qualche mese per consentire a Veltroni di repirare. Anche loro, come Berlusconi, hanno interesse ad elezioni a breve. Sono certi di erodere i consensi sui quali oggi può contare Veltroni.
E questo rende difficile la vita dei teodem del Partito Democratico. Alcune candidature sono a rischio. Quella della Binetti, ad esempio, ai quali molti l’hanno giurata dopo la vicenda della norma sull’omofobia. Non che la senatrice rischi di non essere ricandidata, ma è probabile che, se non torneranno le preferenze, le sia riservata una posizione precaria nella lista. In vista di una probabile sconfitta elettorale, diminuendo i seggi la conquista dei posti in lista e la loro sequenza saranno oggetto di contese feroci. Che lasceranno un segno in un contesto già fortemente disarticolato.
Una cosa è certa. Prima si vota e meglio è per l’Italia.
30 gennaio 2008

Sempre più probabile il voto ad aprile
di Salvatore Sfrecola

“Poiché non sono maturate le disponibilità necessarie” per un esecutivo di pacificazione, “tanto vale non perdere ulteriore tempo e andare verso elezioni anticipate”. Da Gerusalemme Pier Ferdinando Casini rompe gli indugi e getta sulla bilancia del dibattito la richiesta di elezioni subito, sulla linea del Cavaliere. E’ quanto dice Cesa, Segretario UDC, all’ADNKRONOS: “prendiamo atto che non ci sono le condizioni politiche per dar vita ad un governo di larghe intese per la riforma elettorale. A questo punto bisogna andare al voto quanto prima”.
Rimane dunque isolato Valter Veltroni che chiede un governo per pochi mesi, quelli necessari per contenere la sconfitta che appare ormai inevitabile. Il fatto è che per una nuova legge elettorale non ci sono i tempi. Ma soprattutto non c’è la volontà, al di là delle affermazioni di principio sul diritto dei cittadini alla scelta del candidato, leit motiv delle critiche al porcellum da quando è stato varato.
Il fatto è che questa legge non piace solo a Berlusconi. Con il voto senza preferenza i segretari dei partito ed i capicorrente hanno un potere mai visto altrove. Un pugno di politici decide sulla formazione del Parlamento. Perché dovrebbero abbandonare questo potere? E poi c’è lo spettro del referendum che i piccoli partiti vogliono assolutamente evitare.
La scelta di votare subito prevale, dunque, sull’originaria idea di Berlusconi di attendere qualche mese per far coincidere i tempi della nuova legislatura con le regole costituzionali sull’elezione del Capo dello Stato il cui mandato scade il 10 maggio 2013. D’altra parte il Cavaliere immagina una grande vittoria e ritiene stavolta di poter vincere anche le elezioni del 2013. E così salire al Quirinale.
La condizione è una sola: un governo che governi, non la fotocopia di quello che tra il 2001 e il 2006 ha fortemente deluso quanti avevano votato con entusiasmo la coalizione di Centrodestra.
Berlusconi ha fatto sapere di aver fatto tesoro degli errori commessi nella scelta dei programmi e degli uomini.
Lo attendiamo alla prova dei fatti.
29 gennaio 2008

Ieri sera per iniziativa della Fondazione Roma Europea
Mario Segni al Caffè Greco: speranze e preoccupazioni

di Salvatore Sfrecola

Analisi impietosa dell’attuale degrado della politica, tra incapacità di percepire le esigenze della società e occupazione forsennata del potere, con inevitabile degrado anche sul piano della illiceità penale dei comportanti dei singoli, ma fiducia nella possibilità che l’azione referendaria possa indirizzare anche il nostro Paese verso quel bipartitismo che caratterizza da tempo le più efficienti democrazie occidentali.
Ma anche una buona dose di pessimismo nelle parole di Mario Segni, storico leader referendario, introdotto dal Prof. Natalino Irti, Presidente della Fondazione Roma Europea, di fronte ad un parterre di docenti universitari, magistrati, politici. Pessimismo perché la classe politica difficilmente potrebbe riformare se stessa e perdere quelle posizioni di preminenza nella gestione del potere e dell’economia che si è conquistata nella logica spartitoria che ormai domina da anni.
Segni ha ricostruito le vicende referendarie dai primi anni ’90 sottolineando il ruolo che esse hanno avuto nell’evoluzione del costume politico e nella gestione del potere, come dimostrano le norme che prevedono l’elezione diretta di Presidenti delle Regioni, Sindaci e Presidenti delle province. Tuttavia non è sufficiente. Occorre una revisione della legge elettorale che restituisca al cittadino il ruolo proprio di decisore in ordine alla elezione dei propri rappresentanti.
Nel dibattito vivace che ne è seguito sono intervenuti il Prof. Lipari, il Presidente di Sezione del Consiglio di Stato Giuseppe Faberi, il Prof. Andrea Bollino, il Prof. Fiori, l’Avvocato dello Stato Paola Maria Zerman.
Anch’io ho preso la parola per richiamare l’attenzione sulla circostanza che la sola modifica della legge elettorale non è sufficiente a semplificare il quadro politico, fin quando non saranno riviste le norme sul rimborso delle spese elettorali e sul finanziamento della stampa di partito che favoriscono la moltiplicazione delle formazioni politiche in tal modo finanziate. Inoltre una convergenza forzata sotto un’unica bandiera di più forze politiche potrebbe avere come risultato la creazione di correnti forti che in ogni caso determinerebbero una difficoltà decisionale nelle formazioni così articolate, come dimostra l’esperienza della Democrazia Cristiana in alcuni momenti della vita politica italiana.
Il Prof. Lipari ha evocato un’inimmaginabile “rivolta” degli elettori, ove continuassero ad essere ancora privati del diritto di scegliere il candidato. Ed ha indicato come rimedio alla frammentazione dei gruppi la riforma dei regolamenti parlamentari. Il Presidente Faberi ha fatto considerazioni di carattere storico sull’evoluzione delle istituzioni rappresentative repubblicane, mentre il Prof. Fabbri si è diffuso sulle difficoltà che il Paese incontra per effetto del grave divario economico e sociale tra Nord e Sud.
Paola Maria Zerman ha chiesto all’on. Segni quale potrebbe essere il ruolo del Centro in Italia, considerato che, a suo avviso, vi è una rilevante aspettativa in tale senso.
Come sempre al termine del dibattito è seguita la cena nel corso della quale tutti glia argomenti affrontati sono stati oggetto di ulteriori riflessioni.
Torno su alcune mie considerazioni e sul pessimismo che anch’io condivido. La difficoltà che incontra oggi la politica è quella di una riforma che non può evidentemente venire dall’interno del sistema. Quel che oggi condanniamo è gradito ai partiti. Come la legge elettorale che mette in mano a pochi dirigenti di partito la “nomina”, camuffata da elezione, di 630 deputati e 315 senatori, oltre alla spartizione di posti di governo e di sottogoverno destinati a favorire scelte economiche rilevanti di interesse per imprenditori e amici.
L’on. Segni ha ricordato le analisi lucidissime di Maurice Duverger, il politologo e giurista francese al quale si deve la teorizzazione dell’elezione a suffragio universale e diretto del Presidente del Consiglio dei ministri formulata durante la Quarta Repubblica francese, come antidoto alla patologica instabilità dei governi.
Ma la Francia aveva una personalità di indiscussa autorità, al di là dei partiti, il Generale De Gaulle.
Purtroppo nel nostro Paese, terra di santi, poeti e condottieri non è riconoscibile oggi una personalità al di sopra delle parti che abbia l’autorità morale e civile per essere punto di riferimento di una riforma che freni le fameliche ambizioni dei partiti.
29 gennaio 2008

Le parti in commedia; Berlusconi, D’Alema, Veltroni, Prodi….
di Salvatore Sfrecola

I giornali di oggi si affannano a fare ipotesi: governo istituzionale, tecnico, “di tregua” o di “decantazione” (come se in giro ci fosse del buon vino!), reincarico a Prodi con un nuovo governo per andare alle elezioni in autunno.
Ipotesi in parte fantasiose, non ragionate, a volte formulate come pio desiderio di chi scrive o l’ispira.
Vediamo di capirci qualcosa, riprendendo delle considerazioni già fatte nei giorni scorsi.
Berlusconi vuole le elezioni subito. O, almeno, dice di volerle. Non è vero, non può essere vero. Il Cavaliere sa che se la prossima legislatura non terrà conto dei tempi previsti dalla Costituzione (art. 82) per l’elezione del Capo dello Stato, nel 2013 non potrà candidarsi. Napolitano conclude il suo mandato il 10 maggio 2013. Se a quella data mancano meno di tre mesi alla fine della legislatura saranno le nuove camere ad eleggere il Presidente della Repubblica. I conti sono presto fatti. Le nuove Camere si devono insediare dopo il 10 maggio di quest’anno. Quindi si può votare da maggio – giugno in poi.
Berlusconi vuole le elezioni subito perché immagina di trarre un rilevante vantaggio dal discredito che ha colpito la Sinistra a seguito dei risultati deludenti del governo Prodi. Veltroni e D’Alema ne sono consapevoli per cui sperano che un governo di transizione, che magari dia respiro all’economia e, comunque, allontani l’immagine negativa del governo che ha espresso limiterebbe la sconfitta.
Berlusconi pertanto non vuole un governo di transizione, neppure per fare la legge elettorale. E’ vero che se fosse un governo che vedesse impegnati alcuni “tecnici” di area di Centrodestra potrebbe trarne qualche vantaggio, far vedere che i suoi sono in condizione di governare meglio di quanto abbia fatto il suo governo nel quinquennio 2001-2006. Ma queste considerazioni non credo convincano il Cavaliere che ha un’idea tutta sua della politica e dei rapporti con la governabilità.
Il gioco degli interessi non si esaurisce qui. Perché ci sono i peones che temono la conclusione della legislatura prima di maturare la pensione. Sono soprattutto i neoparlamentari. La cosa non interessa chi ha alle spalle altre legislature o ha una ragionevole certezza di essere rieletto, soprattutto se non sarà modificata la legge elettorale che mette in mano ai partiti in pratica l’elezione dei singoli. Molti temono il ripristino delle preferenze per cui è meglio portare a casa la pensione.
In questo gioco di interessi non sempre nobili, nel balletto delle dichiarazioni e delle intenzioni vere Casini può avere la sponda della Sinistra e dei piccoli partiti, nella prospettiva di una federazione di centro, cui lavorano un po’ tutti gli ex democristiani. Torna in gioco anche un big della prima Repubblica, quel Gianni Prandini, uno dei migliori cervelli della DC, grande organizzatore, ottimo Ministro, uscito indenne (assolto perché il fatto non sussiste) da una vicenda di appalti ANAS, quando era Ministro dei lavori pubblici. La federazione di centro cui lavorano anche Baccini e Tabacci costituirebbe un terzo polo di significativa consistenza. Ai margini rimane AN di cui Fini non ha saputo fare il socio fondatore del Partito delle libertà, per cui si accoda ora al Cavaliere dopo una sfuriata della quale nessuno ha percepito l’utilità politica. La Lega è un fenomeno localistico, che raccoglie differente e spurie sollecitazioni ideologiche filtrate dalla circostanza di essere nati o risiedere nel lombardo veneto dell’Imperial Regio Governo.
Con questo quadro, se ci sarà un reincarico a Prodi con una diversa formazione, soluzione che il Presidente Napolitano potrebbe essere indotto ad adottare per un formale rispetto dell’esito elettorale del 2006, Berlusconi ne avrebbe tutti i vantaggio che si sono detti, primo fra tutti quello di rientrare nei “tempi” dell’elezione del nuovo capo dello Stato, nel 2013.
Vedremo cosa porteranno la riflessione del fine settimana e le consultazioni che riprendono domani.
27 gennaio 2008

Mancino (Vicepresidente del CSM) e Scotti (Sottosegretario alla giustizia) “esternano” sul caso Mastella – Lonardo: inconcepibile caduta di stile
di Salvatore Sfrecola

Mi hanno lasciato perplesso, molto perplesso, le dichiarazioni dell’On. Mancino, Vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura, il quale, in margine alla cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario della Corte d’appello di Napoli, ha dato un giudizio severo sulla misura degli arresti domiciliari disposta dai magistrati di Santa Maria Capua Vetere nei confronti di Sandra Lonardo Mastella, moglie dell’ex Guardasigilli dimessosi proprio a seguito di quell’inchiesta: “Personalmente – ha affermato Mancino – ritengo che non ci fossero quelle condizioni che legittimano la custodia cautelare”. Sulla stessa linea l’intervento, sempre a Napoli, del Sottosegretario alla Giustizia, Luigi Scotti, ex presidente del Tribunale di Roma: l’arresto della moglie di Mastella -dice- è “inconcepibile”.
Non entro nel merito della vicenda. Può darsi che Mancino e Scotti, che certamente hanno elementi maggiori di quelli acquisiti dalla stampa, abbiano pienamente ragione nel criticare severamente l’operato dei giudici. Ma essi non possono fare dichiarazioni “personali”, come privati cittadini. Essi, infatti, non sono privati cittadini, ricoprono cariche istituzionali rilevanti. Mancino, addirittura, quella di Vicepresidente dell’organo di autogoverno della Magistratura. Scotti, ex magistrato, è Sottosegretario alla giustizia.
Ad essi si richiede un riserbo che è misura di uno stile istituzionale che evidentemente è andato perduto nel degrado del costume che caratterizza questa stagione della Repubblica.
I coniugi Mastella hanno i loro avvocati ai quali è consentita ogni valutazione sull’operato dei giudici, anche la più critica. Hanno avuto la solidarietà personale e politica dei colleghi parlamentari.
Chi rappresenta le istituzioni mantenga il riserbo e l’equilibrio che dia pubblicamente conto del necessario equilibrio nell’esercizio delle delicatissime funzioni. Certe esternazioni costituiscono un vulnus all’immagine della stessa istituzione.
Un po’ di stile, perbacco! Imparate dal Senatore Giulio Andreotti, che ha stretto la mano al suo accusatore, in aula, davanti alle telecamere, nonostante l’immaginabile grandissima amarezza per le pesantissime accuse.
26 gennaio 2008

Caro Cavaliere, non basta vincere le elezioni
di Salvatore Sfrecola

Le vicende politiche dell’ultimo decennio dimostrano che le coalizioni contrapposte, una volta vinte le elezioni trovano difficoltà a governare. E’ stato così per il Centrodestra che dal 2001 al 2006, con la maggioranza più ampia della storia italiana, del Regno e della Repubblica come insisto a ripetere, ha profondamente deluso. E’ stato così per i governi di Centrosinistra, dal 1996 al 2001 (ben tre) e, poi, dal 2006 all’altro ieri.
Il fatto è che le coalizioni sono o troppo disomogenee e litigiose (quella di Centrosinistra) o litigiose e basta (quella di Centrodestra). Affette dal morbo dell’iperpartitismo, sindrome non tanto ideologica quanto lobbistica, alla continua ricerca di piazzare nei posti che contano persone di provata fedeltà. Che poi siano professionalmente adatte alla funzione non è importante. Conta, invece, che “rappresentino” il partito e le esigenze del partito. Che siano capaci, a loro volta, di assicurare occupazione a parenti, amici, amanti, famigli. E garantire, nell’assegnazione di appalti di lavori e forniture, una certa “attenzione” per ditte amiche.
E’ chiaro che questo modo di intendere e gestire il potere consuma rapidamente i consensi che l’opinione pubblica ha riservato alla coalizione. E si sviluppa una diffusa delusione, quella che ha accompagnato il Centrodestra dall’11 giugno 2001 all’esito finale. Che non è stato tragico solo per il titanico impegno di Berlusconi, quando Fini e Casini davano per persa la battaglia già un anno e passa prima delle elezioni del 2006.
Impegnati a favorire consulenze il più delle volte inutili, e pertanto finite sotto la lente d’ingrandimento della Corte dei conti che ha condannato ripetutamente ministri, sindaci ed assessori a risarcire il danno così prodotto all’Erario, ed a “pilotare” appalti, i politici preposti ai vari apparati di governo, al centro, nelle regioni e nei comuni, non si sono preoccupati di riformare l’apparato amministrativo, adeguandone le capacità di azione alle politiche pubbliche che pure formano parte essenziale dell’indirizzo politico approvato dagli elettori e convalidato dal voto delle assemblee elettive.
E’ questa la più grande mancanza dei governi dell’ultimo decennio, che getta un’ombra sinistra sulla capacità della classe politica, la quale, al di là dei proclami tronfi che hanno seccato profondamente gli italiani, non è stata capace di perseguire gli obiettivi programmatici con coerenza. Il che significa, come accennato, disporre di una classe burocratica efficiente alla quale vengono messe in mano norme idonee alla bisogna.
Nulla di questo ha saputo fare il Governo Berlusconi, che ha praticamente abbandonato al suo destino la Pubblica Amministrazione, forse per difficoltà di carattere culturale, indotte da una sorta di mitizzazione dell’iniziativa privata. Senza pensare che le amministrazioni pubbliche devono essere messe in grado, nella visione globale, loro propria, degli interessi della comunità nazionale, di favorire lo sviluppo dell’economia e, quindi, delle imprese, che sono ricchezza del Paese e risorse per le famiglie.
Nulla ha saputo fare il Centrosinistra, nelle sue varie versioni, per restituire efficienza all’apparato. Il Governo Prodi aveva solo un Ministro con fantasia ed iniziativa, l’on. Bersani, ma è stato lasciato solo di fronte all’aggressione di lobby ottusamente chiuse.
Ma non è solo colpa dei politici. Anche gli staff tecnici, con poche eccezioni, sono state con Berlusconi e Prodi (basti pensare alle vicende Speciale e Petroni, per non fare che due esempi noti a tutti) incapaci di gestire l’ordinaria amministrazione. Eppure i Ministri schieravano personaggi dai curricula imponenti, ma spesso incapaci di quell’autonomia di pensiero che ne fa collaboratori e non scriba senz’anima, yes men inutili e più spesso dannosi.
Si ricordi il Cavaliere di queste considerazioni mosse da esperienza e buon senso. E soprattutto da amore per l’Italia. Altrimenti la sua nuova avventura a Palazzo Chigi sarà ancora “Un’occasione mancata”, quanto meno per gli italiani.
E mi consenta, prendo a prestito un’espressione divenuta di uso comune, di consigliargli la lettura di quel mio libretto (appunto, Un’occasione mancata, editore Nuove Idee) che ha fatto dire al Senatore Francesco Storace “adesso ho capito perché abbiamo perduto per 24 mila voti quando avremmo potuto vincere per due milioni!” E continua ad essere richiesto in libreria per l’attualità delle riflessioni indotte dall’esperienza di cinque anni a Palazzo Chigi a capo di un osservatorio prezioso, com’è il Gabinetto del Vice Presidente del Consiglio.
26 gennaio 2008

Uno spettacolo indecente!
di Senator

Neppure la diretta TV, che gli italiani hanno imparato a seguire sullo schermo dei computers collegandosi con il sito del Senato, ha dissuaso gli attori della giornata di ieri da atteggiamenti che hanno provocato il disgusto degli italiani. Si comincia dal Presidente del Consiglio e dai ministri che sghignazzano e telefonano mentre colleghi della maggioranza e dell’opposizione fanno il loro intervento. Per non dire dell’ignobile gazzarra e gli insulti che hanno accompagnato il passaggio del senatore Cusumano tra le file prodiane. Né meno fastidio, per chi crede nelle istituzioni, è venuto dai festeggiamenti con champagne e mortadella, seguito alla lettura dei risultati della votazione.
Prescindendo da elementari regole di buona educazione che impongono al Presidente ed ai Ministri di ascoltare chi parla, anche e soprattutto se non ne condividono le idee, gli italiani si saranno chiesti cosa avesse da ridere Romano Prodi, capo del Governo di un Paese che, a tacer d’altro, è “sfilacciato”, per usare le parole benevole del Cardinal Bagnasco, o allo sbando secondo il Financial Times. Un Paese che ha dato dal mondo l’immagine della sporcizia, con le migliaia di tonnellate di rifiuti sulle strade di Napoli e della Campania. Una situazione che ha preoccupato gli operatori turistici che minacciano azioni di danno e spinto una regione, il Veneto, a programmare una campagna pubblicitaria sui giornali tedeschi per dire più o meno “non siamo napoletani”.
L’unità nazionale affondata dalla “monnezza”!
Ma cosa avrà avuto da ridere Romano Prodi?
Con la sua testardaggine, ignorando un sapiente consiglio che sarebbe venuto dal Quirinale, e che forse gli avrebbe consentito un reincarico con rimpasto (fuori Pecoraro Scanio, ad esempio!), ha voluto sfidare la sorte. Ed ha perso, uscendo definitivamente di scena.
Una scena che non avrebbe mai dovuto calcare per l’evidente inconsistenza politica del personaggio, costruito a tavolino quale specchietto per le allodole, i moderati di centro che non avrebbero mai potuto votare una coalizione capitanata da un DS.
Si volta pagina. Iniziano le consultazioni. Il Capo dello Stato ha sufficiente autorità e buon senso per trovare una soluzione che dia al Paese un governo di “decantazione”, che restituisca serenità agli italiani disgustati da quel che è successo ieri e, in genere, da una classe politica che a dir poco è modesta, anzi modestissima.
25 gennaio 2008

Governo Prodi: ma forse non cade!
di Senator

Cade, non cade, forse cade. Ma potrebbe anche passare il voto parlamentare. Il Governo Prodi, forte della sua debolezza, avrà certamente la fiducia della Camera, dove la maggioranza sopravvive alla defezione dell’UDEUR di Mastella, ma potrebbe anche scamparla al Senato, nonostante il numero dei voti favorevoli sia incerto.
Per motivi “politici” non sempre nobilissimi. Innanzitutto, per non essere ancora trascorso il tempo che assicura il diritto alla pensione ai neoparlamentari. Inoltre, il ricorso anticipato alle urne, ove avvenisse in primavera, determinerebbe una durata della prossima legislatura incompatibile con le aspirazioni di Berlusconi a diventare Presidente della Repubblica. Napolitano, infatti, è stato eletto il 10 maggio 2006 ed ha giurato il 15. Dura in carica 7 anni, fino al 10 maggio 2013. Trenta giorni prima che scada il termine il Presidente della Camera dei deputati convoca in seduta comune il Parlamento e i delegati regionali per eleggere il nuovo Presidente (art. 85, comma 2, Cost.). “Se le Camera sono sciolte, si legge al terzo comma dello stesso articolo 85, o manca meno di tre mesi alla loro cessazione la elezione ha luogo entro quindici giorni dalla riunione delle Camere nuove”.
Quindi, se si votasse in primavera il Presidente della Repubblica sarebbe eletto dalle Camere successive dove Berlusconi non è sicuro di ottenere la stessa maggioranza che si attende da un’elezione in tempi brevi, ma compatibili con la sua ambizione.
Il Cavaliere, pertanto, ad onta dei proclami guerreschi quasi quotidiani, e, per la verità, un po’ imprudenti, non farà cadere il Governo e, se questo dovesse cadere, non spingerà per elezioni immediate.
Dice che non lo vuole, ma potrebbe accettare un governo di “transizione”, che faccia la legge elettorale e tranquillizzi i piccoli, che sono anche a Destra.
Certo, è meglio andare a votare sull’onda del malcontento che il Governo Prodi ha saputo equamente, questo sì, distribuire tra le varie categorie. Ma anche un governo formato di personalità “tecniche” di entrambi gli schieramenti, in fin dei conti, sarebbe la certificazione che la maggioranza di centrosinistra si è dissolta per le contraddizioni interne alla coalizione e le incertezze che ha riversato sul governo.
E quindi il Cavaliere può ben attendere. Inoltre se sarà capace di inserire nel governo “tecnico” personalità “di area” che dimostrino di saper governare, anche per pochi mesi, ne trarrebbe sicuramente un vantaggio.
Ma saprà farlo. O ricorrerà, come nel suo precedente governo, sempre ai soliti amici, amici degli amici, compagni di scuola e di svaghi, yes man inutili quanto dannosi che tanto gli piacciono?
23 gennaio 2008

200 mila e più in Piazza San Pietro per dire che “Il sonno della ragione genera mostri”
di Salvatore Sfrecola

Come si è letto su uno striscione della Gioventù studentesca di Catania. In una mattinata di solidarietà a Papa Benedetto XVI, offeso, insieme a tutti gli uomini di cultura e di buona volontà, dalla becera presa di posizione di uno sparuto ma chiassoso gruppuscolo di intolleranti che gli hanno impedito di parlare di fede e ragione, in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università di Roma “La Sapienza”. Spalleggiati da Eugenio Scalfari, che su La Repubblica ha parlato di “palese inconsistenza politica e culturale di papa Ratzinger”, questi signori hanno offeso l’intelligenza dell’Italia laica, quella che, come ha detto Massimo D’Alema, non prende volentieri secchiate di fango in faccia. “La straordinaria partecipazione di popolo a piazza San Pietro dimostra quanto l’intolleranza non paghi”, ha detto Lorenzo Cesa, interpretando il pensiero dei molti politici di Destra e di Sinistra, cattolici o semplicemente “liberali”, attenti a non passare inosservati tra la folla. Dispensano saluti, stringono mani, fanno dichiarazioni, spesso di una banalità imbarazzante. Capisco che non c’è molto di più da dire, se non della solidarietà al Papa nel rispetto della pluralità della cultura. Ma nessuno giunge all’inconsistenza di Romano Prodi, per il quale l’aver impedito al Papa di parlare all’Università di Roma non è stato “un episodio positivo”. Un esprimersi tipico del “politichese” nostrano, che “media” anche sui principi, anche su quelli “non negoziabili”, come si usa dire, per significare che sono alla base della nostra civiltà. Anche Francesco Rutelli (Pd) brilla per inconsistenza: “Oggi c’é stato un gesto di riconciliazione, di affetto e di amicizia dei romani verso il Pontefice”. Ma perché i romani avrebbero dovuto riconciliarsi con il Papa? Per i 67 “chiarissimi professori” della facoltà di fisica e quattro studenti quattro? Per fortuna prende la parola il Papa. Dopo la preghiera dell’Angelus ricorda la vicenda del “cortese invito” a visitare la Sapienza e il “clima che si è creato” e che “purtroppo ha reso inopportuna – dice – la mia presenza alla cerimonia”. “Ho soprasseduto mio malgrado”, sottolinea, ricordando che ha comunque mandato il testo del discorso che avrebbe pronunciato e spiegando che “all’ambiente universitario, che per lunghi anni è stato il mio mondo, mi legano l’amore per la ricerca della verità, per il confronto, per il dialogo franco e rispettoso delle reciproche posizioni”. Aggiunge: “Come professore, per così dire emerito che ha incontrato tanti studenti nella sua vita, vi incoraggio tutti, cari universitari, ad essere sempre rispettosi delle opinioni altrui e a ricercare, con spirito libero e responsabile, la verità e il bene”. Con grande serenità e consapevolezza culturale. Capisco perché contro di lui è stato esumato l’anticlericalismo più becero!
20 gennaio 2008

Ai magistrati si chiede equilibrio, ai politici “anche” senso dello Stato!
di Salvatore Sfrecola

Da magistrato, ho sempre ritenuto che il primo requisito di chi svolge funzioni giudicanti e requirenti debba essere innanzitutto l’equilibrio. Dato per presupposto che debba conoscere il diritto e la lingua italiana, che ha fatto cadere più d’uno e in un recente concorso per l’accesso alla magistratura, il Giudice ed il Pubblico Ministero magistrato debbono esercitare la loro funzione, essenziale per il buon funzionamento delle istituzioni e per la pace sociale, con grande equilibrio, cioè devono avere la capacità di valutare i fatti e le condotte che vengono al loro esame con una corretta applicazione delle norme penali civili ed amministrative che costituiscono il parametro di riferimento dei loro giudizi. Questo equilibrio deve essere anche percepito dall’opinione pubblica. Non perché il magistrato si debba preoccupare di quel che pensa la gente, ma è necessario che la sua azione sia compresa e il cittadino riconosca che con essa egli concorre all’esercizio del potere dello Stato, sia esso punitivo, come nel caso del processo penale, sia esso idoneo a tutelare i diritti dei singoli, come nel processo civile, o gli interessi pubblici, come accade nel processo amministrativo ed in quello di responsabilità amministrativa e contabile. Intendo dire che nella società di oggi la giustizia, amministrata “in nome del popolo italiano”, secondo l’articolo 101 della Costituzione, dev’essere capita dal popolo italiano e non deve apparire inutilmente formalistica e mai e poi mai ispirata da motivi politici. In questo equilibrio sta all’autorevolezza della magistratura. Un’autorevolezza che è garanzia di pace sociale. Purtroppo accade talvolta che la gente percepisca, magari per carenza di informazione sulla realtà dei fatti, che qualche magistrato, soprattutto di quelli cui è affidata l’azione pubblica penale o di responsabilità amministrativa, nell’esercizio della sua discrezionalità abbia privilegiato fatti o persone. Non è importante che sia vera questa sensazione, ma il fatto stesso che si possa ragionevolmente ritenere che il magistrato non è stato obiettivo ne lede l’autorevolezza personale e, insieme, quella dell’ordine giudiziario. Sono sensazioni spontanee di fronte allo sfascio delle istituzioni che è sotto gli occhi di tutti, di fronte all’aggressione impunita nei confronti dello Stato, ai suoi diritti ed ai suoi interessi, anche a quelli economici e finanziari. Se si considera che parti importanti del Paese sono sotto il controllo della malavita organizzata e che fenomeni di malcostume e di degrado rimangono impuniti, con grande danno all’immagine ed al prestigio dell’amministrazione e dell’Italia all’interno e sul piano internazionale. Con la duplice conseguenza, di incentivare comportamenti in violazione della legge per i quali appare limitatissimo il rischio della sanzione, e di rappresentare sul piano delle informazioni internazionali l’Italia come un paese insicuro, dove non conviene investire né trascorrere le vacanze, con pregiudizio gravissimo per le imprese di qualunque genere, in particolare per quelle del turismo. A causa della “monnezza” campana e non solo. Non c’è dubbio che l’immagine della magistratura oggi soffra di queste situazioni. Troppe e troppo gravi sono le violazioni impunite della legge perché l’attività dei giudici e dei pubblici ministeri possa essere ritenuta all’altezza del compito che da legge affida loro e della fiducia dei cittadini. È questa una riflessione che devono fare innanzitutto i magistrati che hanno alto il senso dello Stato e forte consapevolezza del ruolo che essi sono chiamati a svolgere. Devono, ciascuno e tutti insieme, porsi questo problema, perché l’immagine di ognuno contribuisce all’immagine di tutti. Nel senso che ogni magistrato è testimone del proprio ruolo e della funzione altissima che è stato chiamato ad esercitare nel momento stesso in cui ha giurato fedeltà alla Costituzione ed alle leggi dello Stato ed ha indossato la toga. Chi viene meno a questi doveri danneggia gravemente la magistratura. Detto questo, proprio a sottolineare l’altissimo ruolo del magistrato nell’ordinamento e nella tradizione giuridica italiana va detto che gli organi di autogoverno delle magistrature hanno il dovere di verificare che il comportamento dei singoli sia conforme alle regole di equilibrio che sono richieste per l’esercizio della funzione giurisdizionale, a garanzia di chi, con impegno e con un lavoro di grande responsabilità, opera in condizioni spesso difficili per mancanza di mezzi, per l’inadeguatezza delle strutture rispetto al carico di lavoro, per i rischi personali connessi con la delicatezza e rilevanza economica e finanziaria delle decisioni che vengono assunte. Se la magistratura deve apparire, e non solo essere, indipendente e obiettiva, sicché ogni devianza dev’essere punita, la classe politica deve ugualmente assumere atteggiamenti conformi al ruolo pubblico che i singoli sono chiamati a svolgere nelle assemblee rappresentative e nei governi, ai vari livelli di responsabilità. Senso dello Stato e il rispetto delle istituzioni che rendono intollerabile agli occhi dei cittadini certe prese di posizione di chi si vede inquisito, che rivelano un’inammissibile arroganza, che è desiderio di impunità assolutamente incompatibile con le regole dello Stato di diritto. Certe frasi in bocca al dimissionario Ministro della giustizia, applaudito senza pudore, mentre affermava che la politica esige raccomandazioni e spartizione di posti, hanno costituito uno spettacolo indegno di un paese civile. Cui ha fatto eco la dichiarazione di Berlusconi: “spero che si vada al voto e gli italiani ci diano una maggioranza sufficiente per potere fare una riforma in profondità della giustizia e della magistratura”. Ha lasciato di stucco almeno mezza Italia. È veramente un peccato che un uomo che ha dimostrato grandi capacità imprenditoriali, che ha saputo convogliare verso il suo partito tanti consensi, un uomo il quale potrebbe certamente svolgere un’opera importante al servizio del Paese, in Parlamento ed al Governo, dimostri frequentemente così scarso senso dello Stato. “Così fan tutti”, scrive oggi Fabrizio dell’Orefice su Il Tempo (“La coscienza sporca della sinistra”) “non è una giustificazione, nessuno che abbia detto: non si fa, non si fa con la cosa pubblica, non si possono sistemare gli amici a spese di tutti. Soprattutto perché si sta parlando di sanità, della salute di tutti noi”. Mastella ha voluto imitare Bettino Craxi ed il suo tentativo di coinvolgere l’intera classe politica nella sua chiamata di correo. Allora nessuno raccolse la sfida. Oggi Mastella è stato applaudito e perfino baciato, in una solidarietà che non è solo umana, comprensibile, ma di responsabilità. È vero “così fan tutti”. E allora, politici nostrani, attendetevi l’azione dei giudici ed il disprezzo della gente!
19 gennaio 2008

Politici senza vergogna!
di Salvatore Sfrecola

E senza pudore! Non è bastata la “monnezza” a svergognare l’Italia a livello mondiale, ci voleva anche il Ministro della giustizia inquisito, che si dimette ma resta in carica perché il Presidente del consiglio gli chiede di non lasciare la poltrona. Per non perdere la sua! Veramente abbiamo toccato il fondo! Nella “prima Repubblica” i ministri si rimettevano per un avviso di garanzia, cioè per un atto formale adottato dal giudice per mettere in condizione il presunto responsabile di difendersi. Nella “seconda Repubblica” il Ministro della giustizia, il responsabile del dicastero cui, in senso lato, fanno riferimento i giudici, rimane in carica nonostante sia inquisito e siano inquisiti parenti, famigli e sodali, per reati contro la pubblica amministrazione. Non ci sono parole per descrivere lo stato d’animo di chi crede nello Stato e lo vede ostaggio di questi politici di basso conio, i quali hanno consentito che una delle aree più belle del Paese diventasse un’immensa discarica a cielo aperto, con evidenti problemi di salute, di inquinamento ambientale, senza che nessuno sia intervenuto seriamente per far cessare questo scempio. E ancora non si è parlato dell’inquinamento delle falde acquifere cioè dell’acqua che beviamo e dell’acqua con la quale vengono irrorate le campagne che portano sui mercati di tutta Italia e in Europa prodotti che hanno assorbito i veleni dell’inquinamento. Di più, in Parlamento il discorso del Ministro Mastella, al quale si deve comunque riconoscere come uomo il diritto di difendere se stesso, la propria famiglia e il proprio partito e il diritto alla commozione, ha avuto un’ampia solidarietà, non solo umana, logica e in un certo senso dovuta, dai colleghi politici, ma una solidarietà politica contro l’operato della magistratura. Il rapporto fra classe politica e magistratura è difficile in ogni parte del mondo. Il politico non accetta il controllo giudiziario. Eletto dal popolo, si sente onnipotente e ritiene che solo al popolo debba rispondere del suo operato. Ma in un ordinamento democratico e civile, in uno stato di diritto, il politico, come ogni altro cittadino risponde anche ai giudici per l’azione svolta quando essa è in contrasto con le leggi e l’interesse generale al buon funzionamento dell’amministrazione e alla tutela del denaro pubblico. Il Ministro Mastella è anche quello che si è speso, all’inizio del 2007, a difesa del famigerato emendamento Fuda alla legge finanziaria per il 2007, con il quale si cancellavano i processi e le inchieste della Corte dei conti per danno all’erario e che, se fosse rimasto nell’ordinamento (ma fu opportunamente abrogato con un tempestivo decreto-legge), avrebbe reso praticamente impossibile l’azione del Pubblico Ministero presso la Corte dei conti nelle indagini a carico di quanti hanno prodotto danno all’erario. In quelle frasi di Mastella, allora e ieri in Parlamento, c’è tutta una concezione della politica che le persone perbene istintivamente rifiutano. Una politica senza controlli, una politica assolutamente libera non solo nelle decisioni, com’è giusto che sia, ma anche nel rispetto delle leggi che la stessa classe politica ha approvato. Viviamo un momento difficile della vita dello Stato. In presenza di un governo modesto, voglio fare un complimento al Presidente Prodi, e di una opposizione modestissima, anche qui un complimento al Presidente Berlusconi erede di un’esperienza governativa della quale si possono ricordare soltanto alcuni provvedimenti controversi! Non dico altro. Una maggioranza, la più ampia della storia d’Italia, mandata a casa per aver deluso, gravemente deluso quanti l’avevano votata, che oggi all’opposizione delude per la sua incapacità di rappresentare un’ipotesi alternativa all’attuale governo. Momento difficile. Per l’Italia. Per i cittadini, tartassati da un sistema fiscale ingiusto, in presenza di un aumento del costo della vita che nella realtà percepita è senza dubbio superiore a quello che dicono gli indici ufficiali delle statistiche. Le statistiche che l’ex Ministro delle finanze Francesco Forte, illustre economista, ha detto di sospettare da tempo non essere veritiere. Questa situazione non può durare a lungo. L’Italia intera è allo sfascio. Uno sfascio morale prima di tutto. Chiudo con riferimento ad uno spot pubblicitario per i maggiori giornali tedeschi dagli albergatori veneti: “non siamo Napoli”. È il progetto della Confturismo per evitare una fuga verso altri paesi europei dei turisti tedeschi spaventati dalle immagini della Campania sommersa dai rifiuti. L’ho già detto, anche in passato siamo state vittime della pubblicità dei nostri concorrenti. Che naturalmente approfittano dei nostri errori e delle nostre disgrazie.
17 gennaio 2008

Lacrime di coccodrillo 1
di Salvatore Sfrecola

“Non siamo stati capiti”. Intervistato da Sky Tg24, il direttore del dipartimento di Fisica, Giancarlo Ruocco, dice di aver accolto la notizia dell’annullamento della visita del Papa all’Università “con grande rammarico”. “Vogliamo ribadire – ha sottolineato – il nostro desiderio di aprire un dibattito. Invitiamo, qualora la curia lo ritenesse necessario, personalità religiose di qualunque tipo di credo per un dibattito che in questo momento sembra diventato molto attuale. Non siamo stati capiti. Non era l’esito che avremmo desiderato, noi abbiamo iniziato questa discussione interna con il nostro rettore e quando aveva sollevato l’idea di invitare Benedetto XVI all’inaugurazione dell’anno accademico abbiamo cercato di convincerlo che non era opportuno. Una lettera che doveva restare privata è stata fatta circolare, ed è stata utilizzata strumentalmente a mio avviso strumentalmente. Non è corretto che ci si accusi di essere oscurantisti, di voler censire o di essere censori su qualunque argomento di questo tipo”. Diciamo la verità, il Prof. Ruocco ha cercato, come si dice a Roma, di metterci una pezza. Di colore incerto. Insomma una patacca, che dimostra come i laici si siano resi conto dell’errore commesso nel contestare un uomo di chiesa e di cultura. E cercano di rimediare, maldestramente cercando di nascondere la sconfitta dinanzi agli italiani ed al mondo intero. E’ un po’ come i pifferi della montagna, andarono per suonare e furono suonati.
16 gennaio 2008

Il giorno “nero” dei laici arroganti e ignoranti
di Salvatore Sfrecola

Ad aprire le ostilità era stato Eugenio Scalfari domenica 13 su La Repubblica. Un editoriale arrogante già dal titolo “Una Chiesa che scambia il sacro col profano”, per via di quella polemica artificiosa a proposito di una frase di Papa Ratzinger sul “gravissimo degrado di alcune aree di Roma”, pronunciata in occasione dell’incontro con gli amministratori di Comune, Provincia e Regione. Un giudizio che chiunque ha un minimo di onestà intellettuale è disposto a sottoscrivere, indipendentemente dalle responsabilità antiche e recenti, delle amministrazioni locali e dello Stato.
Scalfari, al quale è stato inopinatamente attribuito il ruolo di “Guru” del laicismo salottiero romano, non condivide evidentemente che “un evento tragico come l’uccisione di Giovanna Reggiani – come aveva detto il Santo Padre – ha posto la nostra cittadinanza di fronte al problema della sicurezza”, oltreché del degrado che è sotto gli occhi di tutti. E dimentica che quella “inattesa severità” del Vescovo di Roma era espressione di un preciso dovere del pastore di questa Città martoriata dalle buche delle strade dove un disabile o una mamma con carrozzina ha difficoltà gravissime di deambulazione sui marciapiedi ridondanti di travertino, delimitati da pilastri dello stesso marmo o di metallo in una falsa opulenza che stride con le condizioni delle periferie e con il tanfo maleodorante dei vicoli del centro storico, appena attenuato dalla pioggia abbondante di questi giorni.
Così il Nostro approfitta dell’alzata di scudi delle sinistre capitoline in difesa dell’indifendibile Veltroni, che si dice sia Sindaco di Roma, per l’ennesima datata esibizione anticlericale il cui “effetto boomerang” certamente gli sfugge. E in un’orgia di banalità, come la definizione di “gaffe”, riferita a quel che ha detto Benedetto XVI e che pensano i romani, passa all’offesa alla persona. Metodo “dialettico” che tradizionalmente prova, al di là di ogni ragionevole dubbio, l’estrema modestia delle argomentazioni. E dimostra che questo Papa è realmente un campione del cattolicesimo e, pertanto, un pericoloso antagonista dei laici-laici, come Scalfari chiama i “suoi”.
Parlare della “palese inconsistenza politica e culturale di papa Ratzinger” significa offendere l’intelligenza dell’Italia laica, manifestando un timore profondo per il pensiero di questo Papa che deve aver effettivamente scompagnato le schiere anticlericali se la risposta alla sua azione pastorale è l’insulto.
E l’inconsistenza culturale, questa sì, del Nostro. “La Chiesa di Benedetto XVI, ma anche quella di Giovanni Paolo II – egli scrive – non riesce ad entrare in sintonia con la cultura moderna e con la moderna società”. Povero Scalfari, confonde i ruoli. La Chiesa è stata antesignana della modernità, intesa, naturalmente, come evoluzione della società verso la conquista di diritti di libertà e sociali. Farei un torto all’intelligenza dei nostri lettori se citassi encicliche e documenti pontifici che tutti conoscono, almeno da quelli di fine ‘800 che hanno segnato profondamente l’evoluzione della dottrina sociale della Chiesa.
Povero Scalfari, che caduta di stile! Arruolare quel Pietro Scoppola che deve la sua notorietà al suo cristianesimo politico border line, scaltro e opportunista. Pace all’Anima sua! Che modestia di argomentazioni, che volgarità di linguaggio.
E venendo ad oggi ha fatto bene il Papa a rinunciare alla visita all’Università che impropriamente si fregia della denominazione “La Sapienza”, se è divenuta la sede di quell’intolleranza che è l’esatto contrario della “sapienza”, cioè della cultura, che è confronto tra le diverse opinioni.
“Il Papa non è stato sconfitto, ha detto stasera Cossiga, come riferisce Dagospia. Ha compiuto un gesto di grande delicatezza verso il Paese e nei confronti del governo Prodi. Perché se fosse andato all’Università e si fossero avute le contestazioni, il governo sarebbe stato responsabile – oltre che della monnezza nazionale – anche di questa vergogna internazionale”.
Una vergogna, dunque. Per i 67 “professori” che hanno promosso la contestazione al Pontefice, quasi tutti del PD o simpatizzanti, e degli “studenti”, che evidentemente non intendono studiare e confrontarsi ed ai quali “sembra una vittoria strepitosa” l’annullamento della visita di Papa Benedetto XVI, maturata nel primo pomeriggio di oggi, per motivi di opportunità.
Ora tutti si rendono conto di aver commesso un errore, di aver provocato una “sconfitta della politica”, come ha detto ad Apcom il cardinale Ersilio Tonini, arcivescovo emerito di Ravenna. Anche per Fabio Mussi, “sinceramente molto rammaricato”, “è stato uno sbaglio aver creato le condizioni” per cui il Papa ha rinunciato alla sua visita alla Sapienza. “L’università – ha aggiunto – è un luogo che deve accogliere, non respingere e non è necessario condividere quel che dice il Papa, ma era giusto che parlasse”.
Anche Franco Giordano, Segretario di Rifondazione Comunista è “dispiaciuto per la posizione presa dal Vaticano”.
Il Papa è “oggetto di un gravissimo rifiuto che manifesta intolleranza antidemocratica e chiusura culturale”, ha affermato in una nota la Presidenza della Cei (Conferenze episcopale italiana), “Tanto più che la visita del Santo Padre era una cordiale risposta a un invito espresso dagli organi responsabili dell’università, ma reso inefficace dalla violenza ideologica e rissosa di pochi”.
Poveri laici, alle vostre barricate non ci sarà l’assalto delle “divisioni del Papa”. Benedetto XVI ha dimostrato la sua grandezza anche in questa circostanza, per “opportunità”, con una lezione di stile, dimostrando al mondo intero la pochezza di una certa laicità becera e intollerante per congenita mancanza di idee e della capacità di metterle in campo.
Scalfari, ti sei fatto male da solo!
15 gennaio 2008

Beni culturali senza risorse: eppure sono il “nostro petrolio”!
di Salvatore Sfrecola

“Arte, i restauri bloccati”, titola il Corriere della Sera del 14 gennaio, segnalando un’endemica difficoltà del nostro Paese al quale appartiene la gran parte del patrimonio storico artistico dell’umanità. Un patrimonio unico, per essere espressione di tutti i tempi della storia e di tutte le tendenze artistiche. E’ la nostra ricchezza, in senso culturale, s’intende, ma anche economico. Infatti il nostro turismo è essenzialmente culturale. Non si viene in Italia per godere del sole e del mare. Anche di quello, evidentemente. Nonostante si faccia di tutto per inquinare a destra e a manca, impunemente. Quel che attira in Italia milioni di turisti è la bellezza dei nostri palazzi, delle nostre pinacoteche, delle aree archeologiche che dicono di un’antica civiltà e di una rara bellezza. Un patrimonio, è bene ricordarlo in tempi di globalizzazione dell’economia, che non teme confronti e non rischia contraffazioni. Cinesi e coreani potranno imitare le borsette di Prada o le scarpe di Gucci, non le opere che espongono i nostri musei e le statue che ornano le nostre piazze. Eppure il valore economico di questo patrimonio è trascurato dalla classe politica e imprenditoriale. E non da oggi. Il modello di sviluppo del nostro paese dovrebbe avere in cima alle previsioni l’adeguamento delle infrastrutture turistiche, strade, alberghi, porti e tutte quelle opere che attirano il turista e lo fanno desiderare di restare il più a lungo possibile e di tornare.
Niente di tutto questo. Continuiamo con i musei chiusi o aperti quando fa comodo al personale, non quando è necessario per favorire la visita di italiani e stranieri. L’accoglienza in molte aree del Paese è inadeguata. Anzi a volte sembriamo inospitali, essendo propensi alcuni operatori economici a “pelare” il turista offrendo servizi scadenti, di ristorazione e alloggio. Nell’assenza delle autorità che dovrebbero verificare la correttezza delle attività turistiche. La loro azione spesso è un vero e proprio attentato all’economia dello Stato ed alla prosperità delle popolazioni locali.
Altro profilo trascurato è dato dall’imponente possibilità di lavoro che il settore offre, all’interno delle amministrazioni e degli enti e del comparto turistico privato in genere. Una evidenza immediata eppure trascurata, totalmente trascurata.
Quando avremo la possibilità di un governo che immagini un modello si sviluppo economico a misura di un Paese che è un grande museo in un meraviglioso territorio con ricchezza naturalistiche, anch’esse trascurate?
15 gennaio 2008

I mali di Roma: vietato strumentalizzare il Papa
di Salvatore Sfrecola

E’ bastato poco perché i politici nostrani, a Destra ed a Sinistra, strumentalizzassero una frase di Papa Benedetto XVI in occasione dell’incontro con le autorità capitoline, della Provincia e della Regione. “Un evento tragico come l’uccisione di Giovanna Reggiani – aveva detto il Santo Padre – ha posto la nostra cittadinanza di fronte al problema della sicurezza e anche del gravissimo degrado di alcune aree di Roma”. Niente di nuovo, in sostanza, rispetto a quel che pensano e dicono i cittadini ed i loro rappresentanti da sempre. E che aveva formato oggetto, nel 1974, di un Convegno “sui mali di Roma”, organizzato dal Vicariato. E’ bastata solo quella frase per una levata di scudi anticlericale a Sinistra, occasionata dall’iniziativa di alcuni partiti di opposizione che hanno tentato di fare “maldestramente strumento di polemica politica” le parole del Pontefice, come si legge nella “precisazione” della Sala Stampa Vaticana. Una precisazione che dimostra che la presa di posizione della Destra è stata un boomerang. Ha ricompattato il fronte Veltroni ed ha dimostrato che per denunciare i mali di Roma ci vuole il Papa perché AN e Forza Italia non sono in condizione di condurre una azione adeguata nei confronti delle autorità cittadine per ottenere qualche risultato meritevole di apprezzamento. Intanto il degrado della Città cresce. Le strade sono piene di buche dacché il Comune si occupa solo dei marciapiedi ricostruiti con gran impiego di travertino e guide per i non vedenti che degradano rapidamente per essere di materiale scadente e, molto probabilmente, realizzati male. Tutto questo in una Città nella quale la sosta in seconda fila è spudoratamente effettuata anche nei pressi dei comandi della Polizia Municipale, come in via Crescenzio, tanto per fare un esempio, dove agli incroci è difficile salvarsi dai petulanti lavavetri, spariti lo spazio di un mattino, quando qualcuno pensò che i sindaci intendessero fare sul serio. Attendiamo una classe politica romana degna di questo nome, che sappia amministrare questa Città unica al mondo tallonata da un’opposizione della quale si possa avere fiducia come futura classe di governo. Rimarrà un sogno nel cassetto?
12 gennaio 2008

Se “stato” è solo un participio passato
di Salvatore Sfrecola

Caro Amico Senatore, uomo saggio e con alto senso dello Stato, ho accettato che tu parlassi della omessa applicazione delle sanzioni da parte dell’ISTAT solo perché mi avevi preannunciato che avresti tratto lo spunto da quella vicenda, tutta ancora sub iudice soprattutto per quanto concerne il profilo soggettivo dell’eventuale responsabilità, per fare alcune considerazioni sul più ampio problema delle sanzioni amministrative nell’ambito dell’esercizio di quella che, lato sensu, può essere definita la potestà punitiva dello Stato. Lo Stato con la lettera maiuscola che a noi piace ritenere la casa degli italiani, affidata, secondo le regole della democrazia, a chi il popolo sceglie, avendone apprezzato il programma, cioè l’indirizzo politico che, dopo il voto diviene indirizzo politico della maggioranza e, quindi, del governo.
Questo leggiamo sui libri di diritto e storia costituzionale. Nella realtà delle varie rilevazioni (stavolta non c’entra l’ISTAT), di politologi e giornalisti, “stato” è il participio passato del verbo essere, nel senso che non c’è più o, meglio, c’è solo formalmente.
Non c’è a Napoli sommersa dai rifiuti, con pericoli gravissimi per la salute pubblica, dove il problema è stato lasciato incancrenire, con gran soddisfazione della stampa internazionale, soprattutto di quella dei paesi concorrenti sul piano turistico.
Leggo che alcuni operatori economici minacciano un’azione di risarcimento per il danno all’immagine della Città. Chi sarà chiamato a pagare?
Ma lo Stato non c’è neppure in vaste aree del Paese, non solo al Sud dove la vita economica e sociale è condizionata da Camorra, Mafia e Ndrangheta.
Non c’è laddove la legge sull’immigrazione non viene fatta rispettare. Perché, se è certamente giusto e cristiano, conforme alla nostra civiltà giuridica e ed alla tradizionale accoglienza di un popolo civile, ospitare profughi da territori dove la guerra per bande è edemica e massacra periodicamente l’etnia debole o la minoranza religiosa, è contrario alle regole del diritto e della democrazia che le nostre tradizioni, civili e religiose, non siano rispettate e fatte rispettare. Togliere i crocefissi, abolire i presepe perché disturberebbero gli appartenenti ad altre religioni non è cortesia e accoglienza, ma negazione delle nostre tradizioni, della nostra identità.
Si rispettano gli altri se pretendiamo, a casa nostra, il rispetto di noi stessi.
Ugualmente non è conforme al diritto che permangano in Italia clandestini senza lavoro perché è naturale che essi siano indotti a delinquere e ad allearsi alla delinquenza organizzata nazionale e d’importazione. A causa soprattutto della facilità con la quale questa gente può circolare impunemente sul territorio priva di documenti, praticamente inidentificabile. È noto il caso della zingarella fermata a Roma per più di centoventi volte (avete letto bene, 120 ed oltre) che aveva sempre dato generalità diverse. “Identificata” aveva sempre fatto perdere le proprie tracce. E poi via di seguito ancora a borseggiare impunemente.
Lo Stato è assente, poi, nei discorsi di quanti discettano sulla “tolleranza zero”, concetto equivoco che presuppone l’affermazione che vi sia una graduazione nella tolleranza dei comportanti illeciti. Sbagliato! I comportamenti o sono illeciti o non lo sono e se lo sono possono essere variamente sanzionati, in relazione alla loro gravità ed al connesso allarme sociale che ne deriva. Ma è inammissibile che alcuni illeciti non siano perseguiti, cioè di fatto depenalizzati. Ma se sono depenalizzati e mantengono la loro connotazione illecita vanno comunque sanzionati, sia pure in via amministrativa.
È contrario al diritto ed alla democrazia che l’immigrazione incontrollata non consenta un adeguato controllo sanitario, con rischi gravi per la popolazione residente che si vede esposta a infezioni relative a patologie quasi sconosciute in Italia e diffuse, invece, nei paesi d’origine degli immigrati.
È contrario al diritto, infine, per tornare alle riflessioni dalle quali abbiamo preso lo spunto, che per effetto della trasformazione di molte sanzioni, da penali in amministrative, determini, di fatto, una disapplicazione di ogni sanzione.
È gravissimo. Non solo per la mancata entrata allo Stato del relativo importo (e non sono cifre indifferenti), ma per il mancato effetto deterrente che nella sanzione si aggiunge alla punizione del colpevole.
L’impressione, diffusa, è che molte sanzioni amministrative non vengano applicate.
Credete voi che ne sia stata applicata qualcuna, ad esempio, in materia di violazione del divieto di fumo?
Il fatto è che nella maggior parte dei casi il meccanismo è farraginoso, defatigante, tra organi deputati all’accertamento e organi competenti all’adozione della sanzione.
Forse è il momento per ripensare l’intero procedimento e snellire la procedura, magari prendendo lo spunto da ciò che avviene in settori nei quali il pagamento delle sanzioni è effettivo.
10 gennaio 2008

ISTAT: per salvare gli amministratori dalle contestazioni della Corte dei conti il Governo uccide la statistica pubblica
di Senator

Torno sull’argomento del “condono statistico”, come è stato definito dalla stampa, cioè sulla norma con la quale il Governo, per salvare gli sprovveduti amministratori dell’Istat, invitati dalla Corte dei conti a chiarire i motivi per i quali da più di cinque anni l’Istituto non applica le sanzioni a carico di chi non risponde ai questionari, ha stabilito che d’ora in poi si può impunemente non rispondere.
L’effetto boomerang è evidente. Ma certamente non è stato considerato. E questo la dice lunga sul livello professionale e sulla sensibilità “politica” dei consulenti del governo. Per le conseguenze gravissime che questa scelta normativa è destinata ad avere sull’esattezza delle rilevazioni statistiche future.
È semplice. Il governo nel decreto “milleproroghe” ha previsto (art. 44) che, “fino al 31 dicembre 2008, ai fini delle sanzioni amministrative previste, e con riguardo alle rilevazioni svolte anche anteriormente alla data di entrata in vigore del presente decreto, è considerato violazione dell’obbligo di risposta il formale rifiuto di fornire i dati richiesti”.
Il “formale” rifiuto, che non è chiaro come debba essere formulato (con lettera raccomandata e avviso di ricevimento od a mezzo di ufficiale giudiziario?), non la semplice omissione. Con la conseguenza, del tutto ovvia, che, in assenza di qualsiasi sanzione, essendo essa applicabile solo a seguito di un “formale rifiuto”, aumenteranno coloro che omettono di rispondere ai questionari. Perché perdere tempo a tenere ed a fornire i dati se la mancata risposta non ha conseguenze?
E la validità della statistica?
Nei giorni scorsi Francesco Forte, già ministro delle finanze, economista di valore, ha dubitato su LiberoMercato della validità delle statistiche Istat, perché le ritiene non sempre attendibili. Dubbi destinati a crescere con l’inevitabile diminuzione delle risposte che già oggi, spesso, erodono fortemente il campione.
“Conoscere per deliberare”, diceva Luigi Einaudi nelle sue celebri “Prediche Inutili”. Le statistiche servono per conoscere e forniscono elementi per amministrare. Il Governo con questa norma, voluta per salvare la tasca di modesti amministratori incapaci di assumersi le loro responsabilità, dà un colpo mortale alla statistica pubblica, con quali effetti sul piano delle comparazioni internazionali e dell’immagine del Paese è facile immaginare.
8 gennaio 2008

L’ISTAT e le sanzioni omesse: un’altra vicenda italiana di incapacità e inefficienza
di Senator

Caro Direttore, consentimi di intervenire, come pater rei pubblicae per aver indossato il laticlavio per alcune legislature, su una questione gravissima, di malcostume amministrativo, sintomatico di un modo di intendere l’esercizio della funzione pubblica purtroppo diffuso. E causa non ultima del degrado di questo nostro meraviglioso Paese.
Intervengo sul tuo sito, che cortesemente ospita fin dall’inizio alcune mie riflessioni “a ruota libera” (consentimi l’espressione che è anche il titolo di una tua simpatica rubrica sul sito http://www.lafamiglianellasocieta.org), perché a te è interdetto, per una questione di stile e buon gusto, essendo il “requirente” nel relativo procedimento di competenza della Corte dei conti, di far anche solo cenno all’accertata omissione, da parte dell’Istituto centrale di statistica (ISTAT), dell’applicazione delle sanzioni nei confronti dei destinatari delle richieste di dati i quali non abbiano ottemperato. Sanzioni previste dalla legge e, pertanto, obbligatorie.
Desidero occuparmene perché la vicenda è di una gravità estrema, che va molto al di là del danno procurato all’ente dall’inadempimento dei suoi amministratori che pure hai stimato, con riferimento al solo ultimo quinquennio, intorno a 190 milioni di euro, che non sono pochi, avendo applicato, in tutti i casi di omissione della risposta, il minimo della sanzione. Una cifra di tutto rispetto, sostanzialmente quanto l’ente chiede per poter funzionare al meglio! Con l’applicazione del massimo della sanzione viaggeremmo sui 700 e oltre milioni, sempre di euro, come ha scritto Francesco De Dominicis su LiberoMercato del 4 gennaio. Pensa quanto potrebbe funzionare bene l’ente!
Se avesse altri amministratori e dirigenti, ovviamente, considerato che la carenza di disponibilità di bilancio è conseguenza proprio dell’omissione nell’applicazione delle sanzioni!
Si tratta di sanzioni “amministrative”. E qui sta l’interesse che muove questo mio intervento. Infatti, le sanzioni amministrative, così definite perché sono applicate “nell’esercizio di una potestà amministrativa”, come scrive il collega Elio Casetta sul suo ottimo Manuale di Diritto amministrativo, costituiscono un deterrente importante, a causa del carattere pecuniario, e se ne suggerisce l’estensione a talune fattispecie di illecito attualmente di rilievo penale. Si dice, ed io concordo, che la sanzione pecuniaria fa più male di una sanzione penale alla quale non segue, nella maggior parte dei casi, neppure un giorno di detenzione. Pagare è doloroso e, inoltre, fa entrare nei magri bilanci pubblici somme alle quali la legge può dare una destinazione positiva, come nel caso delle multe per violazione del codice della strada che in parte vanno ad impinguare capitoli di spesa per il miglioramento della segnaletica e per l’educazione stradale. Ben vengano, dunque, le sanzioni amministrative, quali misure alternative a quelle penali, ma è necessario che siano effettive, non una mera minaccia. Come è stato nel caso dell’ISTAT che, diversamente da quanto fanno le analoghe istituzioni europee non applica le sanzioni a chi omette di rispondere ai questionari, neppure quando a non fornire il dato richiesto sono enti pubblici. Ebbene cosa fa il Governo di fronte all’iniziativa della Procura della Corte dei conti che contesta il danno e costituisce in mora i “presunti responsabili”? Inserisce una norma di sanatoria (l’art. 44) nel decreto legge c.d. “milleproroghe”, che è una consuetudine di questi governi incapaci di provvedere nei termini di legge (per cui la necessità di una proroga) a molti adempimenti. La norma è così formulata: “fino al 31 dicembre 2008, ai fini delle sanzioni amministrative previste, e con riguardo alle rilevazioni svolte anche anteriormente alla data di entrata in vigore del presente decreto, è considerato violazione dell’obbligo di risposta il formale rifiuto di fornire i dati richiesti”. Mi chiedo chi abbia dato l’assenso sul piano tecnico ad una norma siffatta, considerato che il Dipartimento per gli affari giuridici e legislativi della Presidenza del Consiglio dei Ministri è diretto da un magistrato di grande valore come il Consigliere di Stato Filippo Patroni Griffi. Una norma assurda e incostituzionale. Assurda perché “il formale rifiuto di fornire i dati richiesti” costituisce un requisito che annulla l’effetto della sanzione. Nel senso che nessuno ha mai e mai formulerà un “formale” rifiuto. Chi non vuole rispondere non risponde e basta. Una norma incostituzionale per lo strumento usato, un decreto legge che è finalizzato a proroghe per motivi di “necessità ed urgenza” (art. 77 Cost.) laddove e assolutamente inimmaginabile siffatto requisito per una norma di sanatoria. La quale, inoltre, è priva di copertura ex art. 81, comma quarto, della Costituzione. Infatti il credito erariale, così dite voi magistrati della Corte dei conti, è stato accertato, tanto che i presunti responsabili sono stati costituiti in mora, ma non risulta coperta la minore entrata nel bilancio dell’ISTAT per effetto della norma di sanatoria. Infine, non va trascurato quanto scrive su LiberoMercato del 5 gennaio Francesco Forte, già Ministro delle finanze, a proposito della vicenda (“Bocche cucite per paura del Fisco”) esprimendo dubbi sulle statistiche italiane “in quanto i dati non quadrano fra loro”. Anche per le omissioni. Più motivi per un ripensamento in sede di conversione del decreto, ad evitare l’ennesima brutta figura internazionale. Infatti a Bruxelles avranno da riflettere sui dati italiani. Stupisce che non se ne dia carico l’amico e collega Tommaso Padoa Schioppa.
7 gennaio 2008

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