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Aprile 2009

Meno male che c’è Un sogno italiano
Berlusconi- De Benedetti: la “pax dei diarchi”

di Editor

Meno male che c’è “Un sogno italiano”, ha scritto al nostro Direttore un amico allegando un pezzo di Leo Sansone, del 23 aprile 2009, su Aprile On.line.Info, sottotitolo “Politica e media”. “Il riassetto dell’informazione italiana è una partita a due. L’ingegner De Benedetti, concorrente di Berlusconi sul piano imprenditoriale (epica la battaglia per la conquista della Mondadori) e sul piano politico (ha osteggiato il leader del centro-destra e sostenuto il Pci-Pds-Ds-Pd), sembra aver chiuso la “Guerra dei Trent’anni” dopo la vittoria del centro-destra alle elezioni politiche dell’anno scorso. Ora, fra i due sembra sia scoppiata la pace, si tratterebbe di una pace non firmata sotto i riflettori delle telecamere, ma dalle basi salde. Il modello sembra quello del bipartitismo all’americana in salsa italiana, la novità introdotta nel sistema politico italiano sull’asse Pdl-Pd, proprio con l’incitamento di Berlusconi e di De Benedetti”. La sensazione dell’omologazione è fortissima, a leggere il giornale. Dal Corriere della Sera zuccheroso a La Repubblica che è appena l’ombra del giornale polemico che non perdonava nulla al leader del partito della libertà la funzione di controllo democratico della stampa si è ridotta a poco o niente da che l’unità, liberazione e il manifesto soddisfano solo i palazzi facili degli ex sessantottini ormai in pensione. A destra, si fa per dire, il giornale è l’ombra del quotidiano fondato da Indro Montanelli, una sorta di bollettino di partito che irrita perfino i più accaniti sostenitori del partito della libertà. Il gusto della polemica garbata della critica pungente che dovrebbe caratterizzare il giornalismo politico intelligente e aperto al confronto sembra un ricordo ormai lontano. Il cavaliere che un uomo intelligente, anche se circondato dagli gnomi, yes men impudichi avrà certamente da ridire in cuore suo di questi lacchè che, in fin dei conti lo danneggiano, perché gli italiani, abituati a schierarsi con il vincitore, oggi applaudono ma sono pronti domani a rinnegare quell’appartenenza. Sono politicamente inaffidabili. Gianfranco Fini ama ricordare una frase di Mussolini o attribuita a Mussolini: “governare gli italiani non è difficile, è inutile!”. Vera o inventata dalle l’ex leader dell’ex Alleanza Nazionale la frase rende molto l’idea e dimostra come sia effimero il successo politico in Italia e come sia poco generoso l’apporto degli italiani alla vita dei loro partiti. Li votano quando sono in auge, li abbandonano alla prima difficoltà. Questo è il Cavaliere lo sa ed allora cerca di concretizzare e consolidare il suo potere attraverso l’occupazione delle poltrone, soprattutto nella stampa e nelle televisioni, cioè nella televisione di Stato, attraverso un sapiente valzer di direttori di rete e di testata. Ma anche questi personaggi sono affidabili fino a prova contraria. Ognuno di essi ha nella tasca interna della giacca un distintivo diverso da quello che esibisce sul risvolto del collo.
29 aprile 2009

La Costituzione “di tutti” si riforma con una vasta maggioranza
di Salvatore Sfrecola

Rimbalza da Varsavia il “no” di Berlusconi a Franceschini, che aveva sollecitato il Premier a non fare le riforme se non con il consenso dell’opposizione. “Questo non è previsto in nessun articolo della Carta”, ha detto ieri il Presidente del Consiglio, parlando dalla capitale della Polonia. Ed ha ricordato che il centrosinistra aveva modificato nel 2001 la Costituzione con soli quattro voti di maggioranza. C’è da dire che anche su questa strada si era incamminato Berlusconi con la riforma che nel 2006 fu bocciata dal referendum popolare. Hanno sbagliato gli uni e gli altri. La legge fondamentale dello Stato non può essere patrimonio di una parte, neppure della maggioranza assoluta delle assemblee parlamentari. È la Carta di tutti ed esige il più ampio consenso delle forze politiche, com’è accaduto del resto, tra il 1946 e il 1947 quando fu messa a punto e votata attuale Costituzione con il concorso di cattolici, liberali, socialisti. Ognuno in quell’occasione ha portato un mattoncino alla costruzione della Carta, favorendo compromessi ma definendo un documento che, almeno per la prima parte, mantiene ancora oggi inalterata la sua validità per i diritti che riconosce e tutela. D’altra parte il sistema di emendamento della Costituzione previsto dall’articolo 138 detta una regola che presuppone un’ampia convergenza di forze politiche che, tuttavia, da sola non è sufficiente a dare legittimità alla legge fondamentale dello Stato. Nel dibattito si inserisce il confronto tra opinioni diverse in ordine alle modifiche necessarie per dare rilievo all’azione di governo, che è esigenza generalmente sentita che va soddisfatta, tuttavia, realizzando un equilibrato sistema di contrappesi. Se n’è occupato ieri sul Corriere della Sera Angelo Panebianco, segnalando che il Parlamento non può essere un contrappeso per un Premier più forte. Infatti, la maggioranza parlamentare coincide con la maggioranza governativa che fa quadrato in favore del leader ed impedisce quell’efficace controllo sulla gestione dell’Esecutivo che si vuole espressione di una democrazia costituzionale compiuta. Panebianco fa l’ipotesi di un contrappeso dato da Presidente della Repubblica, Corte costituzionale, regioni, ma non formula nessuna proposta concreta. Certo si riserva di tornarci sopra. Cominciamo a ragioniarci su, per scartare subito almeno due delle ipotesi, il Presidente della Repubblica e la Corte costituzionale. Il Capo dello Stato ha un ruolo di garanzia super partes e deve mantenerla. Interpreta un ruolo essenziale per il rispetto, da parte del Governo, della Costituzione e delle regole fondamentali del sistema. Non è, la sua, una limitazione di ordine politico. Non esprime, in sostanza, una diversa posizione di interessi di parte, che possa in qualche modo fare da contraltare al Governo. Ugualmente la Corte costituzionale, che è giudice della corrispondenza del sistema normativo nel suo complesso ai principi della Costituzione, anche se le fossero attribuite altre funzioni, ad esempio di controllo preventivo su alcuni atti normativi del governo, non costituirebbe un vero contrappeso politico. Rimangono le regioni che già nella Repubblica federale di Germania, lo ricorda Panebianco, costituiscono una significativa limitazione del potere del cancelliere. Anche questa soluzione ha dei limiti, perché non costituisce un vero e proprio contrappeso politico del potere del Premier ma sostanzialmente attua una posizione di contenimento dell’azione dello Stato centrale da parte delle regioni. Il tema va, dunque, approfondito ulteriormente, perché è necessario indubbiamente trovare un equilibrio di pesi e contrappesi che, da un lato, dia al nostro Paese un governo capace di attuare le iniziative concrete che sono espressione dell’indirizzo politico emerso dal voto elettorale, e, dall’altro, assicuri possibilità di interdizione rispetto a comportamenti del Governo che fossero “politicamente scorretti”, sia pure non giuridicamente in contrasto con regole e principi per i quali sono predisposti altri strumenti di tutela dei diritti e degli interessi. Quel che va evitato è privare il dibattito politico di quel confronto tra le variegate espressioni delle ideologie e degli interessi che costituisce il sale della democrazia, anche per consentire all’elettore di scegliere consapevolmente, in sede elettorale, fra programmi diversi. Tradizionalmente nelle democrazie costituzionali il luogo di questo confronto è il Parlamento ma esso, come abbiamo visto, non costituisce più un contrappeso valido ai poteri del governo che dovrebbe garantire una democrazia senza pericoli. Tema non facile, come dimostra la scarsità di proposte sul tavolo. Dovremo riflettere ancora, giorno dopo giorno, man mano che affiorano le idee, alcune delle quali già emerse in sede di Bicamerale, devo dire spesso un po’ azzardate, dagli effetti non verificabili, ammantate molto di ideologia, meno di oculata valutazione degli strumenti giuridici messi in campo.
29 aprile 2009

Significativa commemorazione del Presidente Napolitano
25 aprile di nuovo conio:
a Mignano Montelungo, prima battaglia
del ricostituito Regio Esercito

di Salvatore Sfrecola

Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha ricordato a Mignano Montelungo, in provincia di Caserta, il 64* anniversario della liberazione del nostro Paese dall’invasione tedesca. Su quelle montagne l’8 ed il 16 dicembre 1943 l’Esercito Italiano tornò a combattere e lo fece con grande valore, pubblicamente riconosciuto dal Generale Clark che comandava lo schieramento alleato. In quell’occasione, grande fu l’impegno del Principe Umberto di Savoia, che a lungo sorvolò su un piccolo aereo le linee tedesche per fornire indicazioni all’artiglieria da campagna italiana schierata accanto ad americani ed inglesi. Il contingente italiano, denominato 1* Raggruppamento Motorizzato, circa 1.500 uomini provenienti da tutta Italia, rappresentava tutto quanto il nostro esercito poteva mettere in campo, agli ordini del generale Vincenzo Dapino. Suo compito fu quello di partecipare allo sfondamento della famosa Linea Gustav, che dalla foce del Garigliano alla foce del Sangro tagliava in due l’Italia. La battaglia fu durissima e, dopo un primo ripiegamento sotto il tiro dell’artiglieria tedesca, il 16 dicembre gli italiani conquistarono il monte. Nel corso della cerimonia il Capo dello Stato si è recato in municipio dove ha scoperto una lapide in ricordo dei caduti di Mignano Montelungo. L’importanza del gesto di Napolitano è evidente. Ha posto al centro delle celebrazioni ufficiali l’impegno dell’Esercito troppo spesso trascurato anche nelle vicende della Resistenza al Nord, un’esperienza della quale le sinistre si sono immediatamente appropriate nell’immediato dopoguerra come se la lotta contro il nazifascismo fosse stata esclusivo impegno di comunisti e socialisti. Operarono, invece, nelle valli dell’Italia centro settentrionale reparti militari inquadrati e fedeli al Governo del Re Vittorio Emanuele III, partigiani cattolici e liberali. Basti pensare a Roma, dove la resistenza antinazista era in mano ai militari, al Colonnello Montezemolo ed al Maggiore dei Carabinieri Ugo de Carolis, trucidati alle Fosse Ardeatine insieme agli altri martiri della rappresaglia di via Rasella. Immediato fu il sospetto di una spiata per decapitare la Resistenza non politica, quella appunto militare che, con il suo gesto di ieri, il Presidente della Repubblica ha ricordato ed onorato nel rispetto della storia.
26 aprile 2009

La denuncia di un altro illustre romano
Il degrado di Roma nel traffico impazzito: Eur e dintorni

di Marco Tullio

Condivido pienamente il pensiero di Marco Aurelio che denunciava gli atteggiamenti demagogici e populisti della Giunta comunale in materia di disciplina del traffico e che si sono tradotti spesso in provvedimenti che hanno provocato caos e degrado in varie zone della città. Marco Aurelio cita la situazione del quartiere Prati e accenna alla zona dell’EUR come aree dove regna il caos totale per la errata o mancata disciplina della sosta per non scontentare questa o quella categoria di utenti della strada. Bene, per quanto riguarda l’EUR la notizia recente è che i fondi iscritti in bilancio per le infrastrutture di mobilità connesse alla realizzazione del nuovo Centro Congressi sono stati ridotti e dirottati verso altri capitoli di spesa per ragioni non effettivamente chiarite. Il timore è che si ritorni al vecchio andazzo di tante Giunte precedenti che hanno autorizzato lo sviluppo incontrollato di interi quartieri intorno all’ EUR senza mai preoccuparsi delle infrastrutture di mobilità. Le conseguenze in termini di crescita di traffico su strade come la Colombo, la Pontina, la Laurentina e l’Ardeatina sono sotto gli occhi di tutti e gridano vendetta nei confronti dei passati amministratori capitolini. In questa situazione credo che per i residenti dell’EUR (e zone limitrofe) si prospetti un futuro di caos da traffico che porterà alla paralisi di vaste aree del quartiere adiacenti al Centro Congressi, e questo alla faccia della dignità storica ed architettonica recentemente riscoperta del quartiere. Il cuore del problema sta nell’assalto del traffico privato che arriva giornalmente ed è legato sia agli uffici che agli utenti della metropolitana che, in mancanza di adeguati parcheggi di scambio, lasciano le auto in sosta nelle strade limitrofe alle stazioni. Ora in tutte le città del centro e nord Europa il problema viene risolto privilegiando la sosta dei residenti e facendo pagare caro il parcheggio lungo orario ai “visitatori”, anche per facilitare l’ utilizzo del mezzo pubblico e migliorare la qualità di vita nella città. Non esistono regole assurde del tipo un posto macchina gratis per ogni posto a pagamento dietro cui si sono spesso nascosti gli amministratori capitolini. Non è logicamente pensabile che un impiegato possa pretendere di parcheggiare gratis per 8 ore la sua auto lì dove il costo per uffici a metro quadro magari raggiunge e supera i 10 000euro/mq. La proposta agli amministratori è dunque questa: perché sottoporre l’intera area dell’Eur, così come altri quartieri, ad un regime di sosta regolamentata a pagamento con esenzione per i residenti? In fin dei conti se in centro c’è una ZTL (che non impatta ma protegge i residenti), l’Eur che si può anche considerare come una City, ovvero il quartiere degli affari, non merita almeno le strisce blu generalizzate per non soffocare? I pendolari si abitueranno presto a utilizzare il mezzo pubblico la cui efficienza migliorerà con la riduzione del traffico di superficie ed i miglioramento della qualità della vita anche per riduzione dell’ inquinamento.
26 aprile 2009
P.S. A questo punto il Direttore non può esimersi da un breve, obiettivo, commento alle cronache ed alle considerazioni di Marco Aurelio e di Marco Tullio. Sembra sfugga agli amministratori della Città che il traffico è la prima preoccupazione dei romani, ne condiziona la vita stessa, nella misura in cui la limita di un tempo pari a quello passato in auto. Contribuisce grandemente all’inquinamento della Città, dacché se i tempi di percorrenza e quelli di ricerca del parcheggio si allungano, ogni minuto in più determina maggiore dispersione di sostanza che appesantiscono l’atmosfera. In sostanza le condizioni del traffico sono uno degli indici di efficienza di un’amministrazione comunale, in Italia e nel mondo civile. Sul traffico, come sulla pulizia della Città si giocano, prima di ogni altra, le possibilità di successo politico del governo cittadino. Molto più delle polemiche politiche generali, che dovrebbero essere rimesse ad altre istanze, ai partiti nazionali ed al Parlamento.

Ma il paludato settimanale inglese non la pubblica.
Nel Regno “madre della democrazia”, matrigna, a volte, è l’obiettività giornalistica
Lettore di “Un sogno italiano”, Bruno Lago, scrive all’Economist a sostegno della presa di posizione di Papa Benedetto XVI in occasione del recente viaggio in Africa

Sir,
Your article “Sex and sensibility” referring to the Pope’s recent speech in Africa deserves, in my opinion, the same criticism that the author addressed to the Pope, blamed for allegedly “crass and uncaring” statements. As a matter of fact, if one thing is universally acknowledged to Pope Benedict’s credit, that is his intelligent and speculative mind and a clear communication of his teachings, without any indulgence for the “politically correct” opinions prevailing in the western world (remember the Lectio Magistralis in Ratisbona?). So with a man of this caliber also to the most informed and documented journalist wishing to understand the rationale of the Pope’s position should have possibly considered some issues such as:

· are the western world culture and categories applicable in Africa?

· Are all African countries in the same situation with regard to HIV?

· Why HIV diffusion is relatively much lower in those countries, within the same African region, where the proportion of catholic population – in principle more inclined to monogamy and responsible sexuality – is greater?

· Why Washington DC, in spite of a widespread condom availability, has 3% of its population above 12 years of age with HIV (BBC source), the same as Uganda with a more limited availability of condom supplies?

· Why incidence of HIV in Washington is three times higher among the black population while the major reason for contagion lies in the sexual intercourses among homosexuals?

Clearly these arguments do not sound “politically correct” to those in the western world who refuse to admit that HIV widespread contagion is the consequence of the revolution and liberalization in the sexual habits occurred in the prior century. For these, condoms become a sort of panacea to solve any problem in all countries, without considering that the battle against HIV in Africa is first of all a battle for changing a culture for promiscuity among certain populations, to defend the monogamic family and encourage responsible sexual habits, ultimately aiming at fostering the cultural and economic development of those societies. This is very well known by all those, religious or laic missionaries, operating in Africa but hardly acceptable for many consciences of the western world, strongly biased apriori against the catholic thought.

Bruno Lago
La traduzione in italiano

Egregi Signori,
Il vs articolo “Sesso e sensibilità” relativo ai recenti discorsi del Papa in Africa merita, a mio parere, la medesima critica che l’autore ha rivolto al Papa, accusato di presunte dichiarazioni “rozze e irresponsabili”.
Infatti, se una cosa è universalmente riconosciuta a Papa Benedetto XVI, questa è proprio il Suo pensiero acuto e speculativo ed una comunicazione chiara e diretta dei suoi insegnamenti senza alcuna indulgenza per le opinioni “politicamente corrette” così diffuse nel mondo occidentale (tutti ricordiamo la Lectio Magistralis all’ Università di Ratisbona!). Pertanto, con un pensatore di questo livello, era lecito aspettarsi da un giornalista ben informato e documentato, intenzionato a comprendere la logica delle argomentazioni del Papa, che questi si ponesse alcune domande come:

· fino a che punto la cultura e le categorie del mondo occidentale sono utilizzabili in Africa?

· La diffusione dell’ AIDS è analoga in tutti i paesi africani?

· Perché il confronto tra le situazioni sanitarie in paesi limitrofi della stessa regione africana mostra una correlazione inversa tra diffusione della malattia e presenza di popolazioni cattoliche, per definizione più inclini alla monogamia e ad una sessualità più responsabile?

· Perché in una città come Washington, con una disponibilità illimitata di profilattici per i cittadini, ha la stessa percentuale di popolazione siero-positiva (3%) dell’ Uganda dove evidentemente la disponibilità è molto inferiore?

· Perché l’incidenza di popolazione siero-positiva a Washington è tre volte maggiore fra i neri in un contesto in cui è ben noto che la causa principale di contagio sono i rapporti omosessuali?

Chiaramente queste non sono domande politicamente corrette per quanti nel mondo occidentale rifiutano di ammettere che la diffusione dell’AIDS è la conseguenza della rivoluzione e liberalizzazione delle abitudini sessuali durante il secolo scorso. Per questi il preservativo è diventato una sorte di panacea per risolvere qualsiasi problema in tutti i paesi, senza considerare che la lotta contro l’AIDS in Africa è prima di tutto una battaglia contro una cultura della promiscuità diffusa soprattutto tra alcune etnie, per difendere la famiglia monogamica e incoraggiare abitudini sessuali responsabili e favorendo così lo sviluppo culturale ed infine economico di queste società.

Si tratta di questione ben note a quanti laici e religiosi operano in Africa, ma difficilmente accettabili da molte coscienze del mondo occidentale, fortemente prevenute contro il pensiero cattolico, come chiaramente evidenziato dal vs articolo.

B.Lago

Importante sentenza della Cassazione
richiama il ruolo educativo della famiglia
Senza casco: pagano i genitori

di Paola Maria Zerman

Il titolo del Corriere della Sera di ieri, un taglio basso in prima pagina, una posizione giornalistica di rilievo, richiama il ruolo educativo primario della famiglia secondo l’art. 30 della Costituzione (“E’ dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori dal matrimonio”) traendo lo spunto da una sentenza della Corte di Cassazione la quale ha affermato che se un ragazzino guida lo scooter senza mettersi il casco, la colpa non è (solo) sua ma dei genitori che evidentemente l’hanno educato male. Per cui vanno considerati responsabili degli incidenti causati dal figlio minorenne e indisciplinato. In un momento di grave confusione sui valori, in primo luogo di quelli che si incarnano nel ruolo della famiglia, “società naturale fondata sul matrimonio” (art. 29 Cost.) uno spiraglio di luce viene da questa sentenza della Cassazione (Sez. III, civile, n. 9556). Il ruolo educativo della famiglia, infatti, è parte essenziale del più ampio compito che a questa istituzione cardine del vivere civile va riconosciuto, come luogo nel quale le relazioni interpersonali sono modulate su affetti, tradizioni civili e religiose, ideali, per divenire fonte di valori che si riverberano sull’intera società. Ad essa la famiglia fornisce quel valore aggiunto che costituisce un capitale di positività che si denomina, appunto, capitale sociale. La pronuncia della Cassazione è stata occasionata da un fatto per certi versi banale e ricorrente. Di qui il valore della sentenza. Un ragazzo a 17 anni, alla guida di un motorino, è protagonista di un incidente con altro scooter guidato da un giovane che nel sinistro muore. I genitori del ragazzo vengono condannati oltre che a pagare la metà delle spese processuali, a risarcire i familiari del defunto per i danni morali patiti e per le spese mediche sostenute. Nulla di eccezionale sul piano giuridico se la Corte Suprema, investita dai genitori con un ricorso, non avesse dato loro torto impartendo una lezione di pedagogia e di buona pratica familiare. “Lo stato di immaturità, il temperamento e l’educazione del minore – scrivono i giudici di Piazza Cavour – si possono desumere anche dalle modalità dell’incidente”. Il Nostro non portava il casco. “Ma aveva una certa dimestichezza con i veicoli, pur minorenne”. Vuol dire che mamma e papà non gli hanno spiegato bene come si guida in sicurezza, per sé e per gli altri. Mentre secondo l’art. 2048 del codice civile, scrivono i giudici, i genitori di un minore “hanno doveri di natura inderogabile, finalizzati a correggere comportamenti sbagliati e quindi, meritevoli di costante opera educativa, per realizzare una personalità equilibrata, consapevole della razionalità della propria esistenza e della protezione della propria e altrui persona”. I due, in sostanza, non sono stati bravi genitori. E se si può escludere nel caso specifico, con riferimento all’incidente, la loro colpa in vigilando, rimane quella in educando per effetto di una insufficiente formazione, in quanto, nel corso degli anni madre e padre non sono stati capaci di impartire al figlio, “un’educazione normalmente sufficiente ad impostare una corretta vita di relazione in rapporto al suo ambiente, alle sue abitudini e alla sua personalità”. In tempi di pauroso degrado dei valori familiari la sentenza della Cassazione sul ruolo educativo della famiglia va accolta come una significativa riflessione dei supremi giudici suscettibile di un ulteriore percorso secondo i principi della Costituzione che alla famiglia riserva norme di grande significato morale e sociale, che si ispirano alla tradizione più profonda e sentita del popolo italiano.
25 aprile 2009

Straordinario coup de théâtre del Cavaliere
che porta i Grandi della terra a L’Aquila

di Salvatore Sfrecola

E’ indubbio che Berlusconi sappia calcare la scena con grande abilità e senso del tempo. Così lascia la Maddalena, che sapeva molto di weekend al mare, per portare i grandi della terra a L’Aquila, città martire di questa stagione di terremoti e comunque località bellissima per la natura e per l’ospitalità tipica della sua gente. A L’Aquila Berlusconi pensa, e certamente ci riuscirà, di avere una compartecipazione dei governi ospiti per qualche importante restauro, per qualche opera pubblica importante, con indubbio risparmio per le finanze statali e regionali. Ed è al contempo certo che gli imprenditori abruzzesi gli saranno grati per questa straordinaria pubblicità dei loro prodotti e della loro terra attraverso le televisioni di tutto il mondo, gratuitamente. Protestano, però, in Sardegna e minacciano azioni giudiziarie gli imprenditori a vario titolo impegnati nel grande evento che si trasferisce sul continente. Perdono lavori, commesse, prenotazioni alberghiere (basterebbe pensare alle troupe televisive ed ai giornalisti), danni che potrebbero pesare sulla bilancia dei vantaggi offerti all’Abruzzo, anche sul piano giudiziario. E qui Berlusconi, che con il suo spirito ed imprenditoriale ed il piglio decisionista va avanti per i suoi obiettivi come un treno, deve stare attento a non farsi consigliare male perché il trasferimento all’Aquila del G8 è una scelta politica non necessitata e deve in qualche modo far rientrare in un vantaggio per la comunità sarda le opere pubbliche predisposte per le finalità dell’incontro internazionale oggi rinviato ad altra località del Paese. Dico questo, perché, negli ultimi tempi è già si notava nel governo Prodi, la capacità propositiva ed operativa di Palazzo Chigi, di rispondere con attenta cura delle norme e dei principi di buona gestione, risulta fortemente ridotta a causa della massa degli yes men dei quali ama circondarsi il Cavaliere, convinto che poi sia lui a decidere, sempre e comunque. Una situazione che può riservare al Presidente del consiglio qualche brutto scherzo, se la cautela e l’attenzione per gli interessi finanziari dello Stato non sarà in cima ai pensieri dei suoi collaboratori. Con questo invito alla cautela, che ricalca una vecchia sollecitazione a circondarsi di gente capace, piuttosto che di personaggi pronti a dire sempre e solo signorsì, torniamo alla valutazione positiva dell’iniziativa di Berlusconi che ha dimostrato ancora una volta di essere l’unico vero personaggio di questa stagione politica, un gigante in mezzo a tanti nani, con scarsa fantasia ed iniziativa.
25 aprile 2009

Roma: il degrado della città
tra parcheggio selvaggio e posteggiatori abusivi

di Marco Aurelio

Continua, senza che si adottino le misure che hanno restituito vivibilità alle più importanti città europee, il degrado di Roma, tra parcheggi selvaggi e posteggiatori abusivi. Mentre ovunque nelle capitali i residenti parcheggiano gratuitamente e chi viene da fuori zona paga, e paga più tanto più sosta, a Roma la giunta Alemanno sperimenta il parcheggio selvaggio con grave disagio dei residenti e mano libera ai posteggiatori abusivi. Sulla base di una sentenza assai dubbia del TAR del Lazio, che comunque riguardava solo poche strade del quartiere Ostiense, il Sindaco di Roma, con un fax, ha annullato una delibera di giunta, senza neppure ipotizzare un appello nei confronti di una pronuncia che ha accolto un ricorso manifestamente inammissibile in quanto prodotto nei confronti di una deliberazione di alcuni anni prima, evidentemente inoppugnabile. Il CODACONS ha aggirato l’ostacolo chiedendo gli fosse notificata la deliberazione ed il giudice è caduto nel tranello senza tenere in considerazione il fatto che la deliberazione era pubblica, affissa all’albo pretorio, perciò nota, come noto era il termine entro il quale impugnarla. A questa botta di demagogia, con la quale il Sindaco ha inaugurato la stagione della sua gestione. ha fatto seguito, dopo alcuni mesi di sosta selvaggia, una deliberazione che ha modificato il rapporto fra parcheggio libero il parcheggio a pagamento, estendendo enormemente il primo che prevede una sosta di tre ore. Detta così sembrerebbe una cosa ragionevole, se il tempo fosse controllabile e controllato. Sta di fatto che nella delibera che ha istituito questi parcheggi liberi a tempo il Comune ha previsto che la vigilanza non sia rimessa agli ausiliari del traffico, come per le strisce blu, ma i vigili urbani, cioè a nessuno, perché, come è noto, i vigili urbani sono pochi e sono scarsamente presenti sul territorio, se non quando si tratta di rimuovere automobili in sosta d’intralcio o di supposto intralcio. La conseguenza è un parcheggio selvaggio a tempo indeterminato, che penalizza gravemente i residenti. In sostanza in zone come Prati, importante quartiere del centro di Roma, dove sono presenti numerosi uffici giudiziari e strutture pubbliche importanti come la RAI, un quartiere nel quale sono presenti due grandi stazioni della metropolitana, quella di Ottaviano San Pietro e quella di Lepanto, accade che i fruitori della metropolitana parcheggino liberamente alle sei di mattina per riprendere l’auto alle sei di sera, con danno per i residenti, i quali infatti, hanno protestato, e per tutti coloro che vi si recano per poco tempo. Ma il Sindaco demagogo si preoccupa soprattutto di consentire a tutti di parcheggiare dove vogliono e non si è accorto che ha danneggiato gravemente proprio residenti, nei confronti dei quali l’Amministrazione comunale dovrebbe avere una speciale attenzione. Ha danneggiato anche i Taxi, che un tempo erano nel suo cuore. Infatti oggi si vedono grandi file di taxi ai parcheggi (per rimanere a Prati, in piazza Mazzini non si erano mai viste tante vetture ferme in attesa di clienti). Chiudo con riferimento a una mia personale esperienza di ieri mattina all’Eur, nei pressi del caffè Palombini, noto anche al Sindaco, una zona nella quale il parcheggio selvaggio è attuato in un modo difficilmente descrivibile, in mano ai posteggiatori abusivi che prevedevano io parcheggiarsi sulle strisce bianche, in assenza di qualunque vigile urbano, non visibile a occhio nudo, mentre la zona pullula di zingari e zingare che chiedono l’elemosina e vogliono leggere la mano. Spero la leggano al Sindaco e gli dicano chiaramente che, se non cambia, tornerà in Parlamento, Berlusconi permettendo. Ho detto al direttore che intendo fare delle foto per queste situazioni di degrado della città e segnalargliene. Spero che le mie pubblichi.
25 aprile 2009

Nel disinteresse delle autorità
Il racket delle elemosine

di Salvatore Sfrecola

Non c’è bisogno di aver letto “I Miserabili” di Victor Hugo per sapere che, in gran parte, l’accattonaggio è organizzato o controllato dalla malavita. Ad un livello inferiore rispetto ad altra criminalità, ma non è escluso che l’esercito dei questuanti sia usato dagli spacciatori per un controllo puntuale del territorio. Schiere di “pali” per segnalare la presenza delle forze dell’ordine e i loro movimenti. Il fenomeno, dunque, dovrebbe essere tenuto sotto controllo, accuratamente e, all’occasione, represso se non altro nelle sue forme più eclatanti laddove si percepisce lo sfruttamento delle persone, una ignobile prevaricazione rispetto ai più elementari diritti della persona umana. Dei tanti possibili esempi mi viene in mente quello delle donne che, per ore, in ginocchio, chiedono l’elemosina, una vera e propria tortura inflitta per destare pietà nei passati. Il fenomeno nei mesi scorsi, forse per il maltempo, si era ridotto, ma con l’avanzare della primavera è ripreso alla grande. Ieri ho visto una di queste disgraziate in via della Scrofa, a due passi dai palazzi del Parlamento, a pochi metri dal presidio posto a tutela dell’ex Alleanza Nazionale. Cosa devono pensare di cittadini, ai quali non può sfuggire che quelle povere donne costrette a chiedere elemosina per ore in ginocchio sono vittime del racket, probabilmente di violenze quando non raccolgono ciò che si attendono i loro aguzzini? Che tutto ciò avvenga sotto gli occhi impotenti o indifferenti dell’autorità di pubblica sicurezza cui spetta reprimere gli illeciti, è gravissimo. Indifferenza o impotenza che sia l’autorità manca ad un suo preciso dovere, quello di intervenire ovunque la legge penale sia violata. In questo caso i numerosi articoli e commi del codice!
24 aprile 2009

Il Presidente della Repubblica, il Governo e il Parlamento
di Salvatore Sfrecola

Il presidente della Repubblica è tornato ieri sul tema della Costituzione e della sua adeguatezza al momento storico attuale. Lo ha fatto in occasione delle cerimonie che in qualche modo accompagnano la celebrazione del 25 aprile con una presa di posizione forte segnalando, con un richiamo a Norberto Bobbio, che “la denuncia dell’ingovernabilità tende a suggerire soluzioni autoritarie”, frase immediatamente ritenuta indirizzata al Presidente del Consiglio, anche se, prudentemente, i suoi collaboratori ritengono che ” la denuncia di ingovernabilità può essere fatta proprio per salvare la democrazia, per non renderla inefficace, immobile non funzionante” come ha detto il Presidente del gruppo parlamentare della Camera del Partito della libertà, Cicchitto, nell’intervista a Paola di Caro oggi sul Corriere della Sera. Il tema è delicato e va affrontato con molta serenità. Berlusconi pone da tempo sul tappeto del dibattito politico il tema dell’efficienza dell’azione di governo, ossia dell’idoneità degli strumenti operativi a disposizione del Presidente del consiglio e dei Ministri per realizzare l’indirizzo politico amministrativo emerso in sede elettorale ed approvato dal Parlamento all’atto del voto di fiducia sulle dichiarazioni programmatiche del nuovo Governo. È indubbiamente un problema reale, sostanzialmente condiviso da tutti i governi, che attiene all’azione amministrativa in senso proprio, quella cioè che viene posta in essere attraverso gli atti della pubblica amministrazione. Se tuttavia le leggi che governano l’azione della Pubblica amministrazione non sono adeguate alle esigenze del momento storico che viviamo è evidente il desiderio del governo di modificarle per sostituirle con altre che mettano a disposizione una strumentazione operativa più adeguata. Queste norme di cui il Governo ritiene di aver bisogno sono di competenza del Parlamento il quale ha tempi che il governo ritiene non compatibili con le esigenze operative delineate a Palazzo Chigi. Tuttavia va considerato che il nostro ordinamento, il quale si basa sulla regola aurea del costituzionalismo moderno, della separazione dei poteri, vede al centro del sistema proprio le Camere in quanto organo rappresentativo del popolo. Nella specie non sembra, tuttavia, che nelle intenzioni del Presidente Berlusconi vi sia l’intento di rimodulare i rapporti tra governo e Parlamento ma piuttosto di definire procedure legislative più veloci in modo che in un ragionevole lasso di tempo il Parlamento possa legiferare sulla proposta del governo, anche individuando una corsia preferenziale per i provvedimenti dell’amministrazione. A questo si può provvedere, ed in parte è stato già fatto, mediante una modifica dei regolamenti parlamentari, in modo da rendere più snella l’azione del Parlamento. Va tuttavia considerato che le difficoltà del Governo non sono tanto dovute a situazioni istituzionali quanto a problemi interni della maggioranza che non è compatta così come si vorrebbe che fosse da parte dei responsabili del Partito della libertà e che quindi provoca situazioni di tensione interna che rallentano l’iter parlamentare dei disegni di legge. Infatti non si può trascurare che i tempi dell’azione parlamentare derivano anche dalla consistenza della maggioranza, e se indubbiamente il governo Prodi aveva grandi difficoltà, in particolare per l’esiguità della maggioranza in Senato, il hanno Berlusconi oggi, come nella legislatura 2001 2006, gode di un ampio numero di parlamentari, sia alla Camera che al Senato, che dovrebbe consentire una celere decisione sulle proposte del governo. Se questo non avviene non è, ripeto, un problema istituzionale di distribuzione dei poteri ma di incapacità della maggioranza di esprimere con compattezza la propria volontà. Queste cose vanno dette con molta chiarezza perché non si confondano situazioni diverse le quali vanno affrontate con mezzi diversi. L’intervento preoccupato del Capo dello Stato che parla di un “senso dei limiti che non possono essere ignorati nemmeno in forza dell’investitura popolare, diretta o indiretta, di chi governa” nel rispetto delle “istituzioni di controllo e di garanzia”, denunciano il timore che l’esigenza di operare possa indurre ad una caduta delle regole che attengono alla relazione tra i poteri, in particolare ad un depotenziamento del ruolo del Parlamento che, invece, nell’ordinamento costituzionale vigente è centrale. E tale riteniamo che debba rimanere, considerato che l’attuale legge elettorale, con il premio di maggioranza, favorisce la governabilità, assicurando alle forze politiche che appoggiano il governo un numero di parlamentari sufficiente ad approvare con celerità i provvedimenti del governo. Il fatto è che noi scontiamo gli effetti negativi di una classe politica modesta. Nonostante i gruppi parlamentari siano stati sostanzialmente nominati dai capi dei partiti, questi sono composti da personale con inadeguata esperienza politica e scarso senso dello Stato. Ho ricordato in altra occasione che questo è conseguenza dei criteri di reclutamento che hanno voluto i partiti. E siccome parliamo del partito di maggioranza non possiamo non ricordare che il Presidente del consiglio, poco prima delle elezioni, ebbe a teorizzare l’esigenza di un ristretto numero di parlamentari capaci che avrebbero dovuto guidare la schiera degli eletti. Impostato così il problema della selezione della classe politica parlamentare è difficile giustificare le doglianze del Presidente del consiglio sulla scarsa compattezza della sua maggioranza perché è evidente che solo a personalità con spiccato senso delle istituzioni e adeguata professionalità è possibile chiedere quella compattezza che, una volta dibattuto il tema delle scelte politiche, deve guidare le decisioni del gruppo parlamentare. Tanto è vero che il premier ipotizza un sistema di votazione nel quale i capigruppo esprimano la volontà di tutti tranne di quanti dovessero dissentire. Un sintomo di questo malessere è dato anche dal fatto che ricorrono proposte di presidenzialismo o di semi presidenzialismo, soluzione che vorrebbe escludere il ruolo di garante del capo dello Stato che, invece, come dimostra l’esperienza di questi anni, va rigorosamente conservata.
23 aprile 2009

Chi l’ha visto?
Carlo Giovanardi,
Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio per famiglia, droga e servizio civile

di Senator

Leggo il pezzo nel quale il nostro Direttore dà conto dell’incontro promosso ieri dalla Fondazione Lepanto sulla famiglia e non posso fare a meno di lanciare un appello a quanti avessero notato la presenza dell’on. Avv. Carlo Giovanardi da Modena, classe 1950, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri con delega alla famiglia, droga e servizio civile. L’appello angosciato nasce dal fatto che il sunnominato Sottosegretario che, all’atto della nomina, disse che era stato voluto in alto (niente illusioni, il riferimento era “solo” a Silvio Berlusconi!) che si occupasse della famiglia, non ha dato finora segni di vita. Nessuno ne ha sentito parlare. Ho chiesto a vari colleghi, qui a Palazzo Madama ed anche a Montecitorio, per sicurezza, ma nessuno che sappia dirmi quel che Giovanardi ha fatto per la famiglia. Lavorerà dietro le quinte per fare un botto, per uscire alla grande. Forse! Eppure la delega sottoscritta dal Presidente del Consiglio il 13 giugno 2008 è di quelle da far tremare i polsi: “promuovere e raccordare, d’intesa con il Ministro per le pari opportunità la conciliazione dei tempi di lavoro e dei tempi di cura della famiglia; promuovere e raccordare le attività in materia di consultori familiari, ferme restando le competenze di carattere sanitario del Ministro del lavoro”. Inoltre Giovanardi “è responsabile delle attività del Governo nell’ambito dell’Osservatorio nazionale sulla famiglia”. Competenze da far tremare i polsi, ho detto poc’anzi, molto impegnative. Forse il Nostro sta studiando come iniziare ad esercitare la sua delega e, nel frattempo, si è preso un anno sabatico, per riflettere. Per questo è sfuggito alla nostra osservazione. Se poi, per avventura, avesse fatto qualcosa e non ne fossimo a conoscenza è come se non lo avesse fatto.
23 aprile 2009

Alla Fondazione Lepanto
Si è parlato di famiglia, stavolta con proposte concrete

di Salvatore Sfrecola

“La famiglia serbatoio culturale e morale: politiche familiari per la società di domani” è il tema che è stato affrontato ieri sera ad iniziativa della Fondazione Lepanto e dell’Associazione Famiglia Domani nella suggestiva sede di Santa Balbina, dove di recente si è trasferita la Fondazione. Alla presenza dell’assessore alle politiche della famiglia del Comune di Roma, On. Laura Marsilio, con una introduzione del Prof. Roberto de Mattei, ne hanno parlato il dott. Giuseppe Brienza, dottore di ricerca della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Roma “La Sapienza”, il dott. Paolo Floris, Presidente del Forum delle Associazioni Familiari del Lazio, la dott.ssa Paola Maria Zerman, Avvocato dello Stato, esperta di politiche familiari. Il dibattito è stato aperto dal Prof. de Mattei, che l’ha collocato nell’ambito di un programma di incontri e conferenze che la Fondazione Lepanto sta conducendo sul tema della famiglia sotto vari aspetti, etici, giuridici, sociali, come nella serata di ieri. Primo oratore l’Avv. Zerman, già coordinatore della Commissione della Presidenza del Consiglio sulla famiglia nella legislatura 2001-2006, direttore del giornale on-line La Famiglia nella Società (www.lafamiglianellasocieta.org) che ha condotto una panoramica impietosa sulla situazione attuale della famiglia nella legislazione italiana, segnalando le gravi carenze che, nonostante un preciso indirizzo costituzionale, si deve constatare nella adozione di misure che in qualche modo aiutino le famiglie a formarsi e ad affrontare le difficoltà economiche che comporta la presenza di figli. l’Avv. Zerman ha segnalato, in particolare, il disagio che vivono le famiglie numerose, in assenza di servizi che ne possano alleviare gli oneri. Concreta come sempre, l’avv. Zerman ha suggerito all’Assessore Marsilio di studiare come agevolare le famiglie nella fruizione dei servizi pubblici, a cominciare da quelli sportivi, per i giovani. Ed ha suggerito di attuare una sorta di valutazione dell’impatto che, in concreto, le politiche familiari hanno sui destinatari, un monitoraggio che consenta di valutare ex ante la validità delle iniziative adottate dalla Giunta ed, ex post, gli effetti che queste hanno avuto sulla platea degli utenti. Molto interessante anche l’intervento del dott. Floris, che ha portato al dibattito l’esperienza del Forum delle Associazioni familiari del Lazio. Ha parlato di sussidiarietà, quindi del contributo che le associazioni possono dare alla riuscita di buone politiche in favore della famiglia. In proposito ha richiamato il ruolo del Comune e della regolamentazione che ad esso spetta in materia, perché sia definito un quadro giuridico nell’ambito del quale articolare concretamente le singole misure. Il tema lo ha ripreso l’Assessore Marsilio dando conto di quanto il Comune ha fatto nel breve tempo che ha avuto a disposizione. Ha promesso di approfondire i temi oggetto della tavola rotonda insieme alle associazioni al cui contributo annette molta importanza. Ultimo oratore il dott. Brienza il quale ha stigmatizzato che negli autobus della linea urbana siano esposti volantini che, in qualche modo, pubblicizzano rapporti omosessuali. Ha chiuso il Prof. de Mattei richiamando le attività della Fondazione e l’impegno sullo specifico tema della famiglia che predisporrà un apposito dossier di proposte concrete da consegnare all’Assessore perché ne faccia oggetto di valutazione con i suoi uffici. Numerosi interventi da parte del pubblico hanno approfondito alcuni aspetti di quanto aveva formato oggetto delle relazioni ed introdotto nuovi argomenti in un dibattito di permanente attualità, soprattutto nell’attuale situazione di crisi economica.
23 aprile 2009

Patriottismo di partito addio
La scialuppa abbandonata del PD nel mare in tempesta

di Senator

Chi perde, in politica, continua a perdere. Così partiti in crisi vengono abbandonati dagli elettori, precipitosamente. È accaduto al glorioso partito liberale, erede di un’antica tradizione laica è democratica che aveva avuto tra i suoi massimi esponenti Luigi Einaudi, non dimenticato primo Presidente della Repubblica eletto, è accaduto per la Democrazia Cristiana che pure aveva tenuto la barra al centro della politica italiana per quasi cinquant’anni essendo protagonista della ricostruzione e dello sviluppo economico del Paese. Sta accadendo oggi con il partito democratico che, alla vigilia delle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo, stenta, a quanto pare, a fare le liste. “Le liste del PD – scrive oggi Massimo Franco nel fondo del Corriere della Sera – danno piuttosto l’idea di una squadra d’emergenza, fatta di ex notabili e giovani “promesse”: una formazione penalizzata non solo dal rifiuto di personalità più o meno note, ma dall’assenza totale e calcolata della nomenklatura. Dire che nel centrosinistra qualcuno gioca a perdere la partita del 7 giugno sarebbe ingiusto. Ritenere che però molti la considerano già persa, e dunque marchino le distanze dall’attuale vertice, per quanto maligno è un sospetto legittimo”. Il fatto è che, passato il tempo in cui i partiti, soprattutto la sinistra comunista, avevano uno zoccolo duro di fedelissimi ad ogni costo ed in ogni circostanza, come dimostra anche l’esiguità della scissione dopo i tragici eventi della rivolta ungherese del 1956 e della primavera di Praga del 1968, venuto meno il pericolo dall’Est, dopo la caduta dell’impero sovietico e del muro di Berlino, che hanno modificato profondamente la mappa del potere in Italia, a sinistra e a destra, l’elettore si sente più libero e, perduti i riferimenti ideali o ideologici, vota o non vota con maggiore libertà, ed infatti l’assenteismo è divenuto un fenomeno sempre più diffuso anche a sinistra. La fine delle ideologie, che mantenevano compatta una parte dell’elettorato, indipendentemente dai successi o dagli insuccessi della linea politica in concreto tenuta dal partito, ha liberato i cittadini da scelte quasi obbligate e li indirizza verso decisioni che nascono dal contingente. Nessun patriottismo di partito, dunque, spinge oggi gli elettori ad aiutare una compagine in crisi, anzi la fuga diventa precipitosa e la crisi irreversibile. A parte l’innata tendenza degli italiani a saltare sul carro del vincitore. Lo dimostra il fatto che partiti cambiano nome, come è accaduto a sinistra dove, nel giro di pochi anni, si è passati dal Partito comunista italiano al Partito democratico di sinistra ai Democratici di sinistra al Partito democratico, una variazione nel nome originata dall’evoluzione ideologica e infine dalla perdita dell’identità, in ragione dell’affastellarsi necessitato di più movimenti politici provenienti da esperienze diverse e da una formazione culturale diversa. Com’è accaduto nel Partito democratico con l’ingresso dei cattolici della Margherita che con gli ex comunisti hanno poco da spartire, nonostante la tendenza della sinistra cattolica, quelli che un tempo si chiamavano i cattocomunisti, ad assumere atteggiamenti socialisteggianti. Andiamo dunque verso una difficile stagione della politica, per lo squilibrio di forze che priva il dibattito politico-istituzionale di un’opposizione che gioverebbe anche allo stesso Governo.
22 aprile 2009

Lo dimostra la mancanza di prevenzione verso i disastri naturali
L’ordinaria amministrazione non piace ai politici

di Salvatore Sfrecola

Ricordo una conferenza di tanti anni fa di Marino Bon di Valsassina, professore di dottrina dello Stato e brillante oratore, sull’ordinaria amministrazione, disprezzata, diceva, dai politici, mentre è l’essenza del governo. Nel senso che governare significa prima di tutto gestire l’ordinario ed essere pronti all’emergenza. Ma poiché l’ordinario non fa notizia, all’organizzazione della pubblica amministrazione non si presta quell’attenzione che, invece, assicurerebbe ai cittadini servizi efficienti a basso costo, in via continuativa. Mi è tornato in mente quel che diceva tanti anni fa Marino Bon di Valsassina a proposito di un articolo di oggi sulla Corriere della Sera, di Michele Salvati, il quale, molto opportunamente, ricorda che “il controllo del territorio – dunque anche il compito di fare leggi in grado di attenuare i danni di eventi sismici e soprattutto di imporne il rispetto – è funzione essenziale è non delegabile dello Stato”. Di fatto questa funzione essenziale è stata trascurata. L’ho detto più volte, ma è necessario insistere sull’argomento perché lo stesso Salvati, ricordando che è stato consentito di coprire di abitazioni le falde del Vesuvio, evidente disattenzione per profili di sicurezza nei confronti degli abitanti di quegli insediamenti, denuncia la mancanza di controllo e teme che esso non ci sarà “neppure in futuro”. Questa situazione, che è sotto gli occhi di tutti, certifica in modo non equivoco il degrado dell’amministrazione pubblica italiana che si è abituata a lavorare sulle emergenze trascurando la gestione ordinaria delle attribuzioni sue proprie, quelle che danno conto ai cittadini della attenzione per l’esigenza quotidiana, che condiziona il modo di vivere delle persone. Un tempo non era così. Non sono stato mai un laudator temporis acti, eppure dobbiamo confrontarci su quel che è stato e su quello che è negli ordinamenti degli Stati con i quali ci confrontiamo, in Europa e non solo. Tanto per rimanere in un settore che attiene alla tutela del territorio voglio fare riferimento ad un’esperienza personale. Un giorno di alcuni anni fa, parlando con una signora che desiderava essere comandata a prestare servizio presso il mio ufficio le chiesi quale fosse la sua qualifica nell’ambito dell’amministrazione, il Ministero dei lavori pubblici. Disse sono “sorvegliante idraulico”, ed alla mia richiesta di spiegarmi quali fossero le sue mansioni precisò che avrebbe dovuto tenere sotto controllo un tratto di fiume, percorrendolo anche un mezzo nautico, al fine di verificare che non vi fossero situazioni, accumulo di legnami o di altri materiali, che potessero determinare una esondazione. Rimasi stupito, perché non conoscevo questa funzione dello Stato, ed allo stesso tempo favorevolmente colpito perché ne comprendevo pienamente l’importanza. Un po’ come per la funzione svolta dagli stradini lungo le arterie nazionali che controllavano i bordi delle strade verificando che non vi fossero, per esempio, intasamenti nei fossi laterali nei quali scorre l’acqua e d’inverno rischiano di rimanere intasati e di favorire la formazione di lastre di ghiaccio sull’asfalto con pericolo per la circolazione stradale. Un tempo gli stradini percorrevano lunghi tratti di strada a piedi ora lo fanno in automobile. Mi dicono che l’attenzione per questo importante compito dell’Anas continua. Salvati teme che non si presterà attenzione all’ordinaria amministrazione anche negli anni a venire. È un timore che condivido, considerato che l’amministrazione pubblica si sta impoverendo di uomini per una dissennata gestione del turn over che sta impoverendo gli uffici pubblici di professionalità e sta invecchiando l’amministrazione, se è vero come ha detto qualche anno fa in una intervista a Il Sole 24 Ore e direttore generale del personale del tesoro, Del Bufalo, che l’età media di un funzionario di quell’amministrazione è cinquant’anni. Così ai beni culturali, quella è l’età degli storici dell’arte, una categoria evidentemente preziosa in un Paese al quale la storia ha consegnato maggior parte dei beni storico artistici dell’intera umanità. Va detto, dunque, che l’amministrazione pubblica va ripensata, che forse del sorvegliante idraulico si può fare a meno utilizzando strumenti elettronici e di video sorveglianza, che tuttavia esigono che qualcuno stia dietro il monitor che segnala lo stato delle cose. Così va pensata o ripensata la normativa che detta le regole sulle costruzioni in zone a rischio, che va rigidamente applicata senza deroghe, che vanno applicate severe sanzioni, che espellano dalle mercato del lavoro le imprese che operano in violazione della legge ed i professionisti, che, venendo meno a obblighi di natura deontologica, omettano di adottare le tecniche imposte dall’autorità pubblica. Contemporaneamente, giova ripeterlo ancora una volta, le costruzioni nelle aree a rischio che non abbiano rispettato, magari perché all’epoca della loro realizzazione inesistenti, le regole antisismiche, devo essere messe a norma, come si è fatto per impianti elettrici, come si è fatto per gli ascensori. Le regole costruttive, la prevenzione, la messa a norma, costituiscono ordinaria amministrazione, quell’ordinaria amministrazione che se bene gestita impedisce l’emergenza o la limita in ambiti fisiologici. Non può tuttavia essere trascurato, per rispetto della verità, che a volte sono gli stessi proprietari degli immobili che in sede di costruzione o di ristrutturazione, per risparmiare, evitano l’adozione delle più costose tecniche antisismiche. E qui si pone un problema di responsabilità del privato, al quale forse si dovrebbe non riconoscere un sussidio pubblico per ricostruire la casa che è venuta giù per il sisma, ma anche della pubblica amministrazione che evidentemente ha omesso di verificare come l’opera è stata realizzata. Un dovere per l’autorità pubblica che deve prevenire i rischi alle persone. L’Amministrazione, per parte sua, lo consideri il Ministro Brunetta accanto alle altre opere meritorie che sta compiendo, si deve dotare di tecnici qualificati, ben selezionati e ben pagati. E siccome parliamo di gestione del territorio e delle opere pubbliche, l’Amministrazione deve tornare ad essere in grado di progettare, come un tempo, perché solo chi è capace di progettare e anche capace di controllare. Pensi il governo alla verità che sta dietro queste considerazioni sull’ordinaria amministrazione, che è la sua forza, e la ragione prima del suo ruolo. E ricordi che le amministrazioni pubbliche, nella storia, sono state di esempio per le organizzazioni private della produzione, perché nella pubblica amministrazione è nata l’organizzazione, la divisione del lavoro, la valutazione dell’efficienza dell’efficacia e della economicità. Dal pubblico queste regole sono passate al privato che se ne è giustamente appropriato e ora rivendica un ruolo nello sviluppo economico e sociale della comunità che è giustificato solo dalla progressiva inefficienza di alcuni settori dell’Amministrazione, conseguenza di scarsa capacità di direzione della classe politica che vuol dire scarso senso dello Stato.
21 aprile 2009

L’antica teoria di Giulio Andreotti
Dopo le europee torna la “politica dei due forni”?

di Senator

Si dice che sia stato Giulio Andreotti, agli inizi degli anni ’80, ad enunciare la teoria cosiddetta dei “due forni”, ipotizzando che il partito al centro dello schieramento, allora la Democrazia Cristiana, dovesse governare alleandosi ora a destra ora a sinistra in ragione della varietà delle esigenze di governo. Per spiegare bene il concetto Andreotti, fece l’esempio di una casalinga che, avendo due forni a disposizione, sceglie, di volta in volta, quello che le vende il pane migliore al prezzo più conveniente. E fu subito polemica per la logica di potere che la teoria esprimeva al di fuori di ogni visione strategica, di ogni riferimento ideologico, come se il partito fosse provi di un progetto culturale e di una strategia politica che non fosse quella della pura e semplice conservazione del potere. Oggi che le ideologie sono venute meno e, con esse, anche gli ideali, che pure caratterizzavano il partito “dei cattolici”, al centro dello schieramento, sia pure qualificandosi centrodestra, Forza Italia prima ed il Partito della Libertà oggi si appoggia ad una Lega nata e cresciuta a tutela degli interessi localistici ed egoistici di una zona del Paese che non brilla per aperture sociali e per interessi culturali, nell’area con la massima dispersione scolastica. Con un “forno” solo, il partito al centro dello schieramento soffre, come si constata con la vicenda dell’abbinamento della consultazione referendaria alle elezioni europee, di un condizionamento che dura da troppo tempo. Berlusconi lo sopporta, Fini l’aborre, il malcontento è diffuso. Le elezioni europee potrebbero risolvere molti problemi e riportare in auge la politica “dei due forni”. Scontata la vittoria del Partito della Libertà che i sondaggi dicono dilagherà da Nord a Sud, messa in conto la prevista tenuta, con significativi miglioramenti nelle percentuali e nei seggi, dell’Unione dei democratici di Centro la certa sconfitta del Partito Democratico fa intravedere un nuovo scenario. Infatti i cattolici margheritini, che finalmente hanno compreso che la gran parte dei “democratici” sono solo ex comunisti ridipinti, usciranno a frotte dal partito per allearsi a Casini, che già ha aperto loro le braccia generose. Con un nuovo “forno” che si aggiunge, Berlusconi sarà meno condizionato dalla Lega che, se non stesse al gioco, diventerebbe non più determinante. Già è accaduto in periferia, dove l’intesa del PdL con l’UDC è stata proficuamente sperimentata in giro per l’Italia.
19 aprile 2009

A proposito dei decreti legge e della legge di conversione
Il Presidente della Repubblica, la Corte,
il Governo e il Parlamento

di Salvatore Sfrecola

Ha destato, com’era inevitabile, polemiche politiche e riattizzato motivi di contrasto tra i giuristi la nota del Quirinale del 17 aprile a spiegazione e commento della lettera inviata il 9 aprile dal Capo dello Stato ai Presidenti di Senato e Camera, al Presidente del Consiglio e al Ministro dell’Economia, in tema di potere di decretazione d’urgenza del Governo e di conversione in legge da parte delle Camere. Un argomento che affronta una tematica di grande attualità, considerato che l’attuale Governo ricorre sovente all’adozione di decreti legge ritenendo che, in relazione alle esigenze della realizzazione del programma e di gestione delle urgenze, i tempi della legislazione ordinaria siano in molti casi eccessivamente lunghi. Spiega la nota di voler precisare, “in relazione alle indiscrezioni raccolte dalle agenzie di stampa in altri ambienti… che la lettera inviata dal Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, il 9 aprile ai Presidenti del Senato, della Camera, del Consiglio dei Ministri e al Ministro dell’Economia e delle Finanze, era riferita alla promulgazione della legge di conversione del decreto-legge 10 febbraio 2009, n. 5 recante misure urgenti a sostegno dei settori industriali in crisi, in un testo ampiamente modificato nel suo contenuto e nel numero di articoli rispetto al decreto legge originariamente emanato”. “La lettera – prosegue la nota – riprendeva osservazioni già sottoposte fin dalla scorsa legislatura all’attenzione dei Presidenti delle Camere e del Governo sulla necessità che la emendabilità dei decreti-legge nel corso dell’iter di conversione si mantenga rigorosamente nei limiti imposti dalla natura straordinaria della fonte prevista dall’art. 77 della Costituzione e dello stesso procedimento parlamentare di conversione in legge, che deve concludersi nel termine inderogabile di 60 giorni, anche alla luce del possibile sindacato che la Corte Costituzionale ha recentemente ritenuto di esercitare in relazione a decreti convertiti in legge”. “Si rilevava, in particolare, che sottoporre al Presidente della Repubblica per la promulgazione, in prossimità della scadenza del termine costituzionalmente previsto, una legge che converte un decreto-legge notevolmente diverso da quello a suo tempo emanato, non gli consente l’ulteriore, pieno esercizio dei poteri di garanzia che la Costituzione gli affida, con particolare riguardo alla verifica sia della sussistenza dei requisiti di straordinaria necessità ed urgenza sia della correttezza della copertura delle nuove o maggiori spese, ai sensi degli articoli 77 e 81 della Costituzione, per la necessità di tenere conto di tutti gli effetti della possibile decadenza del decreto in caso di esercizio del potere di rinvio ai sensi dell’art. 74 della Costituzione”. In parole povere, per delimitare, sulla base delle considerazioni del Presidente della Repubblica, il tema affrontato nella lettera ai vertici del Parlamento e del Governo, il Capo dello Stato ritiene che ove la legge di conversione introduca norme estranee rispetto a quelle del decreto legge, prive del requisito della necessità ed urgenza, verrebbe limitato il potere di controllo sulla legge di conversione che lo stesso Presidente esercita sulla legge di conversione all’atto della sua promulgazione, considerato che i ristretti limiti di tempo per la conversione, sessanta giorni, non consentirebbero l’esercizio del potere di rinvio alle Camere, che farebbe, nella maggior parte dei casi, superare detto limite con l’effetto della decadenza del decreto legge. Nello spazio ristretto, proprio di questa sede, proviamo a districare la matassa per rendere accessibile al più vasto pubblico dei nostri lettori la problematica e svolgere qualche considerazione in punto di diritto. In primo luogo va ricordato che in via ordinaria “la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere” (art. 70 Cost.). Tuttavia, “quando, in casi straordinari di necessità e d’urgenza, il Governo adotta sotto la propria responsabilità, provvedimenti provvisori con forza di legge, deve il giorno stesso presentarli per la conversione alle Camere che, anche se sciolte, sono appositamente convocate e si riuniscono entro cinque giorni” (art. 77, comma 2, Cost.). “I decreti perdono efficacia sin dall’inizio, se non sono convertiti in legge entro sessanta giorni dalla loro pubblicazione. Le Camere possono tuttavia regolare con legge i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti” (art. 77, comma 3, Cost.). Questo è il quadro normativo sul quale occorre discutere. In casi straordinari di necessità e d’urgenza il Governo può adottare norme “con forza di legge”, a carattere provvisorio (validità sessanta giorni). Questo fa “sotto la propria responsabilità”, cioè sostanzialmente sulla base di una valutazione propria della straordinarietà, necessità ed urgenza della situazione che va a disciplinare. E’ evidente che si tratta di una valutazione politica non priva, ovviamente, di una sua oggettività che spetta al Capo dello Stato valutare in sede di emanazione del decreto. E’ una valutazione sommaria che mira ad escludere ogni macroscopica violazione della regola e, in genere, dei principi costituzionali relativi ai diritti che la Carta fondamentale tutela e garantisce. Ed ora vediamo qual’è il ruolo del Parlamento. Innanzitutto quello di verificare che il Governo abbia operato nei limiti dell’art. 77. Le Camere, pertanto, esaminano, in via prioritaria, se il decreto è stato emanato in presenza di una situazione straordinaria di necessità e d’urgenza. Si tratta di una valutazione squisitamente politica rimessa ad un’assemblea politica che ha approvato, all’atto della sua costituzione, l’indirizzo politico del Governo il quale rimane in carica fino a quando gode della fiducia del Parlamento. Passando, poi, al merito del decreto legge le Camere possono convertirlo o meno. Possono emendarlo. E qui si pone il problema che ha sollevato il Capo dello Stato. In che misura possono emendarlo? In sostanza le Camere hanno limiti nell’esercizio di questa funzione o sono libere di aggiungere altre norme, anche estranee alla materia o alla disciplina del decreto legge? In proposito si scontrano due orientamenti dottrinali che utilizzano anche argomenti di alcune pronunce della Corte costituzionale. In primo luogo occorre tenere presente che la “funzione legislativa” appartiene alle Camere. Essa soffre di una limitazione quando il Parlamento legifera in sede di conversione? E’ un tema estremamente delicato. Le Camere sono espressione della sovranità del popolo. Perché dovrebbero trovare una limitazione, perché dovrebbero omettere di adottare norme ove ritenessero di dover farle entrare rapidamente in vigore, indipendentemente dalla circostanza che per esse ricorrano i requisiti di straordinaria necessità ed urgenza che hanno mosso il Governo all’atto dell’emanazione del decreto legge? Non è forse il Parlamento giudice delle proprie prerogative, considerato che la deroga consentita al Governo di emanare decreti “con forza di legge” è soggetta alla verifica immediata delle Camere? Ho difficoltà a ritenere che il Parlamento, organo sovrano, al centro del sistema costituzionale, non possa, non solo, valutare in via definitiva in ordine all’esistenza dei requisiti di necessità e di urgenza ma anche se sia opportuno o meno introdurre nella legge di conversione altre norme “approfittando” della strada veloce della legge di conversione decreto legge. Comprendo i motivi che muovono le critiche di alcuni giuristi. Non è “elegante” il ricorso reiterato al decreto legge, una certa forzatura nella identificazione dei requisiti per la sua emanazione, l’allagarsi del quadro normativo definito in sede di conversione. Non è elegante, denota difficoltà nell’esercizio della funzione legislativa ordinaria ed anche una incapacità della maggioranza, grave soprattutto quando rilevante è la consistenza dei gruppi parlamentari che la costituiscono, di portare rapidamente in porto le leggi che esprimono il proprio indirizzo politico. In sostanza nella critica alla situazione attuale della decretazione d’urgenza si intravede soprattutto il desiderio di un diverso assetto dei rapporti tra Governo e Parlamento, anziché fondati motivi desumibili dalle norme della Costituzione. Veniamo, dunque, alle osservazioni del Capo dello Stato il quale assume di non poter esercitare il suo potere di verifica sulla legge di conversione, considerati i tempi brevi (sessanta giorni) dai dalla Costituzione, pena la decadenza del decreto. Sul piano formale va rilevata la giusta osservazione di Valerio Onida del 27 giugno 2008 (www.astrid-online.it) il quale ipotizza “che la promulgazione successiva della legge di conversione, riapprovata dalle Camere a seguito del rinvio presidenziale, pur intervenendo oltre i sessanta giorni, consenta alla legge stessa di operare egualmente in modo retroattivo la conversione del decreto (fermo restando il vuoto nel frattempo prodottosi fra la scadenza dei sessanta giorni e la tardiva promulgazione), in quanto entro il termine si era comunque espressa, attraverso la definitiva approvazione della legge di conversione poi rinviata, la volontà del Parlamento di convertire il decreto medesimo”. Al centro del problema, come detto, il potere del Parlamento, in sede di conversione, di introdurre o meno norme nuove le quali non siano caratterizzate dall’esistenza della necessità e dell’urgenza che hanno mosso l’originaria iniziativa del governo. Queste norme il Presidente della Repubblica vuole sindacare sotto il profilo dell’esistenza di quei requisiti. Il Presidente fa riferimento al “sindacato che la Corte Costituzionale ha recentemente ritenuto di esercitare in relazione a decreti convertiti in legge”. Ritengo si riferisca alla sentenza n. 171 del 2007 secondo la quale”affermare che la legge di conversione sana in ogni caso i vizi del decreto significherebbe attribuire in concreto al legislatore ordinario il potere di alterare il riparto costituzionale delle competenze del Parlamento e del Governo quanto alla produzione delle fonti primarie”. La tesi non convince se si considera che, in via ordinaria, l’esercizio della funzione legislativa appartiene proprio al Parlamento, che interviene per accettare o meno le norme che il Governo (che in proposito si avvale di una deroga) ha adottato con il decreto legge. E in quella sede (la conversione del decreto) introduce altre norme che avrebbe potuto adottare con provvedimento autonomo. Dov’è la violazione del riparto delle competenze? Mi sembra francamente che si pretenda di introdurre una inammissibile limitazione dei poteri sovrani del Parlamento che è giudice delle proprie prerogative e, in primo luogo, della valutazione, tutta politica, delle norme che ritiene di adottare in sede di conversione, una legge ordinaria, va ricordato, che non soffre delle limitazioni che si vorrebbero imporre. Che poi si sia di fronte ad un modo di legiferare che desta forti perplessità non c’è dubbio. Ma non è da oggi che il concetto di sedes materiae, che governava un tempo l’esercizio della funzione legislativa con limitazione degli argomenti oggetto di uno specifico provvedimento, è stato abbandonato dal Parlamento, a cominciare dalle leggi finanziarie. La riforma va ricercata nel costume politico e in una limitata ma razionale riforma del sistema parlamentare che esalti il ruolo politico dei rappresentanti della volontà popolare e consenta al Governo di perseguire il proprio indirizzo politico nei tempi fisiologici rispetto alle esigenze.
19 aprile 2009

La via crucis del precario
Santoro o del cattivo gusto

di Salvatore Sfrecola

Non ho da difendere nessuno, se non la libertà d’informazione, il diritto di satira, il buon gusto. Cominciamo con la libertà d’informazione, regola prima della libertà di un popolo. Nessun bavaglio per nessuno ma regole deontologiche da rispettare per essere rispettati, per rivendicare il diritto al rispetto. I fatti distinti dalle opinioni. Il cronista è un po’ come lo storico, trova i documenti, li esibisce, li commenta. Il fatto è obiettivo, il commento sul fatto di parte, ma si deve basare comunque sui documenti, deve essere ancorato rigidamente alla realtà. Così, per parlare terremoto, c’è spazio per valutazioni critiche. L’Italia è tutta a rischio, come ha ricordato Titti Postiglione, responsabile della Sala Operativa della Protezione civile è qui ci si può sbizzarrire ad individuare le responsabilità a tutti i livelli. Non sulla prevedibilità di un evento catastrofico dopo una sequenza di scosse (il cosiddetto sciame sismico) ma sulla prevenzione e sulla predisposizione degli strumenti operativi per affrontare una possibile emergenza. Ce n’è abbastanza per mettere alla gogna i governi degli ultimi cinquant’anni, al centro ed in periferia. Nel senso che si dovevano imporre rigide ed adeguate tecniche costruttive antisismiche ed interventi di messa a norma degli edifici esistenti, quelli costruiti quando quelle regole non c’erano o si consentiva fossero impunemente violate. Inoltre, compito degli enti locali, nelle zone a rischio, doveva essere quello di predisporre aree, magari multiuso, idonee, all’emergenza, ad ospitare una tendopoli. Tipica un’area sportiva, dotata di impianti idrici ed elettrici che, in caso si manifesti l’esigenza, si può trasformare facilmente in una base di soccorso, in una tendopoli. Su questo si deve discutere e di queste carenze vanno individuate, senza timore reverenziale per nessuno, le varie responsabilità. In questa sfera della libertà di informazione e di critica c’è spazio anche per la satira, quella intelligente messa alla berlina dei potenti che è il sale della libertà. È un grande spazio quello che la satira si prende con un solo limite, il buon gusto, che impone di evitare di irridere ciò che non è, e non può essere, oggetto della polemica politico giornalistica. In primo luogo la religione, le divinità di qualunque credo che non sono e non possono essere coinvolte nei fatti della cronaca, perché vivono in una dimensione spirituale fuori dal tempo dello spazio. Non è satira coinvolgere in una legittima polemica giornalistica simboli e storie delle religioni, sfruttando ignobilmente la popolarità di certi eventi legati alla fede. E’ quanto, invece, abbiamo visto ieri sera sul palcoscenico di “Annozero”, con le vignette sulla via crucis del precario. L’espressione è di uso comune ed indica difficoltà e peripezie di una o più persone ma se accompagnata da immagini che insistono sull’uso della croce e espressioni che rievocano la passione di Cristo, evidentemente si scende nel cattivo gusto. Non è satira, è offesa, pura e semplice, alla religione ed ai suoi credenti, sfruttando la popolarità dei suoi simboli e della sua storia, per meschini calcoli di audience. Non è satira e non è neppure polemica giornalistica. Infine un’ultima osservazione. Si prendono sempre di mira i simboli e le storie della religione cattolica. E’ evidente che ciò avviene perché sono argomenti popolari e noti. Mai che la satira abbia ad oggetto l’Islam. Ci anno provato i danesi ed è scoppiato un finimondo al di qua e al di là del mare Mediterraneo. Anche in quella occasione fu cattivo gusto. Cristo, come Maometto, va rispettato anche dai non credenti se non altro perché milioni di uomini e donne credono e non è bene offendere i loro sentimenti. Caro Santoro, “scherza con i fanti e lascia stare i santi” si è detto sempre. Quelle vignette non sono satira né giornalismo. Mi viene da dire che la povertà del pensiero e la incapacità di denunciare le vere responsabilità, di cui ha dato prova ieri sera la trasmissione, suggerisce l’uso improprio della satira per ottenere quell’attenzione che, in assenza di argomenti seri (che pure ci sono!), non riesce ad ottenere. Lei vuole passare per un martire della libertà d’informazione. In realtà è un martire di se stesso, perché non sa trovare la misura giusta per svolgere il suo lavoro. A me o che questo polverone non serva a precostituire una candidatura a Bruxelles alla faccia degli ingenui che credono che lei sia un giornalista indipendente.
17 aprile 2009

Dopo il NO all’election day
Il “gelido” Fini

di Senator

Il Presidente della camera si smarca rispetto all’intesa Berlusconi Bossi sul no all’election day cioè all’abbinamento di elezioni europee e referendum sulla legge elettorale. E’ uno spreco di soldi in un momento di grande difficoltà per il Paese. Quattrocento milioni di euro stanno meglio nelle tasche dei terremotati dell’Abruzzo che in quelle degli scrutatori delle sezioni elettorali e Fini si schiera contro la scelta del leader del suo partito e ancora una volta occupa le prime pagine dei giornali. Le cause di questa presa di posizione sono molte, sono politiche e vengono tutte prima della preoccupazione dello spreco di risorse. Gianfranco l’Umberto non l’ha mai sopportato. Quel padano dal sicuro intuito politico, che ha avuto la capacità di intercettare il malessere che viene dal ventre molle del nord-est, dalle micro imprese e dalle fabbrichette che mal sopportano il tallone del fisco (il popolo delle partite Iva), quel Bossi Fini non l’ha mai digerito. Sarà per il federalismo spinto che tiene in ombra l’interesse nazionale (ma perché l’allora Vicepresidente del Consiglio inviò a Lorenzago di Cadore a parlare della riforma della Costituzione il siciliano Domenico Nania, più autonomista dei padani?) sarà per un fatto di pelle, ma l’ex leader dell’ex Alleanza nazionale, appena può, spara a zero. “Senso dello Stato zero”, si è sentito ripetere più volte nei corridoi di Palazzo Chigi quando i due convivevano nello stesso governo. E il più delle volte Fini pensava a Bossi. Ma oggi l'”a solo” di Fini è parte di una strategia, un’iniziativa che mira a conquistare un credito da utilizzare alla migliore occasione. Comprendendo che ha scarse possibilità di assumere la guida del Partito della libertà e quindi la guida di un eventuale governo del dopo Berlusconi, a Fini non resta che fare il Giuliano Amato del centrodestra. Mira a conquistarsi simpatie a sinistra e al centro, in vista di proporsi come outsider in un’eventuale corsa al Quririnale. Ipotesi tutta in salita, evidentemente solitaria, difficile, che non è riuscita neppure ad Amato, che pure aveva gettato sul piatto della bilancia la sua esperienza politica, la professionalità indiscussa di costituzionalista e le sue amicizie americane. Queste ultime le anche Fini, ma, a differenza di Amato, il Presidente della Camera non ha una professionalità accademica ed è uomo di scarse letture. Che sia questa la carta vincente? Gli intellettuali, si sa, in questo Paese destano sempre diffidenza.
16 aprile 2009

E l’agenda del governo?
di Senator

L’onda sismica, il terremoto che ha messo in ginocchio l’Aquila e l’intero Abruzzo si è sentita fino a Roma e non solo in senso fisico, con l’oscillare dei lampadari delle nostre case. L’onda sismica ha avuto l’effetto di bloccare l’agenda del governo, giustamente impegnato nel soccorso delle popolazioni e nei progetti di ricostruzione del tessuto urbano e dei beni artistici danneggiati dal terremoto. il fatto è che la situazione economica di un Paese la cui economia stagna, che richiede l’impiego di notevoli somme di denaro pubblico per assicurare una ragionevole condizione di sopravvivenza per le famiglie e per le imprese, ha reso evidente la scarsezza di risorse a disposizione e la insufficiente flessibilità del sistema che non consente, di fronte a un’emergenza diffusa e su vari fronti, di reimpostare il sistema della spesa in modo da sovvenire alle varie esigenze, senza impoverire ulteriormente famiglie e imprese e rendere inefficiente la pubblica amministrazione. Le iniziative di cui si è parlato in questi giorni per recuperare risorse da destinare alle popolazioni delle aree terremotate, dall’utilizzazione del premio dell’enalotto ad una tassa straordinaria, all’utilizzazione del 5 per 1000, che priverebbe di risorse il settore della ricerca con effetti negativi evidenti, dimostra che si è raschiato il fondo del barile e che la fantasia non sostiene più i nostri governanti. Contemporaneamente, impegnati come è doveroso nell’aiuto ai terremotati, governo e opposizione sembrano aver abbandonato l’agone della politica, il confronto sulle scelte, la ricerca della strada per rendere questo Paese più moderno è meglio governabile. Attenzione, ho premesso che l’impegno nei confronti delle popolazioni di Abruzzo è doveroso e trova la solidarietà di tutti gli italiani, per la tragedia che abbiamo vissuto praticamente in diretta e per la simpatia antica che circonda i nostri concittadini di quella bella regione. Il fatto è però che avviate concretamente tutte le iniziative necessarie per assistere i senza tetto e per definire i termini della ricostruzione il Governo e la sua maggioranza avrebbero dovuto affrontare anche gli altri problemi sul tappeto, quelli che con linguaggio politico giornalistico vengono definiti l’agenda della politica. Cioè gli altri gravi problemi di carattere economico e finanziario che riguardano la condizione di vita delle famiglie e la capacità delle imprese di essere elemento di ripresa dell’economia nel momento in cui si intravedono timidi ma certi segnali, colti con ottimismo da tutti gli osservatori. Si ha, in sostanza, l’impressione che l’emergenza terremoto costituisca quasi un alibi per nascondere una mancanza di idee o, forse più esattamente, una difficoltà nella maggioranza dovuta alle condizioni poste dalla Lega, ogni giorno più stringenti, anche per avere questo movimento politico un referente nel governo del peso del Ministro dell’economia e delle finanze. Non vorremmo dunque, che le obiettive difficoltà dovute alla situazione economica pesante e all’esigenza di reperire ingenti fondi per le popolazioni che hanno sofferto i tragici effetti del terremoto abbiano determinato l’esaurimento delle risorse disponibili e quindi bloccato l’azione del governo e la fantasia della maggioranza. Ad esempio non si intravede all’orizzonte, a parte le proposte di cui ho detto prima, del tutto insufficienti, qualche iniziativa che sul fronte fiscale possa favorire il rientro dei capitali fuggiti all’estero negli anni scorsi, che già fu iniziativa provvida del Ministro Tremonti due legislature fa. In fin dei conti, quel che preoccupa è questa situazione che fa pensare ad una ridotta capacità di affrontare contemporaneamente più problemi, che non fa presagire niente di buono se in un futuro, più o meno lontano, dovessero verificarsi situazioni di emergenza, quali potrebbero derivare da una crisi politica conseguente all’indisponibilità di qualche leader di quelli che governano l’attuale maggioranza. Anche l’equilibrio interno alla maggioranza potrebbe mutare se, ad esempio, com’è probabile, le elezioni europee vedranno la sconfitta del Partito Democratico ed un buon successo dell’Unione dei democratici di centro. Questo risultato determinerebbe molto probabilmente l’uscita dell’area cattolica dal PD e la sua confluenza del partito di Casini, aprendo la strada ad uno scenario tutto nuovo che darebbe al centro cattolico il ruolo di possibile sostituto della Lega negli equilibri di governo al centro ed in periferia. In tutto questo occorre tener conto, senza ipocrisia, che il Cavaliere può uscire di scena, anche a breve, per salire al Quirinale o ancora più in alto. Con l’effetto destabilizzante della successione a chi non ha creato una solida rete immaginando, come ha detto più volte, e a lui sono necessari pochi elementi per governare il Paese. È l’eterna illusione degli autocrati, che pensano di essere essi soli indispensabili e stentano a creare staff destinati a garantire la continuità del governo dello Stato. Per un inguaribile ottimista o manifestato fin troppe preoccupazioni.
15 aprile 2009

Lo stile Berlusconi “contagia” Schifani
Anche il Presidente del Senato in maglietta girocollo

di Arbiter

In visita ai terremotati d’Abruzzo, ieri il Presidente del Senato, Renato Schifani, lo vediamo nelle foto riportate dai giornali, lo abbiamo visto in televisione, ha esibito, sotto un’impeccabile giacca stile istituzionale, una maglietta bianca girocollo molto simile, se non identica, tranne che per il colore, a quella che, da qualche tempo, indossa il Presidente del Consiglio Berlusconi, che invece predilige il blu. Devo dire che quel look non mi piace, lo indossi il Capo del governo o il Presidente del Senato. Non si comprende quale stile voglia incarnare. Denota un atteggiamento ostentatamente dimesso che vorrebbe avvicinare l’autorità pubblica al cittadino, sia l’elettore, come fa Berlusconi in occasione di incontri elettorali, sia, in questo caso, il cittadino sofferente. Non mi piace. Al di là del modo con il quale può essere interpretato dalla gente l’uso di questo capo di abbigliamento, il maglioncino girocollo, sia di cotone o di lana, non è elegante. In primo luogo se abbinato ad un completo scuro, stile ufficio. Poi perché non si attaglia a persone di una certa età, delle quali mette in risalto l’incedere inesorabile del tempo sul tessuto del collo. Molto meglio in questi casi, quando si vuole apparire sportivi, l’uso di un abito che ne abbia le caratteristiche, ad esempio uno spezzato, con una maglia o una camicia con il collo aperto che è espressione di quella eleganza sobria che si richiede, in alcune occasioni, a persone di un certo rango cui non giova, agli occhi della gente, un look inventato e palesemente non consueto. È certamente più efficace essere che apparire. Forse lo diranno anche i sondaggisti al Presidente del Consiglio che, giustamente, è molto attento alla sua immagine. Per quel che vale, il nostro giudizio è negativo sul maglioncino girocollo bianco blu che sia esibito per sembrare.
12 aprile 2009

I dubbi del Ministro Brunetta:
perché lo Stato perde tante cause?

di Salvatore Sfrecola

Il Ministro Brunetta si è chiesto più volte, e lo ha chiesto in giro, perché lo Stato perda assai spesso le sue cause dinanzi ai giudici ordinari ed amministrativi. Non deve aver avuto risposte esaurienti il Ministro, perché altrimenti non avrebbe continuato, in pubblico ed in privato, a ripetere questa domanda. Il Ministro sta facendo un buon lavoro e vogliamo aiutarlo in questa sua ricerca. La sua è una domanda che si fanno in molti, non soltanto con riferimento allo Stato ma anche agli altri enti pubblici, territoriali ed istituzionali. Sembra, ad esempio, che l’Istituto nazionale della previdenza sociale, l’INPS, abbia un rilevante contenzioso in materia di personale ed intenda in qualche modo venirne fuori, considerato che sovente perde già in primo grado. Una questione, va subito chiarito, nonostante sembri che questo sia, o sia stato in qualche occasione, il dubbio del Ministro, che non riguarda gli avvocati, dello Stato o degli enti pubblici e del libero foro, ai quali si rivolgono spesso le pubbliche amministrazioni o gli enti. In sostanza, non è un problema di capacità di coloro che difendono lo Stato e gli enti pubblici in giudizio i quali, nonostante le grandi difficoltà nelle quali operano per la mole del contenzioso rispetto alle forze in campo, fanno il loro dovere egregiamente, pur nei tempi ristretti che sono loro dati dalla situazione obiettiva della quantità e della rilevanza delle cause. Infatti lo Stato e gli enti pubblici non perdono solo dinanzi ai giudici, perché spesso risultano soccombenti in sede arbitrale. Ha fatto bene, dunque, il Ministro a sollevare la questione, ma forse ha bisogno di qualche consiglio per individuare le cause vere di questa situazione. A leggere le sentenze dei giudici ordinari e amministrativi si comprende facilmente che le amministrazioni perdono frequentemente perché, detto fuori dei denti, hanno torto. Con il proprio personale, quando adottano provvedimenti che incidono su interessi legittimi all’attribuzione delle funzioni o del trattamento economico. Hanno torto quando incidono negativamente sui diritti soggettivi dei cittadini in materia, ad esempio, di espropriazioni ed in genere nelle varie fattispecie di danno. Si pensi ai problemi di gestione del territorio, alla sicurezza delle strade ed a tutte quelle situazioni nelle quali la responsabilità civile, contrattuale od extra contrattuale, viene fatta valere dal cittadino il quale subisce gli effetti negativi di attività spesso poste in essere con dispregio dei diritti, appunto. Le cause di questa situazione sono tante, le più fisiologiche, lo diciamo tra virgolette, come si usa dire, sono quelle che derivano dalla difficoltà delle amministrazione di agire tempestivamente, ad esempio nelle procedure di espropriazione, che incidono su un diritto di particolare rilevanza, come il diritto di proprietà. Vi sono casi, e sono quelli che più dovrebbero preoccupare il Ministro, nei quali le amministrazioni fanno strame di un principio essenziale della nostra Costituzione, il principio della imparzialità, sancito dall’articolo 97, che non ha soltanto una rilevanza esterna, cioè nei confronti dei consociati, ma anche interna, nei confronti dei soggetti che operano nell’ambito dell’apparato. È la violazione di questo principio che sovente chiama in causa le amministrazioni e ne determina la soccombenza nei giudizi. In questo senso il Ministro riformatore, al quale si devono alcune iniziative interessanti che hanno restituito dignità all’amministrazione, come quella della compressione del fenomeno indecente delle assenze arbitrarie dal luogo di lavoro in prossimità dei ponti e delle ferie, deve impegnarsi perché l’amministrazione pubblica, che rappresenta agli occhi del cittadino lo Stato, la massima autorità della Repubblica, si comporti nel rispetto delle ricordate regole che derivano dal principio di imparzialità, ma anche di quello di buona amministrazione, che sta scritto nella stessa norma costituzionale, il che significa operare bene nel rispetto dei criteri di economicità, efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa perché ogni lira, pardon ogni euro, sia spesso secondo le indicazioni della legge e nell’interesse della comunità nazionale. Occorre in sostanza che cambi la mentalità dell’amministrazione che, nonostante alcune significative riforme, come quelle sul procedimento, continua a mantenere nei confronti del cittadino, ma anche dei propri membri, un atteggiamento di arroganza assolutamente ingiustificabile. Ricordo, ad esempio, che da giovane funzionario sentivo spesso ripetere ” è discrezionale”, espressione non usata, lo abbiamo imparato sui libri di diritto amministrativo, come manifestazione del potere di scelta dell’amministrazione indirizzato verso quella che avesse tutti i requisiti di legalità e di efficienza nell’interesse pubblico, ma come arbitrio assoluto e, in qualche misura, incontrollabile dell’autorità pubblica. Il Ministro deve porre rimedio a questa situazione che evidentemente ancora persiste come dimostrato dalla consistente mole del contenzioso e dal fatto che spesso, troppo spesso, le amministrazioni escono dai tribunali sconfitte. Deve porre rimedio sotto due profili, inducendo i suoi colleghi ministri ad un atteggiamento rispettoso delle leggi e delle regole, senza spingere i funzionari ad adottare provvedimenti di dubbia legittimità per soddisfare le esigenze dei clientes, che non mancano mai intorno ai politici, anche a quelli più illuminati, o per ottenere in qualche modo la sudditanza dell’amministrazione attraverso trasferimenti e i conferimenti incarichi arbitrari. Perché a tutti bisogna ricordare che “i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione” come recita l’articolo 98 della Costituzione e non già del ministro di turno. Questa cultura istituzionale che più volte la Corte costituzionale ha richiamato censurando comportamenti abnormi dello Stato e delle regioni deve diventare un costume della Repubblica. Caro Ministro Brunetta con tutta la simpatia che ha destato in me la sua opera ed anche il modo con il quale affronta i problemi, lei passerà alla storia dell’Amministrazione italiana soprattutto se saprà indurre tutti, i suoi colleghi politici e dirigenti dell’amministrazione, al rispetto rigido della legge, ché è condizione di efficienza dell’apparato e di buona gestione della cosa pubblica. In caso contrario, lo Stato continuerà a perdere le cause ma lei non potrà continuare a chiedersi il perché.
12 aprile 2009

Il turismo, una risorsa straordinaria
che potrebbe dare molto di più all’economia del Paese

di Salvatore Sfrecola

I giornali di questa mattina danno notizia del numero degli italiani in vacanza, prevalentemente nel nostro Paese (l’80 per cento, sembra), e di quanti sono venuti a visitare le nostre città d’arte in questa stagione che comincia ad avere un clima gradevole in tutte le regioni. Si dice anche che il numero dei turisti sarebbe sostanzialmente in linea con quello dello scorso anno, a voler sottolineare che questo settore dell’economia nazionale soffre meno della crisi che preoccupa i governanti di tutti paesi sviluppati. Partendo da questo dato rassicurante vogliamo sviluppare alcune considerazioni sul settore del turismo, sul suo ruolo all’interno dell’economia nazionale e sulle potenzialità che esso rivela e che andrebbero colte e sviluppate. Se il turismo italiano di quest’anno, nonostante la crisi economica e le preoccupazioni che in Europa e negli Stati Uniti attanagliano tante persone che hanno perso o rischiano di perdere il lavoro, ha mantenuto un livello analogo a quello dell’anno scorso vuol dire che questo settore dell’economia italiana gode sostanzialmente di buona salute e potrebbe contribuire ancora di più alla ripresa dell’economia nazionale. In sostanza, se l’offerta turistica tiene, nonostante la scarsità di infrastrutture ricettive in molte aree del paese, spesso di infima condizione, il costo degli alberghi e dei ristoranti, l’inadeguatezza delle strutture museali e delle aree archeologiche, vuol dire che l’attrattativa che l’Italia conserva a livello internazionale come meta di vacanze è ancora forte, nonostante la serrata concorrenza dei paesi del Mediterraneo e continentali, come la Spagna, ad esempio. Questo conferma quel che io ho sempre ritenuto, che il turismo italiano non sia originato dal desiderio del sole e del mare, che certamente potrebbe essere goduto in altre regioni del Mediterraneo in condizioni migliori, il mare soprattutto. La presenza di turisti stranieri, ancora consistente nonostante il calo che si è registrato negli ultimi anni, dimostra una cosa che è di palmare evidenza ma non compresa dai nostri governanti, al centro e nelle regioni, che i visitatori del nostro Paese sono richiamati soprattutto dalla storia e dalla cultura delle regioni italiane, da quel meraviglioso ambiente naturale che è un grande, immenso museo all’aperto dove insistono opere d’arte di straordinaria bellezza appartenenti alla storia dell’umanità lungo almeno tre millenni. Storia e cultura, cioè monumenti, ma anche biblioteche e teatri lirici e tutto ciò che ha reso l’Italia famosa nel mondo attraverso la cultura dei suoi poeti e dei suoi letterati e la musica, meravigliosa eterna, dei suoi compositori. Forse non tutti sanno, ad esempio, della presenza consistente di studenti stranieri nei nostri conservatori di musica, giovani provenienti da tutto il mondo che studiano o si perfezionano nel nostro Paese e che tornando in patria sono dei piccoli ma importanti ambasciatori della nostra cultura e della nostra civiltà. Per cui la musica apre anche la strana ad altre presenze artigianali e industriali italiane in quei paesi. Ecco un dato trascurato. Chi visita l’Italia per godere delle bellezze naturali e artistiche di questo paese, s’innamora anche della sua cucina, con i suoi aromi con la fantasia delle sue ricette, e dell’artigianato, prezioso retaggio di buon gusto, di artistica capacità di realizzare col filo o con la ceramica opere di grande valore. Ma sembra che nessuno dei nostri governanti comprenda il valore dell’apprezzamento che il turista straniero o anche italiano ha per queste splendide realizzazioni della fantasia e del gusto italiani. Per cui, come ho detto prima degli musicisti, che tornano in patria facendosi ambasciatori della nostra musica e della nostra cultura, così molti turisti porteranno nei loro paesi la trina, la tovaglia, il bucchero e, perché no, una scatola di spaghetti da cucinare a casa loro. Quel che voglio dire è che il turismo italiano muove una quantità enorme di interessi e di attività delle quali nessuno ci potrà mai espropriare. Certo, continueremo a trovare al mercato del Porcellino le paglie “di Firenze” made in China ma nel complesso l’Italia avrà una grande capacità di presentazione ai milioni di visitatori che ogni anno affollano le nostre città del meglio della nostra tradizione artigianale ed artistica. È dunque il momento di ripensare al modello di sviluppo di questo Paese. Che non può essere costruito esclusivamente a misura di altri paesi industrializzati la cui economia si basa quasi esclusivamente sulle attività industriali le più varie. Nessuno pensa a ridimensionare l’industria metalmeccanica o elettronica della quale pure l’Italia mena vanto, ma è evidente che noi possiamo dare un valore aggiunto alla nostra economia attraverso il rilancio dell’offerta turistica che significa costruzione di infrastrutture turistiche, strade porti turistici, alberghi, ristrutturazione di aree museali inadeguate ad una moderna concezione dell’esposizione dei beni artistici, tutte le realtà che comportano migliaia, decine di migliaia, centinaia di migliaia di posti di lavoro, in un settore che nessuno potrà clonare. Il turismo, infatti, mette in movimento, come già ho accennato, una quantità enorme di interessi. È la stessa immagine del nostro Paese nel mondo che trascina tutte le altre attività industriali e commerciali. Perfino l’acquisto di un’automobile italiana può essere indotto dall’amore che per il nostro paese possono coltivare i turisti che vengono per ammirare i templi di Paestum o i dipinti del Museo Vaticano o della Galleria degli Uffizi a Firenze, pochi esempi in un Paese che è tutto un museo inserito in un contesto ambientale e paesaggistico di straordinaria bellezza, variegato in relazione alla latitudine le sue città. Ho scritto una volta che mi auguro venga il tempo nel quale il Ministro per i beni culturali abbia in Italia la stessa importanza che nei paesi arabi riveste il ministro del petrolio perché i beni culturali sono il nostro petrolio. Con una particolarità che l’oro nero sembra destinato in un tempo più o meno lungo a esaurirsi, mentre il nostro “oro” continuerà a brillare nella storia e nella cultura fino a quando l’umanità sarà in condizione di comprendere il valore e il senso della sua storia, che non è soltanto storia politica ma espressione del genio di un popolo che dalla scultura alla letteratura, dalla pittura alla musica ha dato nel corso dei secoli il più grande apporto alla storia dell’umanità. Non aver compreso nel corso degli ultimi decenni che il modello di sviluppo del nostro paese doveva avere al centro questa grande realtà del turismo italiano dimostra la scarsa capacità della classe politica di comprendere quali sono i valori autentici della nostra economia e dello sviluppo.
12 aprile 2009

I medici ed i tecnici dell’Ordine di Malta
in primo piano negli aiuti ai terremotati d’Abruzzo

di Salvatore Sfrecola

E’ iniziata nelle prime ore del 6 aprile, a meno di tre ore dal sisma violento e distruttivo che ha fatto tremare la terra d’Abruzzo, l’impegno, silenzioso e tenace, del Corpo Militare dell’Associazione Italiana dell’Ordine di Malta. Un primo gruppo di medici, ambulanze, soccorritori ed equipaggiamento per il pronto soccorso è entrato in azione a L’Aquila alle 6 di mattina. Nelle ore successive sono giunte tende ed un ospedale mobile. In collaborazione con la Protezione civile italiana i gruppi di volontari di Abruzzo, Marche, Firenze e Umbria gli uomini del Corpo Militare hanno operato con dedizione avvalendosi, nella ricerca di quanti sono rimasti sotto le macerie, di cani addestrati a trovare i feriti intrappolati, mentre il personale medico dell’Ordine ha assistito i feriti e coloro che sono rimasti senza casa. Nel corso di queste tragiche giornate il Corpo Militare Ausiliario dell’Ordine di Malta ha soccorso alcune centinaia di persone, tra questi 66 feriti gravi che sono stati ricoverati presso gli ospedali delle aree vicine o dimessi il giorno successivo. L’attività di soccorso ha comportato l’impiego di un Presidio Medico Avanzato di II livello in grado di gestire 50 feriti l’ora composto di sei tende: due tende per il triage, due per il ricovero, una per alloggiare personale sanitario e una per la mensa. Il campo medico si trova al centro dell’Aquila in Piazza del Duomo presso la Chiesa di Santa Maria delle Anime Sante. Al momento si registra, fortunatamente, un consistente calo del numero dei feriti che raggiunge la struttura sanitaria del SMOM. Sono stati organizzati vari Medical Contact Team che intervengono nelle vicinanze dei cantieri ove operano i Vigili del Fuoco al fine di portare soccorso agli stessi ed al personale che con essi collabora al ritrovamento dei superstiti. I team, composti da oltre 50 fra medici, infermieri ed assistenti di sanità, hanno a disposizione sei autoambulanze attrezzate per le emergenze. Le attività finora svolte, ha precisato un comunicato dell’Ordine, continueranno ancora per un breve periodo, considerato che sta terminando la fase acuta dell’emergenza, al termine della quale è previsto il concorso di personale sanitario, di medici e di infermieri per attività di routine sanitaria all’interno delle tendopoli. Gli ufficiali del Corpo Militare, sotto il comando del Generale di C.A. Mario Prato di Pamparato, sono in stretto contatto con il Comando Operativo della Protezione civile che coordina le attività sul territorio.
11 aprile 2009

Il dolore e la rabbia
Il governo del territorio ed il ruolo dei giudici

di Salvatore Sfrecola

L’Italia si è fermata, ieri, durante i funerali delle vittime del terremoto che ha colpito la terra d’Abruzzo. Chi poteva ha seguito in televisione la cerimonia funebre, il cuore gonfio di dolore per quelle bare, soprattutto per le bianche che custodivano i corpicini straziati dei bimbi. Ed ha scrutato tra la folla delle autorità le facce e gli sguardi, come per capire se, al di là della circostanza e della commozione che coinvolge, la partecipazione potesse essere espressione di un impegno civile, istituzionale, perché non accadono mai più disgrazia del genere. Perché, se evidente che l’antico palazzo che crolla per le vibrazioni del sisma è una disgrazia in una certa misura imprevedibile (ma poi vedremo che non è sempre così) la rovina di costruzioni recenti, in particolare di quelle dedicate all’esercizio di una pubblica funzione, come l’ospedale del 2000, la casa dello studente, di recente realizzata, è prova provata che non sono state rispettate le norme di costruzione vigenti nelle aree a rischio sismico. Oppure, ciò che sarebbe peggio, quelle norme sono inadeguate o facilmente eludibili. Troppe volte, infatti, in Italia le maglie delle regole sono eccessivamente larghe o contengono dei buchi che consentono di porre nel nulla la disciplina che si vorrebbe rigida ed adeguata alle esigenze. Inoltre, il più delle volte mancano i controlli o sono inadeguati, oppure i controllori compiono la loro delicatissima opera con estrema superficialità, quando non sono al servizio di chi dovrebbe essere controllato. Il Presidente del Consiglio ha assunto un impegno solenne, ieri dinanzi alle bare dei morti, come lui stesso ha tenuto a sottolineare. Ha promesso aiuti, ha assicurato che nessuno sarà lasciato solo, il che fa intendere che l’impegno del governo è a tutto tondo, che riguarderà la ricostruzione delle case e degli edifici pubblici, che saranno messe in condizioni di riprendere la loro attività le fabbriche e gli esercizi commerciali, com’è necessario perché la ripresa sia effettiva e restituisca a quelle popolazioni un lavoro che è espressione della dignità dell’uomo e consente di guardare al futuro con fiducia. Il governo, tuttavia, ha un compito per certi versi ancora più importante, quello di impegnarsi perché una tragedia come questa e come le altre che l’hanno preceduta non si verifichino mai più. E questo si persegue facendo sì che le regole per la costruzione di edifici pubblici e privati nelle zone a rischio sismico siano adeguate, sia per quanto riguarda l’individuazione delle moderne tecniche costruttive e l’uso dei materiali, sia per quanto riguarda la loro capacità di costituire una regola non eludibile. Ho letto, ad esempio, che l’obbligo per l’adozione di tecniche antisismiche in alcuni casi è riferito all’altezza dell’edificio, per cui è sufficiente ridurre anche di pochi centimetri l’estensione verticale dell’immobile per non essere tenuti a certe regole di sicurezza. Regole così facilmente aggirabili vanno eliminate. Il rischio sismico ha certamente una dimensione diversa in relazione all’altezza di un immobile, nel senso che procedendo nell’estensione del manufatto occorrono intuitivamente maggiori garanzie di sicurezza. Ma è altrettanto evidente che se una zona è a rischio sismico, anche una costruzione di un piano o due non può essere lasciata alla mercé della buona sorte nel caso di una scossa di terremoto. Il governo deve, dunque, mettere immediatamente mano ad una revisione puntuale e severa della normativa vigente. Ma deve anche individuare gli strumenti di controllo in modo serio ed adeguato tenendo presente che i professionisti chiamati a svolgere attività di collaudo delle opere devono essere preparati, adeguatamente retribuiti e sottoposti a sanzione se omettono di svolgere, secondo le regole dell’arte, il loro lavoro. È qui poniamo un altro problema. Non solo le regole devono essere rigide e non facilmente eludibili, ma devono contenere delle sanzioni serie che non possono essere soltanto penali, a meno che non si arrivi ad una legislazione, che finora questo Paese ha ignorato, per la quale una condanna viene scontata tutta ed è di esempio per quanti potrebbero essere indotti a delinquere. Occorrono anche sanzioni di carattere professionale pecuniario. Nel senso che il professionista il quale realizza un’opera in difformità dalle regole o che, chiamato a compiti di controllo, attesta falsamente che l’opera è stata realizzata a regola d’arte deve essere espulso per sempre dal relativo ordine professionale. Purtroppo, invece, le categorie professionali la cui finalità dovrebbe essere quella di assicurare la corretta attività dei loro associati si trasformano troppo spesso in un sindacato che difende ad ogni costo i propri membri, venendo meno alla loro funzione pubblica ed al rispetto della deontologia professionale. Ho accantonando, iniziando, il caso della rovina dei palazzi antichi, di quelli, cioè, costruiti quando non vigevano regole rigide di prevenzione antisismica. Anche su questo ci sarebbe da dire, perché qualcuno ha osservato giorni fa in televisione che i monumenti dell’antica Roma non hanno subito danni per il terremoto, perché le tecniche costruttive degli ingegneri romani tenevano conto del rischio sismico usando materiali leggeri con le capacità di assorbimento delle vibrazioni, come attesta quella grandiosa opera urbanistica e architettonica che arreda la Capitale. Ammesso, dunque, che gran parte degli immobili storici de l’Aquila siano stati costruiti ignorando tecniche antisismiche sarebbe stato da tempo obbligo del governo centrale e regionale stabilire controlli ed imporre adeguamenti strutturali idonei ad evitare la tragedia che abbiamo vissuto nei giorni scorsi. Purtroppo l’amministrazione ordinaria, perché di questo si tratta, è cosa che sfugge spesso all’attenzione e all’interesse delle autorità pubbliche, le quali sono portate, per l’infausta mentalità di molti politici di occuparsi solo delle cose che fanno notizia che sono capaci di richiamare l’attenzione della stampa sull’opera del ministro, del sindaco e l’assessore, magari per l’interesse del rispettivo elettorato. Infine, la magistratura ha istituzionalmente il compito di chiudere il cerchio, di verificare l’esistenza di responsabilità e di sanzionarle rapidamente e con la severità che la legge consente. E se la legge è carente e si rivela strumento inidoneo ad una giusta punizione i giudici devono darne conto nelle loro sentenze, perché anche questo è il compito di chi è chiamato ad amministrare la giustizia, applicare la legge e metterne in risalto, quando occorra, l’inadeguatezza rispetto all’esigenza di intervenire in una situazione che desta forte allarme sociale. Si muoveranno i giudici penali ma anche la Corte dei conti che è giudice dei pubblici amministratori e funzionari che, in violazione di obblighi propri del loro servizio, omettono adempimenti richiesti, come potrebbe essere nel caso dei collaudatori che hanno attestato la bontà dei lavori che poi non hanno retto all’urto dell’onda sismica. Ancora una notazione finale. Il tempo è un valore, un grande valore economico e psicologico, governo è magistratura devono, ciascuno nella propria competenza, dare una risposta celere al desiderio di ricostruzione del tessuto urbano e produttivo e alla richiesta di giustizia che proviene dalla gente, non solo da quanti hanno subito direttamente il dramma del sisma, ma da quei milioni di italiani che, con le lacrime agli occhi, hanno assistito in televisione alla tragica sfilata di bare sul piazzale della Scuola della Guardia di Finanza, ieri, a l’Aquila.
11 aprile, 2009

La Turchia nell’Unione Europea?
Se la Bonino è favorevole
vuol dire che è sbagliato accogliere Ankara!

di Salvatore Sfrecola

L’ipocrisia che spesso domina i rapporti tra le persone non è meno presente nelle relazioni internazionali. Anzi a ben leggere la storia, accade spesso che i governanti dicano per convenienza cose che non pensano affatto o sperano non si verifichino. E’ ciò che accade in questi giorni, e da diversi anni, a proposito dell’ingresso della Turchia in Europa, nell’Unione Europea, che molti auspicano non sempre con sincerità. Devono dirlo perché quel Paese è impegnato nella NATO, è presente sulla ribalta internazionale per l’importanza strategica che riveste, al confine tra Oriente ed Occidente e per la fama di paese arabo moderato che si è conquistato. Sono qui le ragioni che spingono a dire sì alla richiesta di ingresso nell’Unione Europea. La Turchia, paese islamico aperto all’occidente, potrebbe costituire un ponte tra Asia ed Europa, favorendo la comprensione tra due diverse culture due storie che nel tempo si sono confrontate, molto spesso in armi. Conclusione che si rivela fragile sotto vari aspetti. In primo luogo un ponte, nella configurazione che ne viene data e che corrisponde alla tradizionale immagine di questa struttura architettonica è un passaggio da e per, dall’Oriente di certo, dall’Occidente un po’ meno se non si vuol pensare agli interessi del solito imprenditore che può andare a lavorare là, magari trasferendo la fabbrichetta per sfruttare mano d’opera a basso costo. Dall’oriente verrebbero, liberi di circolare in quanto cittadini dell’U.E., lavoratori turchi con le loro storie e le loro tradizioni, già presenti sul territorio di alcuni paesi in milioni di unità, di difficile integrazione, con le loro banche, le loro rivendite di generi alimentari le loro abitudini, rispettabilissime, ma spesso inconciliabili all’interno di una comunità. In sostanza questi immigrati, a differenza di altri, ad esempio dei filippini, per citare una comunità orientale, costituiscono una enclave che tale rimane. A ben vedere non si tratta solo delle persone. Si tratta di capire se l’Unione Europea è una comunità politica, sia pure variegata nella sua connotazione culturale e religiosa, ma saldamente ancorata ad un territorio, oppure una area economica, una zona di libero scambio, per intenderci, che va al di là del Continente, per inglobare la Turchia, appunto, o Israele, come da tempo chiedono i radicali. Un’idea che è sullo sfondo della dichiarazioni di ieri di Emma Bonino al Corriere della Sera nell’intervista rilasciata a Maurizio Caprara, secondo la quale “l’Europa rischia una chiusura nazionalistica”. Giungendo ad affermare che “la questione della Turchia dimostrerà se si aprirà al m0ondo o si chiuderà” Siamo veramente fuori strada. Queste idee nascono, mi auguro in buona fede, da quanti hanno una visione poco concreta della storia e della vita dei popoli e degli stati, anche delle grandi comunità come l’Europa, e rischia di avere una sola conseguenza, quella di rendere l’Europa ancora meno protagonista dell’economia e della pace. Diversa questione è quella della possibilità di accordi con stati esterni all’Unione da legare con intelligenti partnership commerciali, economiche e legate al mondo del lavoro, utili sinergie per far crescere economia e civiltà, nel reciproco rispetto della storia, della quale nessuno deve perdere la memoria, gli islamici, con la loro grande cultura letteraria e scientifica, ed i cristiani che dell’Europa sono la radice vera, stia o meno scritto nei documenti ufficiali dell’Unione.
7 aprile 2009

Il percorso laico di Fini
di Senator

Solo pochi anni fa, per buona parte della sua esperienza a Palazzo Chigi da Vicepresidente del Consiglio e rappresentante del Governo nella Convenzione per il futuro dell’Europa, alla quale aveva portato la richiesta italiana di inserire il riferimento alle “radici cristiane” nella Costituzione europea, Gianfranco Fini si era dimostrato particolarmente sensibile alle attenzioni degli ambienti ecclesiastici. Tanto che “la Chiesa aveva scommesso” su di lui, come si legge nel libro del nostro Direttore (“Un’occasione mancata”) che riferisce di un suo colloquio con Arturo Celetti di Avvenire, alla presenza di altre persone. Dell’attenzione di ambienti ecclesiastici per l’allora leader dell’allora Alleanza Nazionale mi aveva detto il Cardinale Pompedda, Patronus dell’Ordine Costantiniano di San Giorgio ed autorevole componente del Sacro Collegio, spiegandomene le ragioni. Leader laico ma di un partito con forti radici cattoliche, senso dello Stato, presenza sul territorio, nella prospettiva del dopo Berlusconi, Fini, che sembrava navigasse verso il centro, poteva essere un punto di riferimento concreto per il mondo cattolico, più di Casini, troppo ex diccì, troppo prima Repubblica. D’altra parte non era stato Cesare Cursi, finiano di ferro, a rappresentare il Governo nel dibattito in Parlamento sulla legge 40, sulla procreazione medicalmente assistita, ed a portarla con successo a termine? Poi la “svolta” di Fini, proprio su quella legge, con lo strappo nel voto sul referendum, che tanto disagio ha creato in AN e nella maggioranza e nei rapporti con la Chiesa. Una svolta laica nella convinzione che un’Italia laica, radicale, diciamo pure anticlericale, costituisse uno spazio politico nel quale poter assumere una posizione eminente, considerata l’inevitabile fagocitazione del partito ad opera di Berlusconi, come poi è avvenuto con la creazione del Partito della libertà. Una svolta che oggi si completa con l’alleluia alla sentenza della Corte costituzionale che ha dichiarato illegittime alcune disposizioni della legge che tuttavia non hanno inciso sul suo impianto. Un peana alla Consulta, con annessa rivendicazione della libertà delle donne (come se i figli fossero un fatto singolare!), per prendersi gli applausi dell’Italia laica e radicale, cioè la solita Bonino ed il patetico Pannella. Fini immagina, dunque, un percorso autonomo, un po’ solitario, un po’ laicamente “assistito” dai “santuari” anticlericali al di qua e al di là dell’oceano, alla Giuliano Amato, per intenderci, altro leader di se stesso, solitario, di tanto in tanto rimesso in piedi proprio perché politicamente non conta niente, un leader “balneare”, come si sarebbe detto un tempo delle personalità recuperate tra un governo e l’altro, in attesa che i leader veri si mettessero d’accordo per fare un nuovo governo vero. A differenza di Amato, anche lui con solide amicizie laiche, uomo di studi seri, ed eminente cattedratico, fino a quando non ha ritenuto più conveniente pensionarsi, Fini è politico di scarse letture e di ancor minori amicizie nel mondo della cultura, come dimostra la modestia delle adesioni alla sua Fondazione FareFuturo, che nelle sue ambizioni avrebbe dovuto garantirgli quelle relazioni con il mondo dell’Accademia, delle professioni e dell’imprenditoria che gli sono venute progressivamente meno man mano che il partito gli sfuggiva di mano inesorabilmente per rifugiarsi, con maggiore o minore entusiasmo ma con innegabile realismo, tra le braccia accoglienti e interessate di Berlusconi. Continuerà ancora a calcare la scena l’ex leader dell’ex Alleanza Nazionale, abile affabulatore, telegenico (pur con il volto rugoso dell’amante della tintarella e del mare), sensibile all’attualità degli argomenti, capace, con incredibile improntitudine, di cambiare opinione ogni giorno, tranne che sui valori cristiani, da quando ha scoperto l’anima radicale dell’Italia contemporanea. Un corsaro della politica, dunque, che naviga in mari tempestosi alla ricerca di un approdo che forse troverà solo in Europa con un incarico nel Partito Popolare Europeo, di qualche visibilità ma di scarso potere. Che va benissimo per chi crede più nell’apparire che nell’essere. Se avesse avuto più tempo per studi storici avrebbe riflettuto sul fatto che il suo vate ispiratore, poi ripudiato per mera convenienza, Benito Mussolini, anticlericale e repubblicano, pur di raggiungere e detenere il potere portò a Re Vittorio Emanuele III “l’Italia di Vittorio Veneto” e chiuse la “questione romana” con il Concordato del 1929, convinto che non gli convenisse sfidare la storia e le istituzioni ed il sentimento cattolico degli italiani, anche di quegli anticlericali massoneggianti della sua Romagna che comunque vanno a Messa, magari per far contenta la mamma o perché, in fin dei conti, una buona parola, anche solo la domenica, non dispiace e solleva l’animo, specialmente in tempi di grave crisi economica e sociale.
5 aprile 2009

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