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Settembre 2008

Barbarie prossima ventura
2010, fine della giustizia penale

di Nostradamus

La separazione delle carriere è legge dello Stato. “Finalmente, dice il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi in un discorso alla Nazione, non ci sono più Pubblici Ministeri, ma “avvocati dell’accusa”, essi non svolgeranno più la funzione in nome della legge (che giustificava la dizione di ministero pubblico) ma in nome dello Stato, cioè del Governo”. Inoltre, per sottolineare la distinzione tra giudici ed avvocati “dell’accusa”, questi “dovranno dare dei lei ai giudici”, vivranno in palazzi separati. E’ prevista una punizione severa, fino all’espulsione, se trovati al bar a sorseggiare un caffè con i giudici. Non potranno neppure vedersi in pizzeria, né giocare a tennis. Separazione vuol dire separazione, tuona Berlusconi. “Cribbio, ho fatto tanto per questo risultato, ho modificato la Costituzione repubblicana e antifascista, ho studiato a fondo l’esperienza di Perry Mason, non posso correre il rischio che di fronte ad una pizza l’ex Pubblico Ministero, divenuto avvocato dell’accusa, stabilisca un rapporto cordiale con il giudice. Ci mancherebbe altro, che fine farebbe la mia riforma?” Parla agli avvocati Berlusconi, ad un convegno di penalisti che si spellano le mani per lui. Ad un tratto giunge trafelato Angelino Alfano, il volto teso, gli occhi roteanti. Si avvicina al premier, al suo orecchio. Le parole gli escono a fatica dalla bocca. “Presidente, non ci sono più “avvocati dell’accusa”, perché tutti, dico tutti, i Pubblici Ministeri hanno chiesto di passare alle funzioni giudicanti. Dicono che non ci stanno a perdere l’indipendenza per la quale sono entrati in magistratura. E’ un guaio”. “Macché guaio, risponde prontamente Berlusconi, anzi è meglio così. Ci tolgono dall’imbarazzo. Se ne vadano pure. Facciamo un bel decreto legge e ad esercitare l’accusa ci mettiamo gli Avvocati dello Stato che sono Avvocati e che dipendono dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Così ci allineiamo alla Francia dell’amico Sarko. E poi è un omaggio a Napoleone”. Il pubblico degli avvocati percepisce la situazione (il microfono accanto a Berlusconi è rimasto aperto), l’applauso diminuisce d’intensità. I penalisti italiani, da sempre schierati per la separazione delle carriere hanno un sussulto. “Adesso chi difenderemo se non c’è un P.M. che rinvia a giudizio qualcuno? Ci siamo fatti male da soli”. Nei giorni successivi la gente in piazza si preoccupa. “Chi ci difenderà da ladri e rapinatori, chi dai funzionari corrotti e concussori, chi porterà in giudizio bancarottieri ed evasori fiscali? E se mio figlio finisce sotto una macchina guidata da un ubriaco?”. Monta la rivolta. L’on. Di Pietro organizza marce di protesta, sotto il Ministero della giustizia, davanti a Palazzo Madama e Montecitorio. Poi tutti insieme in piazza Colonna, dinanzi a Palazzo Chigi. A protestare. E’ il 14 luglio, qualcuno ricorda che quel giorno di poco più di due secoli prima è stata espugnata la Bastiglia. Di fronte al tumulto Berlusconi abbandona il Palazzo in fretta e furia, esce da via dell’Impresa. Guarda la targa della strada. “Cribbio, l’hanno sentito esclamare, dovevo continuare a fare solo l’imprenditore”
14 luglio 2010

Dopo che il “lodo Alfano” è stato ritenuto dai giudici milanesi sospetto di incostituzionalità
Il Presidente del Consiglio insiste sulla separazione delle carriere di giudici e Pubblici Ministeri

di Iudex

I giudici milanesi che sono chiamati a verificare la fondatezza o meno delle accuse della Procura della Repubblica di Milano al Presidente del Consiglio nella sua veste di imprenditore hanno sollevato dubbi di costituzionalità nei confronti del c.d. “lodo Alfano”, la legge secondo la quale i processi sono sospesi per le quattro alte cariche dello Stato, qualunque sia il reato per il quale si procede, anche se commesso quando il titolare della carica era un privato cittadino. I dubbi che hanno avuto i giudici erano già emersi in Parlamento e sulla stampa, ma la maggioranza li ha ignorati ed adesso grida allo scandalo, con scarso senso delle istituzioni giacché quando un giudice rimette gli atti alla Consulta, abbia ragione o meno, fa una cosa prevista dalla legge, che accade tutti i giorni, per cui non c’è niente di strano e nessuno se ne sarebbe accorto se il processo non coinvolgesse il Presidente del Consiglio. Nella difesa del “lodo Alfano” si usano argomenti di vario genere, alcuni giuridici o di opportunità, con riferimento ad altri ordinamenti (per la verità chiamati in causa a sproposito, dacché norme analoghe non esistono, come potrebbe dire il Primo Ministro israeliano Olmert, processato e costretto alle dimissioni), altri del tutto inconsistenti e un po’ patetici, come Libero di oggi che titola a pagina 10 “passano anche sopra Napolitano”, come se le leggi non fossero tutte promulgate dal Capo dello Stato, che, secondo questo modo di ragionare, si dovrebbe sentire offeso dal fatto che una legge del Parlamento da lui sottoscritta fosse sospettata di incostituzionalità. Ci vorrebbe più senso dello Stato, più rispetto per le istituzioni e meno faziosità politica quando si parla di giustizia, con l’effetto, diseducativo agli occhi dei cittadini di politici e giornalisti che esaltano la sentenza che fa comodo alla loro parte e vilipendono il giudice che ha deciso diversamente. E’ un pauroso degrado del costume che può portare gravi danni al Paese. Intanto l’On. Berlusconi torna a parlare di giustizia. I Pubblici Ministeri dice a Todi, in occasione del Congresso delle Camere penali, si chiameranno “avvocati dell’accusa e dovranno dare dei lei ai giudici”. Evidentemente l’avvocato onorevole Ghedini non lo ha informato, ma anche oggi i Pubblici Ministeri danno del”lei” ai giudici dai quali, ugualmente, vengono interpellati con il “lei”. E’ piccola cosa, ma dimostra che Berlusconi ha una conoscenza superficiale delle questioni della giustizia, eppure si è trovato più volte nelle aule dei tribunali nelle quali si vanta di essere stato chiamato troppe volte dai giudici “politicizzati”!
27 settembre 2008

Angelino Alfano si confessa da Vespa
Improvvisazioni sulla giustizia

di Salvatore Sfrecola

L’eterno provincialismo italiano stavolta si esercita sulla giustizia, un tema “caldo” per la maggioranza, più importante evidentemente della crisi economica, dell’aumento del costo della vita, del calo della produzione, del ristagno dei consumi, della difficoltà delle famiglie di arrivare a fine mese. Ci sarà pure un motivo per questa ossessione che riguarda solamente il processo penale e trascura il disagio della gente per la lunghezza dei processi civili, quelli che interessano un po’ tutti i cittadini, che hanno sempre qualcosa da chiedere, magari al giudice di pace, magari per una contravvenzione per divieto di sosta, ma che, nella maggior parte dei casi, fortunatamente, non hanno a che fare con la giustizia penale, con i pubblici ministeri, che rendono difficili le notti di alcuni esponenti della maggioranza e, a quanto pare, del serafico Ministro della giustizia. Perché provincialismo. Perché siamo abituati a dire “così fanno tutti all’estero”. E Vespa, che del potere costituito è da sempre scrupoloso aedo, aggiunge “la carriera unica per tutti i magistrati non esiste in alcun paese occidentale”. E questo basta per rassicurare lui ed il Ministro, che intervista nell’ultima sua fatica libresca, per affermare che noi sbagliamo e gli altri fanno bene. Al Nostro non viene neppure in mente che le parti potrebbero essere invertite e che il Pubblico Ministero appartenente al ruolo unico dei magistrati, opportunamente abituato, con una saggia attribuzione all’inizio della carriera a funzioni giudicanti, ad assumere una posizione di indipendenza, è una garanzia maggiore di quella che potrebbe assicurare un Pubblico Ministero autoreferenziale che nel corso della carriera non eserciti mai la funzione di giudice, quindi parte terza nel processo. Un Pubblico Ministero che abbia la cultura della giurisdizione, il senso della funzione pubblica della promozione dell’azione penale, che è esercitata nell’interesse della legge e non dello Stato. Cosa che continua a sfuggire a quanti insistono nella separazione delle carriere ritenendo che l'”avvocato dell’accusa”, come ama ripetere il Presidente del Consiglio, sia distinto dell'”avvocato della difesa”. E’ una cultura alimentata dai filmetti di Perry Mason, dove lo “Stato di New York” è contro “Mister Brown”. Non comprendere la differenza tra il P.M italiano ed il Procuratore Distrettuale americano significa affrontare il problema della giustizia penale con una visione parziale e distorta. Provincialismo sospetto, aggiungo, perché, dopo il “così fan tutti” dell’ineffabile Vespa, il Ministro afferma “non vogliamo sottoporre l’ufficio dell’accusa al governo come accade negli altri paesi”! Non è credibile. Forse voleva dire che non vuole sottoporlo “subito” al governo, ma è evidente che lo scopo della separazione delle carriere non può essere che questo, come accadeva sotto il Fascismo, del resto, quando il Procuratore del Re era il rappresentante dell’esecutivo “presso” la magistratura. Per la verità il Regime aveva trovato questa norma, già presente nell’ordinamento giudiziario, d’ispirazione napoleonica. A questa situazione aberrante hanno risposto i costituenti con le norme sull’unicità dell’ordine giudiziario e sull’indipendenza dei pubblici ministeri, anche di quelli istituiti presso le giurisdizioni speciali (art. 108 Cost.). Dovrà smontare la Costituzione il Ministro Alfano, o meglio, tentare. Ma non ci riuscirà. Il buon senso alla fine trionferà contro tutti i napoleonismi.
26 settembre 2008

Scienza e vanità
Big Bang rinviato al 2009, a Dio piacendo

di Salvatore Sfrecola

Si è rotto! Il superacceleratore di particelle che il Cern di Ginevra ha predisposto per ricreare il Big Bang primordiale e capire come è nato l’universo ha subito un guasto a seguito di un’esplosione provocata da un corto circuito tra due magneti. C’è stata una fuoriuscita di elio e il crollo del pavimento. Tutto rinviato al 2009, quando, riparato il guasto, potrà riprendere l’esperimento per cercare di capire l’origine del cosmo, a Dio piacendo. Volevano trovare la “particella di Dio” alcuni scienziati, come hanno scritto i giornali, ma un semplice, banale cortocircuito li ha fermati. Forse l’ambizione del direttore pro-tempore, che avrebbe voluto anticipare l’esperimento, perché prossimo alla pensione, forse la presunzione, il delirio di onnipotenza di alcuni scienziati, laddove la ricerca dovrebbe essere improntata al massimo di umiltà ha fatto il resto. Non vorrei sembrare clericaleggiante, io cattolico liberale, ma la notizia del fallimento del Cern è giunta alla vigilia della lettura che oggi la Chiesa propone ai fedeli, tratta dal Libro di Qoèlet che si apre con un istruttivo “vanità delle vanità, tutto è vanità”. Al 2009!
25 settembre 2008

Due comuni se ne vanno dalla loro regione
Le province non le regioni sono nella storia delle popolazioni

di Salvatore Sfrecola

Dopo la nota un po’ provocatoria con la quale, sulla base di un’analisi storica dell’evoluzione degli enti locali in Italia e ricordando un’iniziativa di Marco Minghetti all’indomani dell’unità d’Italia in favore di “consorzi permanenti di province”, suggerivo di abolire le regioni, una conferma della validità della tesi la leggiamo sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana n. 222 del 22 settembre 2008. Con un decreto del Presidente della Repubblica del 16 settembre viene indetto il referendum popolare per il distacco del comune di Meduna di Livenza dalla regione Veneto e la sua aggregazione alla regione autonoma Friuli-Venezia Giulia e il distacco del comune di Leonessa dalla regione Lazio e la sua aggregazione alla regione Umbria. Non sono iniziative estemporanee, nate per caso. In entrambi i casi la vicinanza delle popolazioni interessate sono vicine per storia civile ed economica e consuetudini alle province nelle quali chiedono di immettersi. Le province, anche se il referendum si riferisce alle regioni. In particolare il comune di Leonessa, località montana alle spalle del Monte Terminillo è di cultura umbra, ad un passo da Norcia e Cascia, ad esse collegato anche sul piano delle infrastrutture viarie. Leonessa non si sente reatina, come indica la collocazione provinciale né laziale. E’ stata sempre ai margini dello Stato della Chiesa, Terminillo, il monte alle spalle del quale di stende la ridente cittadina, ha un nome che la dice tutta. E’ il termine, il confine, al di là del quale c’è altra storia, ci sono altre relazioni commerciali, altre prospettive turistiche. Alla vigilia del centocinquantesimo anno della sua storia unitaria l’Italia amministrativa, quella degli enti locali, andrebbe ridisegnata, seguendo i percorsi lungo i quali si è sviluppato il contesto culturale, economico, produttivo delle popolazioni, che si distinguono anche per i dialetti. Ridisegnare la geografia del Paese per rimodulare i poteri degli enti locali e dello Stato in vista del federalismo fiscale. E se proprio non si vogliono abolire le regioni per sostituirle con consorzi volontari e permanenti di province omogenee per cultura e storia ma anche per interessi economici, comunque è necessario rivedere la ripartizione delle competenze in materia legislativa tra regioni e Stato, a salvaguardia dell’unità della Repubblica (l’articolo 5 della Costituzione non è stato abrogato nonostante la riforma dell’articolo 117 che definisce gli spazi della legislazione esclusiva e concorrente) e per il buon funzionamento del federalismo che se non è fiscale non è federalismo, ma dovrebbe unire e non dividere. Il percorso è lungo ed i problemi sono tanti, ma vanno affrontati con serietà per evitare il caos e una conflittualità permanente.
24 settembre 2008

Capitalismo straccione
di Oeconomicus

C’è un aspetto per nulla affrontato nei commenti sulla vicenda Alitalia. L’assenza assoluta di interlocutori nazionali al di là della “cordata” parecchio eterogenea che milita sotto la bandiera di CAI, la Compagnia Aerea Italiana, presieduta da Colaninno. Che non si trovi altro gruppo di imprenditori disposti ad impegnarsi nel trasporto aereo, perché interessato a qualche aspetto della gestione di Alitalia è sintomatico della modestia dell’imprenditoria italiana che, da sempre, vive all’ombra delle commesse pubbliche e delle agevolazioni che a vario titolo riceve da Stato e regioni. Uscita di scena l’I.R.I. che, con pregi e difetti, aveva comunque gestito una stagione dell’economia italiana con molto onore, anche sui mercati internazionali, basti pensare a Bonifica ed a ITALSTAT, che hanno progettato e realizzato in tutto il mondo opere gigantesche, oggi le più grandi imprese italiane sono giù nella graduatoria europea, per fatturato e tecnologia. A Roma ne abbiamo un esempio con le opere pubbliche della Capitale, dalla Metropolitana al parcheggio del Pincio, incappate in difficoltà archeologiche per l’assenza di capacità progettuali e tecnologiche che permettano di operare in profondità, laddove non si trovano reperti archeologici. Ricordo quel che mi disse alcuni anni fa un mio amico alto dirigente del Ministero dei lavori pubblici a proposito della gara europea per interventi sul porto di Bari. Le nostre imprese più accreditate presentavano in curriculum con modesti lavori di dragaggio in qualche porto minore, le straniere esibivano imponenti lavori di costruzione di moli e banchine nei più grandi porti, da New York a Rotterdam. Manca una mentalità veramente imprenditoriale, capacità di progettare e di realizzare usando le tecniche più moderne. Mani Pulite ha dimostrato che molti imprenditori preferiscono le commesse acquisite mediante scorciatoie “politiche”, comodamente assisi sulle poltrone ministeriali in attesa che prodotti con nessuna possibilità di essere collocati sul mercato vengano “scelti” da qualche pubblica amministrazione. Per tutti ricordo il caso della “Duna”, quella modesta vetturetta della FIAT che si è vista sulle strade italiane in pratica solo con i colori di qualche Forza Armata. Adesso con ALITALIA non si fa avanti nessuno, tranne quella “cordata” messa su in fretta tra non addetti ai lavori solamente per soddisfare una legittima aspirazione del Governo a non perdere la faccia. Così non si va da nessuna parte. E non solo in aereo!
23 settembre 2008

L’apologia della legalità di Piero Calamandrei

A molti forse il nome di Piero Calamandrei non dice molto. Egli fu un insigne studioso, giornalista e uomo politico. Nato a Firenze nel 1889 fu professore di Diritto Processuale Civile nelle Università di Messina, Modena, Siena ed infine Firenze. Prese parte alla Prima guerra mondiale come ufficiale volontario combattente nel 218° Reggimento di Fanteria. Si schierò pubblicamente contro Mussolini e la dittatura, aderendo nel 1925 al Manifesto degli Intellettuali Antifascisti di Benedetto Croce. Fu uno dei pochissimi professori e avvocati che rifiutò la tessera del Partito Nazionale Fascista. Nel 1942 fu tra i fondatori del Partito d’Azione con Ugo La Malfa e Ferruccio Parri. Preferì dimettersi da professore universitario piuttosto che sottoscrivere una lettera di sottomissione a Mussolini che il Rettore della sua Università pretendeva. Dopo l’8 settembre fu colpito da mandato di cattura. Dopo la Liberazione fu membro della Consulta Nazionale e dell’Assemblea Costituente per il Partito d’Azione. E’ considerato, a giusto titolo, uno dei “Padri” della nostra Costituzione. Sua nipote Silvia Calamandrei, ricercatrice, ha recentemente curato l’uscita del volume “Fede nel diritto”, che contiene il testo inedito di una conferenza che Piero Calamandrei pronunciò nel gennaio del 1940. Nell’introdurlo Gustavo Zagrebelsky, Presidente emerito della Corte Costituzionale, sostiene che la conferenza è un’ apologia della legalità. La legalità è per lui un elemento morale, che corrisponde esso stesso a un’ idea di giustizia perché crede che la legge in se stessa, in quanto cosa diversa dall’ ordine particolare o dalla decisione caso per caso, contenga un elemento morale di importanza tale da sopravanzare addirittura l’ ingiustizia eventuale del suo contenuto. La legge generale e astratta «significa che il diritto non è fatto per me o per te, ma per tutti gli uomini che vengano domani a trovarsi nella stessa condizione in cui io mi trovo. Questa è la grande virtù civilizzatrice e educatrice del diritto, del diritto anche se inteso come pura forma, indipendentemente dalla bontà del suo contenuto: che esso non può essere pensato se non in forma di correlazione reciproca; che esso non può essere affermato in me senza esser affermato contemporaneamente in tutti i miei simili; che esso non può essere offeso nel mio simile senza offendere me, senza offendere tutti coloro che potranno essere domani i soggetti dello stesso diritto, le vittime della stessa offesa. Nel principio della legalità c’è il riconoscimento della uguale dignità morale di tutti gli uomini, nell’ osservanza individuale della legge c’ è la garanzia della pace e della libertà di ognuno. Attraverso l’ astrattezza della legge, della legge fatta non per un solo caso ma per tutti i casi simili, è dato a tutti noi sentire nella sorte altrui la nostra stessa sorte»………..«Indipendentemente dalla bontà del suo contenuto», «anche quando il contenuto della legge gli fa orrore». La certezza del diritto è il valore che primariamente è in gioco, un valore strettamente intrecciato alla sicurezza del singolo, affinché possa «vivere in laboriosa pace la certezza dei suoi doveri, e con essa la sicurezza che intorno al suo focolare e intorno alla sua coscienza la legge ha innalzato un sicuro recinto dentro il quale è intangibile, nei limiti della legge, la sua libertà». Il principio sottinteso è perciò che la legge è uguale per tutti. Non come in Italia dove è uguale per tutti meno quattro!!!
(da: http://www.antonioborghesi.it/index.php?option=com_content&task=view&id=119&Itemid=1)
21 settembre 2008

Un’analisi di Renato Mannheimer
Se un italiano su tre è a favore della pena di morte!

di Salvatore Sfrecola

E’ un dato preoccupante quello di cui riferisce Renato Mannheimer oggi sul Corriere della Sera, a pagina 13, sulla pena di morte vista con favore dal 31 per cento degli italiani, un forte balzo avanti rispetto al 26 per cento del 2005. Il dato è preoccupante e va analizzato. Perché quell’aspettativa di riforma con introduzione della massima pena, che la Costituzione ha abolito (art. 27, comma 4, “Non è ammessa la pena di morte…”), non fa onore alla tradizione giuridica del nostro Paese, almeno da Cesare Beccaria (Dei delitti e delle pene) in poi. Pena del tutto inutile, come è stato dimostrato, che soddisfa solo il desiderio di sicurezza del cittadino, di parte dei cittadini, rispetto ai delitti più gravi, come se la prospettiva della condanna capitale fosse capace di dissuadere il delinquente dal commettere il fatto che con quella pena è sanzionato. Se si pensa che il rapinatore di banche, l’assaltatore di trasporti di denaro o il mafioso che compie la spedizione punitiva a carico della cosca rivale mette in conto la morte nell’operazione, quale ulteriore preoccupazione può derivargli dalla condanna dei giudici che non è certa, potendo contare sulla latitanza e la protezione del suo ambiente, per non dire delle lungaggini dei processi, tanto più lenti quando dovesse essere pronunciata una condanna a morte? Il fatto vero, che Mannheimer mette bene in risalto è la sfiducia nella giustizia penale, nella sua tempestività nell’istruttoria e nella conclusione del processo. Ugualmente preoccupa i cittadini l’incertezza della pena, la sua completa espiazione, che in fin dei conti è l’unico vero deterrente che spaventa chi si appresta a delinquere. Purtroppo in Italia la certezza della pena non c’è. Tra misure premiali di comportamenti che dovrebbero essere espressione di ravvedimento, che in molti casi l’esperienza dice non essere tali, e ricorrenti indulti, in pratica nessuno sconta la pena alla quale è stato condannato. Casi clamorosi di cronaca convalidano questa preoccupazione degli italiani i quali in gran parte ritengono che la situazione attuale sia quasi di incentivo alla delinquenza, in una sorta di impunità annunciata. E’ facile qualche esempio. Il primo che mi viene in mente quello del giovane che ha ucciso allo stadio, condannato a sedici anni, uscito di prigione dopo undici mesi. E se ne potrebbero citare di casi tali da “giustificare” quel giustizialismo che, secondo il sociologo Domenico De Masi, sempre sul Corriere di oggi alla medesima pagina, “c’è da sempre” nel Paese. E, con riferimento alla democrazia bipolare, afferma che “è chiaro che il centrodestra al governo contribuisce a incrementare nella gente il bisogno di sicurezza”. Affermazione errata o comunque azzardata, in quanto l’esigenza di sicurezza è comune alla gente, soprattutto nelle fasce più deboli della popolazione, quelle che temono l’aggressione sotto casa, lo scippo, che sentono l’insicurezza per i figli, siano i drogati al volante o gli spacciatori. In questo senso le classi medio alte, per cultura e per lo stato personale, sono meno propense alla scelta della pena capitale. Eppure la tesi di De Masi è diffusa ed ha fatto perdere le elezioni alla Sinistra di tutti i colori caduta sull’insufficiente contrasto alla delinquenza interna e di importazione. Non è questa la prova che l’esigenza di sicurezza è diffusa? Lo dice anche il crescente successo a Sinistra di Antonio Di Pietro, che della legalità è da sempre campione, piaccia o meno il modo con il quale conduce la sua battaglia.
21 settembre 2008

Scherza coi fanti e lascia stare i santi
Diplomazia, cattivo gusto e diritto violato

di Salvatore Sfrecola

Il Santo Padre “nella sua magnanimità considera certamente conclusa la vicenda”. Così Padre Federico Lombardi, Portavoce della Santa Sede, commenta la decisione del Ministro della giustizia, Angelino Alfano, di non concedere l’autorizzazione al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma, Giovanni Ferrara, che aveva chiesto di poter procedere nei confronti di Sabina Guzzanti per le offese al Papa in occasione della sua performance a Piazza Navona in occasione del No Cav day. “Andrà all’inferno – così la Guzzanti parlando del Papa – tormentato dai diavoloni frocioni attivissimi”. Satira? Niente affatto! Cattivo gusto gratuito, un modo come un altro per un’attrice con dei numeri che si va spegnendo e per sopravvivere sul palcoscenico deve ricorrere all’insulto. Che è cosa diversa dalla satira, da quella intelligente ironia che mette in risalto i difetti o gli errori di personaggi della cronaca politica, di quella satira che è il sale della libertà di espressione del pensiero, che tutto può finché non si giunge all’insulto che non è più messa in berlina del personaggio preso di mira ma oltraggio alla persona ed alla sua dignità. E’ qui il limite che la satira vera non supera, non tanto per preoccupazioni di ordine giudiziario quanto per non disgustare chi ascolta e che dalla satira è attratto e che la gusta. Anche chi ne è in qualche modo “vittima” si compiace della satira “vera” che in qualche misura gli giova. Mai, poi, oggetto di satira può essere la religione ed i suoi rappresentanti. Come dimostra la ribellione dei musulmani di mezzo mondo nei confronti delle vignette danesi su Maometto. Le divinità non si toccano! Ugualmente non si toccano i loro rappresentanti sulla terra. Neppure la satira vera, non quindi l’insulto alla Guzzanti, può essere ammesso, per rispetto alla religione ed a quanti in essa si riconoscono. Ma veniamo alla scelta del Ministro Alfano il quale vi è stato indotto, nonostante il diverso parere dei suoi uffici, “ben conoscendo – così ha detto – lo spessore e la capacità di perdono che prevalgono sulle offese stesse”. La frase merita qualche commento. Innanzitutto non è dubbio che il Papa avrebbe perdonato. E’ proprio di un cristiano ed è particolare di una personalità come quella di Joshef Ratzingher, uomo di fede altissima e personalità di elevata cultura. Ma il Ministro della giustizia, che ha identificato nelle parole della Guzzanti delle “offese”, quindi di una condotta penalmente rilevante, ha creduto di fare uso di diplomazia e di senso dell’opportunità. Quelle che hanno lodato Roberto Castelli e Maurizio Lupi i quali hanno plaudito alla “saggezza” del Ministro. Il secondo, in particolare, esponente di Forza Italia e, si dice, di Comunione e LIberazione, con le sue considerazioni darebbe anche il senso di un orientamento di ambienti cattolici. Non ho difficoltà a credere che la scelta di Angelino Alfano sia stata preceduta da consultazioni con il Premier, come scriveva ieri La Repubblica a pagina 16, e probabilmente anche con ambienti della Santa Sede, come farebbe intendere la dichiarazione di Padre Lombardi. La scelta è comunque sbagliata sul piano giuridico, anche se il codice prevede che occorra l’autorizzazione del Ministro della giustizia in punto di opportunità. Che non c’è, a mio avviso, in questo caso perché atteggiamenti come quelli della Guzzanti, che sono estranei alla civiltà del nostro popolo, vanno immediatamente puniti ad evitare che il senso dell’impunità di chi confonde satira con insulto possa tornare, come tornerà sicuramente vista la scelta ministeriale, a colpire. Ancora il Papa, che può – così si è oggi sentenziato – essere impunemente offeso, ed altre personalità della vita civile e culturale del Paese. Il Governo e le autorità che lo rappresentano hanno il dovere di applicare la legge e quando sono titolari di un potere di scelta, come nel caso, originato da esigenze di opportunità politica, devono esercitarlo con equilibrio individuando nella fattispecie concreta il pericolo di una reiterazione della condotta illecita che non può essere tollerata. Diverso sarebbe stato se l’insulto fosse venuto da qualche mentecatto certificato sotto gli effetti dell’alcool di di qualche droga, un comportamento che facilmente costituisce un unicum. Qui, caro Ministro, non è in gioco la libertà di manifestazione del pensiero ma l’onore di una personalità di livello mondiale. Per cui vale sempre l’antica massima scherza coi fanti e lascia stare i santi. Infine, che senso ha dare spazio ad un’attricetta che per farsi pubblicità non trova altro che insultare il Romano Pontefice consentendole di continuare ad insultare?
20 settembre 2008

I sanpietrini di largo della Fontanella di Borghese
di Marco Aurelio

Raccontava mio padre, per averlo appreso dai suoi maggiori, che Appio Claudio, divenuto cieco, volle comunque provvedere al collaudo della via che aveva fortemente voluto, la prima grande strada di grande comunicazione, come si direbbe oggi, della res publica destinata a collegare Roma a Napoli, essenziale per trasferire truppe il controllo del territorio e fondamentale per i commerci con una vasta area influenzata dalla cultura greca. Non assistito più dalla vista Appio Claudio provvide al collaudo personalmente percorrendo ampi tratti a piedi nudi. Così potè misurare la dimensione delle pietre, la loro collocazione, il livello della strada. Chissà, dunque, cosa direbbe oggi il nostro Console se fosse chiamato a collaudare i sanpietrini, le pietre quadrate in selce tipiche della pavimentazione delle strade romane, collocate in largo della Fontanella di Borghese, nel centro storico della Città, appena messi in opera dopo una lunga preparazione. Anche a camminare con i calzari troverebbe le stesse difficoltà che i romani di oggi incontrano con scarpe di ben migliore fattura, in particolare le signore con tacchi di qualche centimetro. Il livello del piano è incostante, molti sanpietrini sono stati collocati nonostante fossero rotti o incrinati. Camminare su quelle pietre è scomodo, scomodissimo e fa perdere a romani e turisti il senso antico e magico di quell’antica pavimentazione nota in tutto il mondo. Il fatto è che non ci sono più i selciaioli di un tempo, quelli che collocavano le pietre, con accurata geometria, in un letto di sabbia gialla finissima sovrastante un piano stabile, perché il selciato non alterasse il suo profilo e le pendenze richieste. Lavoravano con martelli di legno perché la selce non s’incrinasse e con altri strumenti più grandi, sempre di legno, per la medesima precauzione. Il tutto solo la vigile guida di vecchi maestri d’arte. Oggi gli operai usano martelli di ferro con rischi gravi per le selci mentre la sabbia finissima d’un tempo è sostituita da un misto di terraglie. La tecnica moderna, in questo caso non migliora la resa dell’opera nell’immediato e nel tempo. Inoltre, ma questo è un problema che riguarda tutti i lavori di manutenzione delle strade di Roma, i collaudi lasciano a desiderare, nel senso che non assicurano la corretta realizzazione dell’opera. A regola d’arte, come si dice. Che ne può sapere di queste cose un imperatore, sia pure filosofo? Il fatto è che è lo stato del manto stradale a parlare, anzi ad urlare la sua rabbia. Buche, voragini, improvvisi abbassamenti del livello di parti significative delle strade delimitano in modo inequivoco le aree che sono state oggetto di lavori. Così si possono ripercorrere gli scavi che hanno riguardato i lavori sui cavi metro dopo metro, a dimostrazione che non sono state rispettate la clausole rigide contenute nelle deliberazioni con le quali il Comune di Roma ha definito le tecniche di lavorazione sulle strate. Perfino il colore dell’asfalto può essere realizzato in modo da assicurare una continuità cromatica con le altre parti del manto stradale. Evitando le pezze a colore che caratterizzano la Città, un pugno nell’occhio che volentieri darei soprattutto ai collaudatori che affermano che i lavori sono stati realizzati “come da capitolato”.
20 settembre 2008

La corruzione: abolita per decreto – legge!
di Salvatore Sfrecola

Non mi sono mai occupato dell’Alto Commissario per la lotta alla corruzione, da quando l’Ufficio è entrato in funzione. Ho evitato accuratamente qualunque commento sull’attività di questo nuovo organismo per il fatto che avevo contribuito in prima persona alla stesura del regolamento, tanto che qualche organo di stampa aveva fatto il mio nome come “candidato” a quell’incarico. Si era scritto che ero in pole position per la nomina in virtù della mia esperienza di procuratore della Corte dei conti e di ex Presidente dell’Associazione Magistrati della medesima magistratura. Quando, poi, quell’incarico fu attribuito ad altri alcuni organi di stampa, compresa l’Agenzia dell’Italia dei Valori, scrisse che si era voluto evitare la scelta in favore di uno che ne sa molto.
In verità io non avevo mai ambito a quella carica. Per puro spirito di servizio avevo messo a disposizione la mia esperienza per la definizione delle funzioni dell’Alto Commissario, che la legge attribuiva ad un regolamento. Fui soddisfatto di quel lavoro, anche con tutti i limiti del ruolo attribuito dalla legge al nuovo organismo posto “alle dirette dipendenze” del Presidente del Consiglio dei ministri.
Un errore di fondo. L’Alto Commissario per la lotta alla corruzione non può essere alle dipendenze di un’autorità amministrativa, neppure se a Palazzo Chigi sedesse Quintino Sella. La funzione di prevenzione e contrasto alla corruzione è evidentemente da svolgere in piena autonomia e indipendenza e l’incarico deve atteggiarsi come un’autorità indipendente. La legge ha voluto diversamente e così, piano piano, Commissario dopo Commissario l’ufficio ha visto appannato il suo ruolo, anche per la scelta delle personalità chiamate a ricoprire l’incarico. Prima un magistrato penale, Tatozzi, poi alcuni Prefetti, tutti personaggi illustri ma con scarsa conoscenza dell’Amministrazione, o con professionalità più diretta al contrasto alla delinquenza comune che a quella dei “colletti bianchi”. Anche se spesso pressioni malavitose, sono dietro alcuni dei fenomeni di corruzione che si sono verificati nel nostro Paese e tuttora costituiscono una palla al piede dell’Amministrazione, soprattutto a livello di ente locale.
Sarebbe stato dunque necessario potenziare l’Ufficio ed attribuirgli quell’indipendenza che è condizione per un buon esercizio della funzione.
Invece l’Alto commissariato è stato abolito per decreto, con l’art. 68, comma 6, lettera a) del decreto legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133.
Naturalmente l’iniziativa ha destato sconcerto e provocato ilarità. “C’è un problema. Anzi… c’era”, ha scritto Buon Peppe su www.reset-italia.net ricordando che il Governo Berlusconi che oggi lo abolisce aveva istituito con la legge n. 3 del 16 gennaio 2003 l’Alto commissariato per la prevenzione ed il contrasto della corruzione e delle altre forme di illecito nella pubblica amministrazione.
Ricorda anche che la struttura ha cominciato a funzionare veramente solo a distanza di quasi due anni, quando con il DPR n. 258 del 6 ottobre 2004 è stato emanato il regolamento che ne stabilisce il funzionamento. Anche se per la verità “le cose non sono andate benissimo, se nella relazione presentata a gennaio 2008 alla presidenza del consiglio dei ministri il titolare dell’alto commissariato, l’ex prefetto di Roma Achille Serra, si lamenta di non riuscire ad operare adeguatamente”.
Scelte tutte sbagliate, in quanto la lotta alla corruzione affidata all’Alto Commissario non è esattamente compito di polizia o di giustizia penale, altrimenti sarebbe stata una duplicazione di procure o di questure. È, invece, compito di prevenzione e di identificazione dei fenomeni e delle condizioni di operatività delle amministrazioni che agevolano o non contrastano i fenomeni corruttivi. Sarebbe stato necessario, dunque, affidare l’incarico a chi conosce bene l’Amministrazione, alti dirigenti della stessa o magistrati amministrativi che nel loro lavoro vengono quotidianamente a conoscenza delle patologie della gestione, anche quando non assume le caratteristiche di illecito penale. È operando su quelle situazioni che si dissuadono corrotti e corruttori.
Cosa accadrà oggi. Dopo l’abolizione della corruzione per decreto? Come la metteremo con le sollecitazioni che provengono dall’O.N.U. e dall’Unione Europea?
Da notare che l’Alto Commissariato viene soppresso all’indomani della conferenza di Helsinki dal 12 al 14 dicembre, cui hanno partecipato rappresentanti di 24 Paesi dell’Unione Europea e dei 4 Stati “osservatori” (Albania, Croazia, Montenegro, e Serbia). Al termine della conferenza, che ha visto momenti di confronto fra le diverse autorità rappresentate, è stata approvata la dichiarazione finale (disponibile sul sito internet e), nella quale viene particolarmente sottolineata la necessità che alle autorità anticorruzione venga assicurata la necessaria indipendenza, anche attraverso un’appropriata normativa ed adeguati mezzi finanziari, per accrescere l’efficacia e la credibilità della attività di contrasto alla corruzione. Inoltre, nella medesima dichiarazione, si conferma l’impegno delle autorità aderenti alla rete per intensificare gli scambi di esperienze e per elaborare standard e prassi di riferimento comuni, attraverso l’attività di specifici gruppi di lavoro, espressamente costituiti.
Preoccupazioni per la soppressione dell’Alto Commissariato ha manifestato Drago Kos, Presidente del GRECO (Group of States against Corruption), che l’8 luglio scorso, in una lettera indirizzata all’alto commissario anticorruzione, esprime “grave preoccupazione” per la soppressione della struttura. Il provvedimento che ha soppresso l’ufficio potrebbe avere, per il presidente del GRECO, “spiacevoli conseguenze nella lotta alla corruzione in Italia”. Le motivazioni della decisione saranno oggetto di esame al prossimo meeting plenario di ottobre, nel quale l’Italia dovrà per la prima volta essere “valutata sul campo” dal GRECO. Valutazione che avviene ad un anno esatto dall’adesione formale dell’Italia come 45° membro del gruppo nato nel 1999 nell’ambito del Consiglio d’Europa.
19 settembre 2008

Quando mancano le regole
Finanza “creativa” alla sbarra

di Salvatore Sfrecola

Scrive Massimo Severo Giannini nel suo “Diritto pubblico dell’Economia” che gli ordinamenti generali, quelli che poi nel tempo ci siamo abituati a chiamare “stati”, hanno sempre disciplinato le vicende dell’economia, con regole dirette a dare certezza agli operatori economici ed al mercato, in primo luogo ai consumatori, ai quali oggi l’Unione europea assicura una speciale protezione. C’erano regole e istituzioni deputate a farle rispettare, con una serie di controlli preventivi, di legittimità, cioè finalizzati a verificare che le condizioni previste dalle leggi fossero rispettate. Ma i controlli, si capisce, danno fastidio e così sono stati aggrediti con argomentazioni all’apparenza ragionevoli. Troppi controlli, dicevano i giuristi della nouvelle sociologie. Aggiungendo che essi, in particolare i controlli preventivi, quelli che vengono “prima” che l’atto assuma efficacia, sono deresponsabilizzanti, nel senso che il funzionario si sente coperto dalla decisione del controllore, è meno innovativo. In sostanza va al rimorchio della giurisprudenza del controllo. E così i controlli sono stati cassati quasi dappertutto, soprattutto laddove si gestiscono, spesso in condizione di difficile valutazione dei rischi, come negli enti locali, ingenti somme di denaro. Ma anche nello Stato, i cui funzionari mantengono in Italia comunque una elevata professionalità, superiore a quella degli altri enti pubblici, territoriali ed istituzionali, e dei privati. Bisognava limitare i controlli preventivi agli atti per la cui adozione sono dettate alcune regole dirette a delimitare il raggio di azione delle amministrazioni e dei privati, come ha sempre affermato Manin Carabba, già magistrato della Corte dei conti, uno dei massimi studiosi di finanza pubblica e di controlli. Ma la potatura della pianta è stata drammatica e la legge 14 gennaio 1994, n. 20, che all’art. 3 ha rimodulato il sistema dei controlli, ha puntato soprattutto sui controlli “di gestione” o “sulla gestione”, ritenuti più “moderni”, che si sono rivelati tuttavia poco efficienti, perché, come ebbe a scrivere Beniamino Finocchiaro su Politica e Mezzogiorno, i controlli fatti in casa non assicurano nessuna efficacia deterrente dell’illegittimità e dell’inefficienza, né servono, come pure si afferma a gran voce, a guidare l’amministrazione per il futuro. La potatura del sistema dei controlli del 1994 era stata preceduta da altra, più drastica revisione degli atti soggetti a riscontro (legge n. 400 del 1988), come i decreti legge e i decreti legislativi, atti amministrativi a contenuto normativo, ritenuto per questo incompatibili con il controllo preventivo, anche se la Costituzione all’articolo 100, comma 2, attribuisce alla Corte dei conti il controllo “sugli atti del governo”, una categoria della quale sono tipici provvedimenti i decreti legge ed i decreti legislativi. Soprattutto questi ultimi sono stati ripetutamente imputati di violazione delle disposizioni della delega la quale sua volta è spesso generica, anziché individuare con esattezza i “principi e criteri direttivi” (art. 76 Cost.). Sicché il Parlamento risulta spogliato dei propri poteri che conferisce al Governo in forma generica e che non ha più la possibilità di controllare efficacemente in quanto il parere successivo sulla bozza di decreto legislativo, che vorrebbe sostituire il controllo, è espressione flebile della funzione parlamentare che già eclissatasi in sede di delegazione. Ma non è solo a livello interno che è venuta meno la cultura delle regole. Sul Corriere della Sera di oggi, a pagina 8, il Ministro Tremonti, intervistato da Aldo Cazzullo, afferma che “servono nuove regole, politiche keynesiane e una morale del lavoro”. Ed continua sostenendo che “alle radici del male c’è la dissociazione tra finanza e regole: la globalizzazione ha internazionalizzato la finanza, la finanza ha finanziato la globalizzazione. La finanza si è progressivamente staccata dalla giurisdizione nazionale d’origine. Le regole restavano locali mentre la finanza diventava internazionale, trasferendosi in un suo proprio regno fatto di anarchia e anomia”. E che dire della “finanza creativa” che ha indebitato per generazioni enti locali e società pubbliche? E’ inutile a questo punto lamentare “il fallimento dei meccanismi di sorveglianza e di vigilanza” per giungere alla conclusione che “se il male è stato l’assenza di regole, la cura può essere solo nella costruzione di regole”. Il fatto è che con la scusa che “privato è bello” si è persa la nozione di equilibrio tra pubblico e privato, il primo in funzione di garanzia e di gestione delle aree a rischio ma di interesse generale, il secondo impegnato nell’intrapresa rischiosa. Si sono privatizzate, meglio dire svendute parti rilevanti del patrimonio pubblico di beni e Know how che ad esempio l’Italia possedeva ad alto livello nelle società dell’I.R.I. che sono state smantellate in favore di privati che hanno disperso questa immensa ricchezza. Privati di una modestia senza pari, assistiti dall’autorità pubblica, incapaci di rischiare in proprio, esenti da ogni pericolo di fallimento, come dimostra il caso di Alitalia, così gravando sulla finanza pubblica per cifre da capogiro con la scusa di salvare livelli occupazionali in un Paese che di lavoro ne avrebbe tanto sol che si pensasse ad un modello di sviluppo adeguate alla realtà del territorio, della sua storia delle sue capacità di lavoro. Così il turismo degrada, come quell’immenso patrimonio, unico al mondo, che è stato realizzato grazie alla magnanimità di papi, re e principi con l’apporto dell’ingeno di generazioni di italiani lungo tre millenni. Ma il turismo non ha neppure un ministero ed i beni culturali non riescono a diventare nei fatti dei conti del PIL il petrolio del Bel Paese.
18 settembre 2008

A Ballarò l’immagine deprimente della politica italiana
di Senator

Deprimente, veramente deprimente l’immagine della politica italiana che maggioranza ed opposizione hanno dato ieri sera a Ballarò, nonostante l’impegno e l’abilità professionale di Floris che ha cercato di stimolare il dibattito. Che si è svolto stancamente tra slogan e luoghi comuni. Neppure la verve di Antonio Di Pietro e l’aplomb emiliano di Pier Luigi Bersani sono riusciti ad infiammare la serata, nonostante i problemi posti sul tappeto fossero tanti, dalla politica sociale e fiscale ai problemi dello sviluppo, alla vicenda delle contestate leggi ad personam alla crisi dell’Alitalia, appena sfiorata. Cicchitto e Gasparri, chiamati a rappresentare la maggioranza, hanno parlato per spot e non è stato approfondito il problema del momento, la crisi economica internazionale ed i possibili riflessi sul nostro Paese e soprattutto la grave situazione del mercato interno, condizionato dall’aumento dei prezzi e dalle difficoltà delle famiglie. Un circuito infermale che fa intravedere crisi della produzione e del commercio con inevitabili riflessi sull’occupazione. Doveva essere l’argomento del giorno. Invece, nonostante Bersani lo abbia ripetuto più volte sul tema non si è sviluppato quel dibattito che l’argomento avrebbe meritato. Ne è uscita l’immagine della classe politica italiana, di governo e di opposizione, modesta, modestissima, incerta sui principi e sulle regole, incapace di delineare strategie credibili. L’una, quella di maggioranza, che ha scoperto l’effetto mediatico dell’annuncio e della affermazione dei risultati, indipendentemente dalla loro verifica, l’altra, quella di opposizione, che non esce dall’ombra nella quale l’ha confinata la modesta performance di Romano Prodi duramente sanzionata da una severa sconfitta elettorale. E gli italiani stanno a guardare!
17 settembre 2008

Giove pluvio allevia temporaneamente il disagio dei romani
Un acquazzone lava la Città, ma il tanfo continua

di Marco Aurelio

Le preghiere dei quiriti sono evidentemente giunte là sull’Olimpo e Giove pluvio commosso ha fatto piovere in abbondanza ieri sera sulla Capitale le cui strade si sono immediatamente ricoperte di una schiuma giallastra nauseabonda. E’ il sudicio accumulato da mesi d’incuria dell’amministrazione capitolina che da Veltroni ad Alemanno trascura l’esigenza elementare della pulizia delle strade e dei marciapiedi, le une e gli altri invasi da liquami maleodoranti e cacche di cani. E’ un problema che gli amministratori capitolini non riescono a percepire. Abituati a muoversi con auto di servizio che sfrecciano veloci, con i finestrini rigorosamente chiusi per non disperdere l’effetto dell’aria condizionata, non hanno il tempo di percepire il cattivo odore che ammorba la Città. Sentivo giorni fa parlare di delusione. Non ho compreso a chi si riferisse. Ma è certo che la classe politica di Destra e di Sinistra è sempre più lontana dai problemi veri della gente. La pioggia di ieri, infatti, non è sufficiente a restituire ai romani ed ai tanti turisti la Città che vorrebbero, che alcuni non meritano perché contribuiscono a sporcarla (i padroni dei cani, ad esempio e non solo). Ma è certo che la maggioranza la pensa come il suo imperatore. Silenziosa, al momento, ma non è detto che un giorno di questi non si metta ad urlare forte tutta la sua rabbia.
13 settembre 2008
P.S.
“Pulizia, soddisfatto solo un romano su 3”, titola il Corriere della Sera di oggi a pagina 5 della cronaca di Roma. Gli altri due evidentemente hanno difficoltà all’olfatto.
Intanto Franco Panzironi, nuovo amministratore delegato dell’AMA, dichiara che “la situazione dei servizi di igiene a Roma è difficile e l’azienda versa in una condizione organizzativa confusa”. Speriamo che a fare chiarezza sia la magistratura che ha avviato indagini su vari fatti di gestione di questo carrozzone mangiasoldi.

In vista del federalismo fiscale
E se, invece delle province, abolissimo le regioni?

di Salvatore Sfrecola

Se invece delle province abolissimo le regioni? Sostituendole con “consorzi permanenti di province”, come aveva proposto nel 1861 il Ministro dell’interno Marco Minghetti, in un disegno di legge finalizzato a conservare elementi propri delle diverse tradizioni amministrative, che esaltasse le omogeneità di esperienze storiche e di vocazioni culturali ed economiche? In pieno dibattito sul federalismo fiscale, cioè sull’attuazione concreta del federalismo delineato dalla riforma costituzionale del 2001, torna la proposta di abolizione delle province, complice, da un lato, la scarsa visibilità delle loro, pur non irrilevanti attribuzioni, dall’altra l’esigenza di recuperare risorse alla finanza federale. Competenti per sicurezza stradale, formazione professionale, politiche per l’occupazione, garanzie agroalimentari, ambiente e difesa del suolo, edilizia scolastica, urbanistica territoriale, queste ripartizioni territoriali definite all’indomani dell’unità d’Italia hanno avuto un’evoluzione storica che le ha fortemente penalizzate. Collegate essenzialmente alla figura del Prefetto, simbolo del “governo accentrato”, di matrice napoleonica, necessario all’indomani della proclamazione del Regno d’Italia per frenare alcune pericolose spinte centrifughe provenienti dalle maggiori realtà territoriali eredi degli stati preunitari, il ruolo delle province è rimasto a lungo in ombra, in particolare durante il Fascismo. Rispetto alle attribuzioni dei comuni, d’immediata percezione da parte del cittadino, più vicine alla realtà di tutti giorni, sia nelle grandi che nelle piccole realtà. È parsa soprattutto una ripartizione amministrativa dello stato centrale, anche fisicamente percepibile dalla coesistenza, in un unico Palazzo, prima qualificato “del Governo”, poi “della Provincia”, delle due autorità. Eppure, inconsapevolmente, la provincia è nel cuore degli italiani, in quanto area geografica di interesse storico e di rilevanza ambientale. Sono le province, infatti, che nell’Italia dei comuni, richiamano quelle più ampie aree di interesse economico, quei “distretti”, potremmo chiamarli con espressione di oggi, che rivelano una continuità di relazioni tra aggregati urbani pur di diversa dimensione e importanza. In sostanza, la storia sta nelle province non nelle regioni che sono spesso una costruzione artificiale, e pertanto arbitraria, di aggregazione di comuni e province che nella maggior parte dei casi non rivelano profili di omogeneità, con la conseguenza di determinare prevalenze di questa o di quell’area, a cagione della provenienza da questa o da quella provincia degli amministratori regionali. Si pensi al Lazio, che ha province più vicine per tradizione culturale alle limitrofi regioni che a Roma. Regioni, ha scritto Gioacchino Volpe, il grande storico del Medio Evo Italiano, il tempo nel quale si è cominciato a pensare italiano, che non si appoggiano “a nessuna tradizione storica”. Inoltre, un ordinamento dato “senza che nessuna specifica e diretta consultazione popolare lo convalidasse”. L’esigenza di valorizzare le specificità culturali e sociali delle province rimane, dunque, inalterata alla vigilia dei centocinquant’anni dell’unità dello Stato, come dimostrano iniziative che si sono registrate in alcune realtà territoriali nell’ambito delle quali comuni non piccoli, è accaduto in Veneto, hanno chiesto di essere aggregati a province di altra regione, quella di Trento, in particolare. Per motivi di convenienza economica e fiscale, certamente, ma che sono un segnale che in qualche modo va colto. Mi rendo conto che la proposta, che può apparire soprattutto una provocazione, non è di agevole attuazione e può apparire formalistica. Cosa differenzierebbe i consorzi di province dalle attuali regioni? Certamente la libertà dell’aggregazione, seguendo le fila della storia di quelle contrade, l’omogeneità territoriale, lungo i bacini fluviali, le catene montuose, la vocazione marinara, la propensione a valorizzare l’offerta turistica, la tradizione industriale o artigianale delle popolazioni. Ne uscirebbe un’Italia più integrata e meno conflittuale, più adeguata alla realtà europea che valorizza le espressioni autentiche delle autonomie locali in ossequio al principio di sussidiarietà. La proposta richiede che venga ridefinita la mappa dei poteri tra il centro e la periferia nella logica, propria di ogni realtà federale, che ad una vasta autonomia, anche legislativa, faccia da contrappeso un forte potere centrale in ogni settore che riveli interessi di carattere nazionale o comunque pertinenti ad una vasta area del Paese. In un equilibrio di poteri che è stato profondamente alterato dalla riforma del 2001 che ha fatto delle regioni il “legislatore generale”, cioè competente in ogni vicenda di rilevanza giuridica, relegando lo Stato in un cantuccio, l’ultimo degli enti territoriali nell’elencazione dell’art. 114 della Costituzione. C’è da dire che venti legislatori “generali” sembrano veramente troppi in un Paese delle dimensioni della nostra carissima Italia. “Al tavolo del federalismo – ha scritto Guido Gentili su Il Sole 24 Ore del 2 settembre, a pagina 12 (Abolire le Province, un’occasione da non perdere)– ci sono anche loro [le province], ma non potrebbe essere proprio questa l’occasione per mandarle in pensione?” Ed ha dimostrato, con dovizia di dati, che la loro abolizione, consentirebbe il recupero di ingenti risorse in vista del federalismo compiuto, come deve intendersi quello fiscale. Insieme a questa ipotesi, che riscuote vasti consensi, vorrei che il Ministro Calderoni considerasse anche questa “modesta proposta” per riformare l’Italia e restituire alle realtà locali quell’autenticità che è data dalla storia, che è sempre legata alla configurazione ambientale dei territori.
6 settembre 2008

Se non ideologie almeno un po’ di idee forza!
di Salvatore Sfrecola

Ho già detto nel mio libro sul quinquennio governativo 2001-2006 (Un’occasione mancata, Editrice Nuove Idee, Roma, 2006) che la fine delle ideologie, dai più riguardata come un fatto positivo, evidentemente per aver identificato quel concetto con l’esperienza tragica di Nazismo e Comunismo, in realtà priva la vita politica e culturale del Paese dell’apporto di idee forza, di riferimenti filosofici sull’uomo e sulla società. “Se oggi c’è crisi della politica e dei partiti – scrivevo – i motivi sono di natura culturale, e vanno ricercati nell’evidente inadeguatezza delle culture politiche in campo rispetto alle sfide dell’economia e della società globalizzate. In sostanza è una crisi di idee e di valori. Di qui lo sconsolato grido d’allarme di Marcello Veneziani: “le idee non servono più, in politica e nella società, nella cultura e nella comunicazione. Delle idee sopravvivono solo i loro idoli” (La sconfitta delle idee, Laterza, Bari, 2003, V). Come dargli torto, se abbiamo addirittura esaltato la crisi, o meglio la fine, delle ideologie! Senza pensare che, nel gioire giustamente per la sconfitta di concezioni della vita e della società variamente riconducibili ai regimi che hanno seminato lutti in Europa e nel Mondo lungo l’intero XX secolo, è stato addirittura teorizzato il superamento di ogni distinzione di idee e pensieri, quindi l’inutilità della contrapposizione, per esempio tra Destra e Sinistra, sostenendo che i partiti sono tutti uguali, che in ognuno vi è un tanto di trasversalismo, “nel senso che attraversano i campi nemici passando indifferentemente da un campo all’altro”. Che, pertanto, “bisogna ricominciare da capo, e andare “oltre”” (N. BOBBIO, Destra e Sinistra, ragioni e significati di una distinzione politica, Donzelli, Roma, 1994, 5, 12). Con la conseguenza di disincentivare ogni interesse ideale alla partecipazione al confronto, ed effetti negativi sulla selezione della classe dirigente politica, nella quale sembrano prevalere, più che la ricerca di scelte che corrispondano a valori grandi, aspettative di potere e di guadagni. Anche la partecipazione popolare al voto risente della minore tensione ideale”. Oggi su Libero Marcello Veneziani torna sull’argomento contestando al governo, del quale pure condivide le scelte al punto di definirlo “perfetto”, quanto a uomini e realizzazioni, una mancanza di attenzione per la cultura, evidentemente non quale settore di competenza dell’esecutivo, ma come riferimento ideale, fucina di idee e di programmi, che non possono essere guidati soltanto dal buon senso, che comunque è prezioso, e dal pragmatismo, che, però, rischia di correre dietro l’opinione della gente e non di interpretarla e guidarla, come dovrebbe una maggioranza fortemente coesa, con riferimenti ideali che si alimentano dell’elaborazione del pensiero politico. “Può esistere – si chiede e chiede ai suoi lettori Veneziani – un’azione di governo senza un cultura politica e civile alle spalle, un progetto culturale e civile di riferimento, una coerenza di fondo con le idee e i sentimenti del suo stesso elettorato?” Su questo fronte ‘insufficienza di una tensione ideale accomuna le parti politiche in campo. La Destra come la Sinistra che spesso contendono su argomenti marginali, con puntigliosa, ed inutile agli occhi degli italiani, critica di piccole cose. L’opposizione, che è il sale della democrazia, ricorda tanto la favola del lupo e dell’agnello. Superior stabat lupus, longeque inferior agnus, scrive Fedro nella celeberrima favola per dire di chi cerca ogni scusa per aggredire l’avversario. Il fatto è che i partiti di opposizione, è stato lo stesso della Casa delle libertà nella precedente legislatura, temono sempre di apparire, agli occhi del loro elettorato, succubi della maggioranza, acquiescenti o inciucisti e ritengono che l’opposizione si debba fare dicendo sempre “no”. Non è così, nelle grandi democrazie nettissima è la distinzione tra chi governa e chi si prepara a rimontare i consensi ed a vincere le elezioni. Ma il confronto, anche duro, è indirizzato al bene comune e l’opposizione si gloria di essere stata capace di convincere la maggioranza sulla base delle proprie idee forza. Le idee grandi, quelle delle quali si sente il bisogno nel dibattito politico, da quale stagione.
5 settembre 2008

A proposito del titolo di avvocato del Ministro Gelmini
Riformiamo gli esami di Stato!

di Salvatore Sfrecola

Mi sono appena occupato del Ministro Mariastella Gelmini e delle riforme, a mio giudizio validissime, da lei proposte o attuate, per cui avrei evitato di chiosare l’articolo di Gian Antonio Stella, oggi sul Corriere della Sera, in prima, con rinvio a pagina 21. Stella è giornalista e scrittore che stimo moltissimo. Le sue inchieste hanno lasciato il segno nella storia democratica di questo Paese. Fustigatore di costumi, come si deve da parte di un giornalista libero che scrive per un giornale che è un monumento dell’informazione italiana. Stavolta, tuttavia, non concordo con lui. La sua analisi è parziale e non affronta il tema della selezione affidata agli esami di Stato nelle varie professioni. E se la prende con il Ministro Gelmini, che ha riscoperto il merito negli istituti d’istruzione, per aver conseguito, qualche anno fa, l’abilitazione alla professione forense a Catanzaro, notoriamente la sede nella quale più alta è la percentuale dei promossi. Un dato da sempre sospetto. Stella richiama questo punto, fa alcuni confronti, ma non si chiede perché un altri distretti di Corte d’appello, invece, la percentuale dei promossi sia estremamente bassa, al punto che una leggenda metropolitana sostiene addirittura che in alcune di quelle sedi non tutte le prove sarebbero corrette. Naturalmente mi rifiuto di dar credito a questa favola. Non dubito della correttezza dei commissari, come, invece, sembra in qualche modo faccia Stella, con riferimento agli esami che un tempo si tenevano a Catanzaro. Perché oggi, come riferisce lui stesso, è stato cambiato il sistema con un incrocio tra luogo di tenuta delle prove e sede di correzione delle stesse. Un meccanismo un po’ contorto, che non affronta alla radice il problema. Stella, infatti, non si chiede, come sarebbe stato necessario, perché i medici superano l’esame di Stato quasi al cento per cento. Così in altre professioni. Fanno eccezione, invece, avvocati e commercialisti, professioni nelle quali gli ordini professionali tengono duro, limitano l’accesso ai giovani, difendono l’orticello dei professionisti “in servizio permanente effettivo”. Non accade praticamente da nessuna parte in Europa. Le professionalità si forgiano attraverso l’esperienza e la pratica, documentate, per alcuni anni, al seguito di avvocati o commercialisti, maestri di dottrina e di deontologia, quella che dà senso ad una presenza nel mercato della professione. E’ questo l’argomento degli ordini professionali degli Avvocati e dei Commercialisti. Noi dobbiamo essere severi per garantire al cliente le migliori professionalità In realtà si difende l’orticello, come ho accennato. Che, forse, medici e ingegneri hanno licenza di uccidere o di far crollare le opere che progettano? Il problema della selezione esiste. Lo assicura il mercato attraverso la capacità professionale che i singoli sanno esprimere. Ma dovrebbe, innanzitutto, assicurarlo l’Università con corsi rigorosi e rigida selezione dei migliori, anche se fosse accolta la proposta, che ha visto un antesignano in Luigi Einaudi, di eliminare il valore legale del titolo di studio, quel feticcio che ha fatto delle Università dei veri e propri diplomifici che non garantiscono la professionalità che, un tempo, il titolo di studio assicurava, almeno con larga approssimazione. A questo punto avrebbero ragione gli ordini che selezionano con maggiore “severità”, se questa fosse effettiva e prescindesse dagli interessi della “casta” (a proposito Stella, qui c’è da scrivere!). Oppure si dovrà giungere al numero chiuso, come avviene in alcuni ordinamenti e in Italia per i notai. Lasciamo perdere, dunque, la “prova facile” (presunta) del Ministro Gelini ed affrontiamo il tema della verifica delle professionalità a garanzia della clientela, non solo per avvocati e commercialisti. Non è facile, ma occorre provarci, per non riempire il mondo del lavoro di frustati o di professionisti scarsamente professionali. Una cacofonia che rende l’idea.
4 settembre 2008

Ma il Basso impero non era così basso!
Dirigenti Alitalia esenti da responsabilità, per legge!

di Senator

Segnalo all’attenzione dei lettori il comma 1 dell’art. 3 del decreto legge 28 agosto 2008, n. 134, che possono leggere nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana n. 201 del 28 agosto 2008 che così recita, come si usa dire: In relazione ai comportamenti, atti e provvedimenti che siano stati posti in essere dal 18 luglio 2007 fino alla data di entrata in vigore del presente decreto al fine di garantire la continuità aziendale di Alitalia-Linee aeree italiane S.p.A., nonché di Alitalia Servizi S.p.A. e delle società da queste controllate, in considerazione del preminente interesse pubblico alla necessità di assicurare il servizio pubblico di trasporto aereo passeggeri e merci in Italia, in particolare nei collegamenti con le aree periferiche, la responsabilità per i relativi fatti commessi dagli amministratori, dai componenti del collegio sindacale, dal dirigente preposto alla redazione dei documenti contabili societari, è posta a carico esclusivamente delle predette società. Negli stessi limiti è esclusa la responsabilità amministrativa-contabile dei citati soggetti, dei pubblici dipendenti e dei soggetti comunque titolari di incarichi pubblici. Lo svolgimento di funzioni di amministrazione, direzione e controllo, nonché di sindaco o di dirigente preposto alla redazione dei documenti contabili societari nelle società indicate nel primo periodo non può costituire motivo per ritenere insussistente, in capo ai soggetti interessati, il possesso dei requisiti di professionalità richiesti per lo svolgimento delle predette funzioni in altre società. Verrebbe da dire che la norma si commenta da sola. Stabilisce l’impunità per quanti, amministratori dell’Alitalia e di società collegate, hanno prodotto con il loro comportamento danno alle predette società, danno che rimane a loro carico. Esse, dunque, non possono rivalersi sugli amministratori. La giustificazione è indicata nel “preminente interesse pubblico alla necessità di assicurare il servizio pubblico di trasporto aereo passeggeri e merci in Italia, in particolare nei collegamenti con le aree periferiche”. La norma desta sconcerto, prima di tutto sul piano giuridico, meno su quello politico, considerato che, come si diceva un tempo salus rei pubblicae suprema lex esto! Per cui eventuali operazioni che possano aver aggravato i conti delle società per effetto di scelte onerose condizionate dall’esigenza di assicurare il servizio pubblico sono certamente giustificabili da parte del socio pubblico cui compete tutelare un servizio essenziale come quello del trasporto aereo e la pace sociale mediante misure di mantenimento dell’occupazione. Non si comprende, in sostanza, come il socio possa rivendicare nei confronti degli amministratori danni provocati per questa finalità. Diversa preoccupazione potrebbero nutrire gli amministratori per profili di rilevanza penale di eventuali loro comportamenti. Ma questi non sono coperti dalla norma. Non si comprende, infine, l’esenzione dalla giurisdizione per responsabilità amministrativa e contabile, quella, per intenderci, della quale è giudice la Corte dei conti, che prevede oltre al danno, che evidentemente si dà per scontato, la colpa grave, che dovrebbe ritenersi esclusa dalla necessità che ha mosso il comportamento degli amministratori. A questo punto viene il sospetto che i danni siano stati provocati per colpa grave e comunque al di fuori dell’esigenza pubblica di garantire il servizio, che nei termini che si è detto costituirebbe una causa di giustificazione anche in assenza della norma di cui si discorre. Se fosse così avremmo per legge una esenzione da responsabilità che ha tutti i requisiti per essere censurata dalla Corte costituzionale, se non altro sotto il profilo della disparità di trattamento che introduce dell’ordinamento, per non dire della violazione dell’art. 77 della Costituzione per l’uso improprio del decreto legge. A meno che la necessità e l’urgenza che la legge fondamentale richiede perché il Governo eserciti la funzione legislativa non sia dovuta ad iniziative giudiziarie in corso. Questi comportamenti degli amministratori, inoltre, non sono valutabili ai fini del cursus honorum degli stessi e questo, francamente, è il colmo, considerato che l’apprezzamento della professionalità è sempre molto discrezionale. Commento finale. Ma il Basso Impero, quel periodo “buio” che tante volte si evoca per dire della perdita dei valori del diritto, era veramente così basso a fronte di una simile norma?
4 settembre 2008

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