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Settembre 2009

Perché l’Italia non è un Paese normale?
Quando muore un soldato
di Bruno Lago 

     Perché quando muore un soldato in missione l’intero Paese viene investito da un dramma emotivo che coinvolge i media, l’opinione pubblica, la classe politica e le forze armate e sembra smarrito il senso della misura e della razionalità ?
     Perché quando muore un soldato la classe politica rimette sistematicamente in discussione le ragioni che hanno portato alla decisioni dell’intervento militare?
    Perché risulta così difficile comprendere alla classe politica che queste discussioni indeboliscono la posizione dei nostri soldati sul campo e possono negativamente influire sul loro morale?
     Perché in situazioni di conflitto e di pericolo per le truppe, i parlamentari di opposte fazioni non fanno fronte comune come accade in altri paesi, secondo il principio efficacemente sintetizzato nel mondo anglosassone del  “Right or wrong it is my Country”?
     Perché anche autorevoli rappresentanti dei governi in carica davanti a queste morti appaiono in difficoltà e non hanno il coraggio di dichiarare apertamente all’opinione pubblica  che la partecipazione alle missioni militari, anche se pericolose, è necessaria per le responsabilità ed il ruolo dell’ Italia nel mondo?
     Perché quando si parla di “missioni” dei nostri soldati, ci si affretta sempre a specificare che sono missioni “di pace” quasi che parlare di guerra potrebbe turbare l’opinione pubblica?
     Perché quando muore un soldato in missione la magistratura italiana apre sempre un’inchiesta rivolta evidentemente non a incriminare il terrorista ma a indagare sulle “eventuali” responsabilità dei comandi militari?
     Perché non si parla dei nostri soldati in missione se non quando vi sono caduti?
     Perché quando un soldato caduto proviene dalle regioni meridionali i media nazionali accreditano la tesi che sì, era volontario, ma solo perché non aveva altre possibilità occupazionali?
     Perché quando muore un soldato i media in genere (televisioni e carta stampata) sono così naturalmente portati ad enfatizzare gli aspetti emotivi e si intervistano i parenti stretti per “sbattere in prima pagina” il loro dolore?
     Perché quando muore un soldato, anche giornali importanti come il Corriere della Sera e il Sole 24 Ore dedicano quattro pagine ed i telegiornali dieci minuti ad un evento che, per quanto luttuoso, è nell’ordine delle cose?
     Perché quando muore un soldato, solo la vedova nel suo dolore riesce a dichiarare “Sono orgogliosa di mio marito!” mentre simili pensieri o dichiarazioni ben raramente provengono  dai politici?
     Perché tutto questo non accade in altri paesi che hanno pagato tributi più alti in termini di vite umane in queste missioni?
     Perché l’Italia non riesce ad essere un Paese “normale”?
20 settembre 2009

P.S. L’articolo esprime compiutamente ed efficacemente la linea del giornale. Una sola precisazione, per non ingenerare dubbi sul ruolo della magistratura in questi casi. In presenza di una notitia criminis, cioè di un fatto che costituisce reato, nella specie un omicidio, la competente Procura della Repubblica ha il dovere di avviare accertamenti per individuare gli autori del delitto che, anche se stranieri, sono soggetti, ai sensi dell’art. 10 del codice penale, alla giurisdizione del giudice italiano per aver ucciso un nostro concittadino. Ovviamente, nello stesso tempo, possono essere svolti accertamenti per verificare se l’evento è stato possibile a causa di comportamenti colposi (in ipotesi omissivi) dei responsabili della sicurezza degli uomini. Del resto non sarebbe possibile trascurare eventuali, gravi trascuratezze colpose di chi ha compiti di comando.

Un nuovo incontro di “Identità e Confronti”
Sud: mito e realtà

     Riprende, dopo le ferie estive, l’attività di “Identità e Confronti”, l’Associazione culturale promossa da Adriana Elena Lucchino e presieduta da Giancarlo Elena.
     Stavolta si parlerà di “Sud: mito e realtà” in un incontro/dibattito con Marcello Veneziani, che ha scritto un bel libro intitolato, appunto, “Sud”, e gli On.li Francesco Aracri e Marcello Taglialatela .
     Modera Giancarlo Elena.
     L’appuntamento è per il 29 settembre, alle ore 21,00, nella sala delle conferenze della Fondazione Nuova Italia, in Roma, via in Lucina, 17.
     Come di consueto al termine è previsto un dopocena offerto dall’Associazione con il contributo dei soci, cioè delle signore che daranno ancora una volta prova della loro abilità culinaria.
20 settembre 2009

Una partecipazione inopportuna
Proietti Cosimi nella Commissione d’inchiesta
sui disavanzi sanitari regionali
di Senator

     Ricevo da un lettore una segnalazione a proposito dell’Onorevole Francesco Proietti Cosimi, ritornato in questi ultimi giorni alla ribalta delle cronache per fatti vari. Il lettore si stupisce che il parlamentare del Partito della libertà, già di Alleanza Nazionale,  sia dal 10 giugno componente della “Commissione parlamentare di inchiesta sugli errori in campo sanitario e sulle cause dei disavanzi sanitari regionali”. Lo conferma il sito della Camera dei deputati. (http://www.camera.it) nella pagina dedicata al parlamentare ed alla sua biografia.
     Il lettore sollecita mie considerazioni in proposito, vista la maxinchiesta sulla truffa alle ASL del Lazio dello scorso anno, della quale hanno dato notizia tutti i giornali, in particolare il Corriere della Sera e l’Espresso, che hanno pubblicato stralci di intercettazioni telefoniche che hanno interessato proprio Proietti Cosimi e l’ex moglie del Presidente della Camera, On. Gianfranco Fini, Daniela di Sotto.
     Il lettore si chiede “come è possibile?” E mi chiede se sia normale che un deputato “sfiorato” dal dubbio di illeciti in materia sanitaria sia inserito in una Commissione parlamentare d’inchiesta che ha il compito di indagare sugli errori in campo sanitario e sulle cause dei disavanzi sanitari regionali.
     Il nostro lettore si è dato la risposta da solo. Come a lui, anche a me la cosa non pare normale. Per carità di patria diciamo che è inopportuna. Desta sconcerto, mette in difficoltà l’on. Fini del quale il Proietti Cosimi è stato a lungo segretario. Non c’è dubbio che avrebbe dovuto scegliere, per prudenza, un altro incarico, per tenersi fuori da eventuali polemiche e per non mettere in difficoltà il Presidente della Camera.
     Non è solo un problema di stile!
19 settembre 2009

Italian style sotto tiro
di Oeconomicus

     Ad agosto dello scorso anno UnSognoItaliano ha ospitato una nota che illustrava il progetto V.I.E. Vetrine Italiane Estero, un’idea per rilanciare l’export italiano in gravi difficoltà. Un progetto delineato da un abile uomo di pubbliche relazioni, Armando Zippo, che rilevava ancora una volta  “una mancanza di strategia e di superficialità”. Quel progetto non ha avuto seguito, non ha destato interesse da parte autorità o di imprenditori.
    Sarà colpa della crisi, della recessione che blocca le iniziative, smorza la fantasia, comprime le volontà. Il problema è di vaste proporzioni ed attiene anche alle regole (violate) della concorrenza.
     Né dà buona prova il Corriere della Sera in un servizio del 18 luglio u.s. a pagina 11. Focus: Stili di vita e affari: con l’eloquente titolo d’apertura : “Se il cibo, di italiano, ha solo il nome”.   Il servizio calcola un danno di 56miliardi di euro per i soli mercati extraeuropei. Danno che secondo alcuni osservatori sarebbe calcolato per difetto; perché  nel servizio partono dal presupposto che il mercato europeo è sotto controllo. Basterebbe invece guardare la Spagna, anche superficialmente, per rendersi conto del contrario.
     Copiano tutto : dai loghi ai prodotti, dalle paste, alla mortadella (con una “l” e con la specifica di “Boloñia”). L’articolo mette in evidenza la difficoltà per i prodotti italiani di avere prezzi competitivi. Per questo che la proposta V.I.E. suggeriva di cerare delle boutique, delle vere vetrine dei prodotti di qualità; difficilmente copiabili e di sicuro riferimento e positiva ricaduta per i prodotti più commerciali.
     Sempre nello stesso servizio, l’articolo di chiusura è ancor più triste e grave : “Agro-pirateria anche nei nostri ristoranti”. Infatti i ristoranti “italiani” sono fra i più taroccati, sopratutto qui in Spagna, alla faccia del famoso accordo della partecipazione della cucina italiana a quella spagnola (e persino marocchina) per ottenere il riconoscimento UNESCO di cucina mediterranea. Di fatto, la cucina italiana è stata appiattita su quella spagnola e marocchina! Sarebbe più che utile riattivare il progetto di “Certificazione dei ristoranti italiani all’estero” ; all’epoca avviato da Alemanno quand’era Ministro dell’Agricoltura.  Sarebbero così costretti ad utilizzare almeno prodotti nostrani; e non come ora che persino la pasta è taroccata.
19 settembre 2009

Morire in una missione di pace
Il dolore e l’orgoglio
di Salvatore Sfrecola

     “La strage dei parà scuote l’Italia”, ha titolato ieri a nove colonne, in prima pagina, il Corriere della Sera. Quei nostri soldati, in servizio di pace, morti in zona di guerra, li piangiamo tutti, anche quelli che traggono dalla tragedia motivo per differenziare la loro posizione e chiedono il ritiro del nostro contingente.
     “Tutti a casa? La tentazione da evitare”, titolava sempre ieri Franco Venturini, l’esperto di politica estera del Corriere, perché la nostra presenza in una missione ONU e NATO è segno della partecipazione dell’Italia ad una strategia politica importante, controllare un’area del vicino oriente nella quale si manifestano iniziative destabilizzanti dell’intero scacchiere e contenere uno dei focolai che alimentano il terrorismo internazionale. Niente ritiri unilaterali, dunque. ‘Non possiamo permetterci di ridurre ora il nostro impegno in Afghanistan”. E’ quanto ha detto all’ANSA il portavoce della Nato James Appathurai, sottolineando che l’obiettivo dell’Alleanza è quello di far sì che gli afghani possano prendere in mano la loro sicurezza. ”Ma questo va fatto in modo appropriato e misurato” attraverso un’opportuna strategia di transizione, ha spiegato.
     Un ritiro immediato non lo chiede neppure Bossi che, a caldo, aveva immaginato il ritorno dei nostri soldati per fine anno. Sarebbe uno sfilarsi dalle intese internazionali con conseguenze evidenti anche sulle relazioni con i nostri alleati con i quali si definiscono non solo strategie antiterrorismo ma anche rapporti di natura economica e commerciale.
    L’Italia ha reagito con compostezza e dignità al triste evento delle sei vite stroncate nell’attentato di Kabul. Soffre ma è cresciuta. Un tempo avremmo avuto la “rivolta delle mamme”. Oggi il Paese è maturo per comprendere che quelle vittime sono conseguenza di un rischio professionale, come quello che corrono ogni giorno Carabinieri, Poliziotti e Finanzieri quando, nell’adempimento del loro dovere, cadono sotto i colpi di delinquenti di varia estrazione.
     Fatti salvi certi isterismi politici di fasce marginali della Sinistra e l’ignobile reazione di alcuni ambienti dell’autonomia di cui dà oggi notizia Il Giornale, la maggioranza degli italiani comprende che il Paese non può rimanere a guardare gli altri che fanno la politica internazionale attraverso contingenti militari in missione di pace. D’altra parte abbiamo appreso, fin dai libri di scuola, che il piccolo Piemonte, il Regno di Sardegna di Vittorio Emanuele II e Cavour, per assicurarsi una presenza nel concerto delle nazioni e per acquisire un ruolo internazionale che giovasse alla causa dell’unità d’Italia, aveva inviato i suoi Bersaglieri   a combattere in Crimea alla Cernaia, a fianco di Francia e Regno Unito contro l’Impero Russo nei pressi dell’omonimo fiume il 16 agosto del 1855.
     Forse non bastano queste missioni di pace. Gli interessi che si servono del terrorismo sono troppo diffusi e potenti perché la lotta ai Talebani abbia effetti sicuri e immediati. Eppure qualche risultato apprezzabile è stato raggiunto. Il terrorismo è stato certamente contenuto. Il prezzo del petrolio, attraverso il quale si alimentano alcuni paesi che il terrorismo finanziano o tollerano, è sceso e, tra alti e bassi, non stressa più, come nei mesi scorsi, l’economia occidentale e dei paesi emergenti.
     La situazione internazionale è comunque complessa e non fa intravedere soluzioni in tempi brevi. Il fatto è che, anche se non sembra, questa è una guerra economica nella quale alcuni paesi e gruppi di potere si servono del terrorismo  per condizionare l’economia di altri. Non è una guerra aperta e questo rende difficile intravedere l’avversario e far comprendere alla gente i motivi di certe operazioni.
     Tuttavia è sufficiente vedere chi ci guadagna, per capire chi è dietro alcune guerre che infiammano aree delicate del mondo, come l’Afghanistan, appunto. Nelle quali masse di diseredati sono utilizzate per premere sull’opinione pubblica e sui governi.
     “Non credo ci sia nulla da rivedere nella missione italiana in Afghanistan”, ha detto il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, parlando con i giornalisti a Tokyo, dopo aver reso omaggio alle vittime ed indirizzato un commosso pensiero alle loro famiglie. L’Italia non può permettersi di rimanere isolata.
19 settembre 2009

Vespa a tutto campo
L’aedo del potere
di Senator

     Ognuno di noi ha una sua vocazione, religiosa o civile, un’attitudine particolare che coltiva con impegno. Quella di Bruno Vespa, peraltro giornalista di valore, è l’esaltazione del potere costituito, in modo plateale, senza riserve, sempre.
     A Porta a Porta nell’intervista a Berlusconi, assenti possibili contraddittori politici, Vespa ha schierato giornalisti che mai avrebbero osato criticare il Premier e, con loro, il solito Sansonetti, condannato a fare la parte del cattivo, un ruolo al quale evidentemente non crede neppure lui che si limita ad un simulacro di opposizione, limitandosi a generiche e stereotipate enunciazioni di tesi tra ideologia veterocomunista e storia della prima repubblica senza che mai l’ospite sia realmente messo in imbarazzo.
     Megafono di coloro che contano, oggi Berlusconi, ieri i vari personaggi della Democrazia Cristiana, “l’azionista di riferimento”, come ebbe a rispondere anni addietro quando fu accusato di essere troppo filodicci, Vespa ossequia il potere che lo ricambia di attenzioni. Ad ogni nuovo libro accorrono a presentarlo, da Berlusconi a D’Alema, da Fini a Casini, passando per le seconde file locali e nazionali. E’ una ressa, nessuno vuol mancare. E poi copertine e pubblicità in televisione per convincerci, in prossimità delle festività di fine anno, di leggerlo e regalarlo.
     E così di questi polpettoni, che non sono mai riuscito a finire avendoli iniziati solo per dovere di informazione, che riprendono pari pari le cronache politiche dei mesi precedenti, arricchite dall’intervista che dà il titolo al volume, con lunghe e noiose descrizioni dei luoghi ove si incontrano gli inquilini del Palazzo, sono piene le biblioteche degli italiani. Li regaliamo e ce li regalano, un omaggio all’autore, un balzello pagato all’editore che è sempre uno di “area”.
     Per fortuna la formula di Porta a Porta prevede che la trasmissione sia tirata per le lunghe anche oltre mezzanotte, così abbiamo un motivo per spegnere il televisore dopo aver fatto ripetutamente zapping alla ricerca di qualcosa di più interessante. Ricerca spesso insoddisfatta, almeno per quel che riguarda l’informazione, rigorosamente controllata, per cui si finisce per guardare un film d’annata, scelto apposta per non togliere audience al mattatore. Eppure a volte non funziona, come nei giorni scorsi quando la giusta rivendicazione del Governo di alcuni obiettivi raggiunti in Abruzzo è diventata un insopportabile peana al Presidente del Consiglio che continua a ritenere che agli italiani faccia piacere. E un po’ è vero, considerati i voti che il Partito della libertà porta a casa. Ma alla lunga questo modo di proporsi non regge. Gli italiani sono abbastanza smaliziati per credere che è sempre oro tutto quel che luccica.
     Se fossi il Premier mi darebbero sommo fastidio i Vespa, i Fede, i Feltri i Belpietro, gli Arditti, uomini intelligenti, buone penne ma un po’ troppo… al vento!
     E torna acconcia una frase di Leo Longanesi del 1956: ” Non è la libertà che manca, mancano gli uomini liberi”
18 settembre 2009

L’Islam degli eccessi
Torturata dal marito perché convertita al Cristianesimo
di Salvatore Sfrecola

     Non è ancora passato l’orrore della morte della giovane marocchina Sanaa uccisa dal padre perché innamorata di un italiano, per di più cattolico, un delitto che la stessa madre della ragazza ha ritenuto in qualche modo giustificato che Corrispondenza Romana, riprendendo AsiaNews, dà conto di un altro raccapricciante episodio accaduto a Dhaka ai danni di una donna e la figlia le quali avevano seguito il percorso del figlio maschio, che, prima di partire per l’estero, aveva abbracciato la fede cristiana.
     Il marito ha bruciato una copia della Bibbia, poi ha promesso anche a loro due un “trattamento simile”.
     Torturata e minacciata di morte dal marito, al quale ha tenuto nascosta “la conversione del figlio maschio” dall’islam al cristianesimo. È la vicenda di una donna del Bangladesh, che “teme per la propria vita”. I parenti sono musulmani e nemmeno la polizia è interessata a proteggerla. Nonostante le violenze, anche lei, insieme alla figlia più grande, ha deciso di convertirsi e prega perché l’uomo – un giorno – possa “scoprire l’amore di Cristo”.
     “Nel 2006 mio figlio Jahirul Islam è partito per Sydney – ha raccontato Khainur ad AsiaNews – per approfondire il percorso di studi. Non mi aveva detto nulla della conversione al cristianesimo, quando era in Bangladesh”. Khainur (nella foto con le figlie) ricorda “perfettamente” il giorno in cui il figlio le ha parlato: “era il 18 giugno del 2009, all’inizio sono rimasta scioccata”.
     Da 22 anni il marito, Aminul Islam, lavora in Arabia Saudita; a giugno è tornato in Bangladesh per un periodo di vacanza. Egli ha cominciato a esercitare pressioni perché Jahirul sposasse una ragazza musulmana, non prima però di aver compiuto il tradizionale pellegrinaggio alla Mecca. Progetti respinti con forza dal figlio, che rivendica la “fede cristiana”. “Quando le richieste di mio marito si sono fatte pressanti – spiega Khainur – ho raccontato della conversione. La notizia lo ha sconvolto, ha iniziato a picchiarmi, accusandomi di essere la responsabile perché gli ho permesso di studiare all’estero, all’università cattolica di Nostra Signora, a Sydney”. La donna descrive le “numerose violenze” subite dal marito, il quale le ha anche proibito di parlare al figlio.
    Jahirul ha suggerito alla madre di rivolgersi al rev. Alex Khan, il quale per primo ha seguito il percorso di conversione del figlio. Il pastore l’ha sostenuta – né i parenti, musulmani, né la polizia l’avrebbero aiutata – e ha avvertito un senso di conforto e di pace. “Ho conosciuto l’amore di Cristo – aggiunge – e ho iniziato a leggere passi della Bibbia con l’aiuto del pastore e di mia figlia Arifa Sultan”.
     Nei giorni scorsi ha annunciato al marito di essersi convertita al cristianesimo. Egli ha legato e picchiato in maniera brutale la moglie e la figlia più grande, davanti agli occhi delle sorelline più piccole. Aminul ha anche bruciato la Bibbia, minacciando di riservare “un simile trattamento” anche alle due donne.
     “Abbiamo paura” ammette Khainur, ma resta il conforto della preghiera. “Preghiamo regolarmente” aggiunge la figlia “perché un giorno mio padre scopra l’amore di Cristo. Lo perdono anche se mi ha picchiata come fossi una bestia; non ho paura di essere bruciata da mio padre, come ha fatto con la Bibbia”.
link: http://new.asianews.it/index.php?l=it&art=16320
18 settembre 2009

Cattolici “adulti” e laici “infantili”
di Salvatore Sfrecola

     C’è una regola, antica e sempre valida, per valutare la capacità delle idee che si confrontano in un dibattito. Non per dire quale è giusta o meno, ma per dedurre se contribuisce e in che misura all’approfondimento del tema in discussione: la serenità di giudizio e la completezza dell’analisi che sostiene una determinata opinione. Soprattutto la faziosità,  che inevitabilmente assume “atteggiamenti privi di obiettività e quindi settari” (Vocabolario della lingua italiana Treccani) è indice di scarsa attitudine al confronto costruttivo. Con la conseguenza che il dibattito non fa un passo avanti e riduce l’approfondimento dell’argomento oggetto della discussione.
     Sono riflessioni indotte dall’odierno editoriale di Giovanni Sartori, uno studioso delle istituzioni della democrazia che sovente richiamo e del quale generalmente condivido le analisi e le conclusioni, ma che scrivendo sul Corriere della Sera, a proposito della proposta di legge sul testamento biologico, un testo normativo che più esattamente detta “Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento” (Atto Camera n. 2350), giunto a Montecitorio dopo un sofferto iter in Senato che lo ha licenziato in un testo unificato largamente condiviso, ha dato prova di una mentalità preconcetta.
     Quel che delude nello scritto di Sartori è soprattutto un viscerale anticlericalismo d’altri tempi e degno di miglior causa, che vorrebbe negare al mondo cattolico, non alla Chiesa in quanto istituzione, lui campione della democrazia, il diritto di interloquire con chi esprime altre culture, religiose o laiche, per definire una disciplina normativa di un momento particolare della vita, quello della sua fine, che rispetti la volontà della persona evitando che essa sia prevaricata, magari per interessi economici, approfittando di un precario stato di salute.
     In questa veemenza anticlericale Sartori giunge ad affermazioni che fanno dubitare abbia letto il testo al quale pure ispira la sua critica. Infatti, nel formulare la previsione che il testo approvato dal Senato sarà ritoccato dalla Camera, giunge alla conclusione che “anche così resterà un testamento che viola la volontà del testatore. Perché questo è l’intento della Santa Sede”.
     E per dimostrare che i Pontefici possono sbagliare (chi mai lo ha dubitato se non in tema di verità di fede!) mette in mezzo tutto e di più, le parole di Papa Ratzinger in Africa, a proposito di preservativi e di Aids (ma forse non sa che quelle parole sono state considerate da autorevoli epidemiologici espressione di un richiamo ai valori cui devono ispirarsi i rapporti umani che ha anche un effetto positivo nel contenimento dei contagi), senza dimenticare fatti storici antichi cui i Papi si sono riferiti più volte per condannare certi errori del passato, dovuti più al braccio secolare che al clero.
     Ancora Sartori prendendo spunto da una frase del Cardinale Bagnasco, Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, secondo il quale non è accettabile “un diritto di libertà tanto inedito quanto raccapricciante: il diritto di morire” dimostra ancora di non conoscere il testo di legge all’esame della Camera che all’art. 1 (tutela della vita e della salute) “riconosce che nessun trattamento sanitario può essere attivato a prescindere dall’espressione del consenso informato” garantendo “che in casi di pazienti in stato di fine vita o in condizioni di morte prevista come imminente il medico debba astenersi da trattamenti straordinari e non proporzionati, non efficaci e non tecnicamente adeguati rispetto alle condizioni cliniche del paziente e agli obiettivi di cura”. Per cui è una assoluta sciocchezza affermare che  “si vuole persino negare la libertà di morire senza inutili sofferenze e prolungate agonie”.
     E chiude con la solita, stantia, ripetitiva affermazione che “questa imposizione, questa illibertà, esisterebbe solo da noi”. Argomento principe di chi intende buttare a mare cultura, valori, principi della nostra civiltà, che ha messo l’uomo al centro della affermazione e difesa dei valori. Non solo perché l’uomo è fatto ad immagine di Dio, ma perché la vita è comunque un valore di interesse della comunità e va salvaguardata e difesa fin quando è possibile. Anche ad evitare precoci dipartite di anziani dei quali qualcuno, magari, attende l’eredità. Un po’ come nell’aborto. Ma siamo sicuri che qualche volta non sia stato “consigliato” o “imposto” un aborto per motivi ereditari?
     Sono domande che Sartori certamente non si è posto e richiamando Prodi che si è detto “cattolico adulto”, nel senso che si sentirebbe libero di pensare diversamente dalla gerarchia (ma certamente non in questioni di fede), non si è reso conto di aver dato corso ad un rigurgito anticlericale che dimostra che ci sono ancora laici infantili che scrivono cose che l’inventore dell’espressione “libera Chiesa in Libero Stato”, quel Camillo Benso di Cavour del quale mi piacerebbe ci ricordassimo alla vigilia dei 150 anni dell’unità d’Italia, certamente non avrebbe sottoscritto.
16 settembre 2009

Cavour, Giolitti, Mussolini, De Gasperi in soffitta:
il migliore Presidente del Consiglio è stato ed è Berlusconi
di Senator

     Adesso si comprende perché il Governo stenti ad assumere iniziative concrete per le celebrazioni dei 150 anni dell’unità d’Italia.
     Chi vogliamo ricordare, forse Camillo Benso di Cavour o il suo successore Bettino Ricasoli, o Urbano Rattazzi e poi proseguendo Francesco Crispi, Antonio Giolitti, Benito Mussolini, Alcide  De Gasperi, Amintore Fanfani, Giuseppe Segni, Giulio Andreotti, Francesco Cossiga, Bettino Craxi? Non c’è bisogno. Il migliore è lui, il Cavalier Silvio Berlusconi. Non lo dicono le cronache, non si sono ancora pronunciati gli storici. Ma Lui è certo e sottolineando di aver governato più a lungo di Alcide De Gasperi (ma meno di Mussolini) ha aggiunto: “Credo sinceramente di essere stato, e di essere, di gran lunga il miglior presidente del Consiglio che l’Italia abbia potuto avere nei 150 anni della sua storia”.
     “Chi si loda s’imbroda”, dice un vecchio proverbio. Ma Lui incurante di questi detti popolari insiste. Coraggioso, petto in fuori e pancia in dentro, con sprezzo del pericolo continua imperterrito.
     Sarà vera gloria?  Ai posteri l’ardua sentenza!
12 settembre 2009

Il Fini degli errori
di Senator

     Fini nella bufera, non da oggi. Dopo l’attacco di Feltri su Il Giornale che con la definizione di “compagno” mette in risalto l’azione del Presidente della Camera che va controcorrente su tutto ciò che per Berlusconi rappresenta la sicurezza di vasti consensi. Dal testamento biologico alla politica dell’immigrazione l’ex leader dell’ex Alleanza Nazionale si mette sempre per traverso, forse per togliersi i tanti sassolini che ha collezionato nelle scarpe da quando Berlusconi è entrato in politica. Sì, è vero, che, candidato alla poltrona di Sindaco di Roma Fini aveva incassato il consenso di di Berlusconi: “se votassi a Roma voterei Fini”. Ma poi è stata una sequenza di schiaffoni mollati dal leader di Forza Italia rispetto ai quali Fini ha cristianamente mostrato l’altra guancia.
     C’è solo il dubbio della scelta. Un esempio: la Cabina di Regia, l’incarico di coordinamento della politica economica del Governo, che un vertice di maggioranza all’inizio del 2003 aveva deciso di affidare a Fini Vicepresidente del Consiglio. Occorreva riordinare il Dipartimento per gli affari economici della Presidenza del Consiglio ed attribuire a Fini la delega alla Presidenza del Comitato Interministeriale per la Politica Economica, il C.I.P.E., il gabinetto economico. Un incarico di facciata in assenza di poteri effettivi e di un sistema informativo capace di mettere in condizioni la Presidenza del Consiglio di disporre delle stesse fonti informative del Ministero dell’economia e delle finanze.
     Un potere modesto, più di facciata che altro. Eppure dopo un balletto di mesi nei quali le proposte di Fini venivano sistematicamente modificate ed aggiornate, qua una virgola, lì un aggettivo diverso. Alla fine non se ne è fatto niente. Berlusconi non ha voluto dare a Fini neanche questa modesta soddisfazione di facciata, considerato che i “poteri” che si dovevano attribuire al Vicepresidente del Consiglio non avrebbero potuto neppure scalfire il potere di Tremonti. Sarebbe stato  come fare solletico ad un elefante con una piuma. Niente. Eppure questo niente Berlusconi non lo ha dato a Fini. Il quale qualche mese dopo ha avuto, è vero, l’incarico di Ministro degli affari esteri ma solo perché Buttiglione non ha ottenuto il posto di Commissario europeo e Frattini è dovuto andare a Bruxelles. Se non ci fosse stata questa coincidenza Fini avrebbe continuato a fare il Vicepresidente praticamente senza delega, se si esclude il Dipartimento Nazionale per il Coordinamento delle Politiche Antidroga presieduto dal Prefetto Soggiu, mollato da Fini appena la Moratti e Muccioli hanno fatto capire che il funzionario, ex Generale della Guardia di Finanza non andava più bene.
     Il fatto è che Fini non vuole assumersi responsabilità di governo, di gestione di risorse. Sbagliando, perché un leader politico non cresce solo con manifestazioni di carattere ideologico, con interviste televisive e giornalistiche giovandosi dei una certa disinvoltura dell’eloquio e nell’aspetto.
     Fini, se mira alla successione di Berlusconi, ma anche se solo vuole contare in politica avrebbe dovuto assumere nel nuovo Governo Berlusconi un ministero di peso, l’economia, l’interno o la difesa e concorrere, in quella posizione, alla politica generale del governo, così contando nel nuovo partito. Invece ha esordito con l’ironico “siamo alle comiche finali”, quando Berlusconi dal predellino aveva preannunciato il Partito della Libertà, mentre avrebbe dovuto prendere subito la tessera numero 2. Poi si è defilato rispetto alle responsabilità di governo scegliendo di occupare un posto dal quale non si cresce, la Presidenza della Camera, una bella vetrina, certamente, come era stato il Ministero degli esteri nella fase finale del  precedente governo Berlusconi. A lui, lo hanno capito tutti, piace apparire più che essere. Ma così non va da nessuna parte. Ha perso il partito e la corrente in mano a uomini di stretta osservanza berlusconiana. In più va controcorrente e quindi, al di là degli applausi di convenienza della sinistra, non è affidabile per nessuno, perché dal più alto scranno di Montecitorio non fa l’arbitro ma scende in campo. Cosa gravemente scorretta.
     Sbaglia e continua a sbagliare. Anche per le persone delle quali si circonda. Modeste, quando non servili, quelle che a lui piacciono molto (come a tutti i politici, del resto), persone che gli suggeriscono quel che intuiscono a lui piace sentire. Non amici, ma opportunisti che mirano ad incarichi nel sottobosco politico e degli incarichi istituzionali riservati alla scelta della politica.
     Un tempo nei palazzi di potere si diceva, indicando un personaggio illustre, quello lo ha nominato Fanfani, quell’altro era vicino ad Andreotti, quel tale giudice costituzionale è stato designato da Moro. Ed erano tutti professionisti con grande capacità e spiccata sensibilità istituzionale. Di quelli che Fini ha messo in pista è meglio non dire, se di alcuni si può dire che sono modesti è un gran complimento.
     Un leader che non sappia circondarsi di personalità di rilievo non va da nessuna parte. E, infatti, Fini tenta con iniziative estemporanee di comparire sui giornali a giorni alterni, con lo stesso ritmo con il quale Berlusconi gli molla un ceffone.
9 settembre 2009

UN  POLLO  SERVE SEMPRE
di J.L.R.

     Quando si combina un guaio bisogna trovare un “pollo” da colpevolizzare e punire.
     Succede che l’Influenza “aviaria” colpisce il mondo: uccelli ed affini (polli inclusi) sterminati senza pietà e così gli umani in gran parte si salvano con pochi danni.
     Passano mesi e che succede ? Arriva una Pandemia di Influenza “suina”.
     Allora via ad una strage di suini che si rivela inutile:
     Adesso vogliono salvare gli umani utilizzando il “pollo” per produrre vaccini!
     Se riesce vuol dire che sacrificare un  “pollo” conviene sempre; se non riesce i “polli” ci hanno rimesso come al solito.
9 settembre 2009

P.S. e battute ironiche del nostro amico J.L.R. si prestano a qualche ulteriori considerazione. Da queste “pandemie” chi ci guadagna e chi ci rimette? Ci guadagnano i produttori di generi affini all’animale sospetto. Poi chi produce il vaccino. Dell’influenza aviaria, alla quale sono stati attribuiti poco più di un centinaio di decessi su miliardi di uomini, non si è parlato più all’improvviso, dopo che erano state acquistate, se ricordo bene, quaranta milioni di dosi di vaccino. E’ troppo chiedere che fine hanno fatto? E torna la domanda richiamata nel titolo di un pezzo di qualche settimana fa: “chi influenza l’influenza”?

Il “compagno” Fini e l’amico Cavaliere
di Gianni Torre

E’ stato un evidente gioco delle parti nel quale il Cavaliere da sempre è bravissimo. Fini si smarca da Berlusconi e dalla sua maggioranza, punta al Quirinale, fa prove di anticlericalismo tardomassonico e il leader del    Partito della Libertà, tempo due giorni, lo fa bacchettare, per poi sbracciarsi in attestazioni di antica e perdurante amicizia.
     L’attacco di Vittorio Feltri al Presidente della Camera, Gianfranco Fini, è duro, secondo il tradizionale linguaggio del direttore de Il Giornale. In un editoriale Feltri accusa Fini di aver cambiato posizione su gay, immigrazione e biotestamento.
     “Sulla vicenda Boffo – scrive Feltri – ti sei comportato tu, e non Il Giornale, in modo vergognoso. Hai espresso un’opinione dura verso di me senza conoscere, nella migliore delle ipotesi, i fatti. Se li avessi conosciuti saresti stato piu’ prudente. Invece hai sparato per il piacere di sparare o per convenienza, che e’ ancora peggio”. Dopo aver ricordato a Fini la frase da lui pronunciata due anni fa, ‘Un maestro elementare non puo’ essere un gay’, Feltri osserva: “Prendo atto che in un biennio hai cambiato posizione sui gay e non li consideri più – era ora – immeritevoli di stare in cattedra”.
    “Però un’altra volta avvisaci prima delle tue virate, altrimenti ci cogli impreparati. A proposito di virate – continua Feltri – sei ancora di destra o da quella parte ti sei fatto superare da Berlusconi? Non e’ una domanda provocatoria.
     Nasce piuttosto da una constatazione. Sulla questione degli immigrati parli come un vescovo. Sul testamento biologico parli invece come Marino, quello della cresta sulle note spese dell’Università da cui e’ stato licenziato”.
     Feltri osserva che sugli immigrati a Fini non interessano soluzioni alternative, “sennò faresti proposte anziché lanciare critiche alla tua stessa maggioranza. Ti sta a cuore la simpatia della sinistra che non sai più come garantirti. Il motivo si può intuire, se sbaglio correggimi. Miri – conclude Feltri – al Quirinale perché hai verificato che la successione a Berlusconi avverrà con una gara cui e’ iscritta una folla”.
     Tempo poche ore che ecco giungere le dichiarazioni di Berlusconi che giura di non aver nulla  che fare con l’iniziativa del direttore del giornale di famiglia. Lo stesso era accaduto per il “caso Boffo”. Che il Cavaliere sia tanto amante della libertà d’informazione da lasciare libero un suo dipendente di sparare a zero contro il “alleato” illustre, il Presidente della Camera nonché già leader di una delle componenti del Partito della libertà?
     Da non crederci. E, infatti, non ci crede nessuno.
     Intanto Fini deve meditare sulla strategia messa in piedi per crescere politicamente e smarcarsi dal Cavaliere senza metterselo contro. Ci si chiede se segua consigli o definisca tattica e strategia di testa propria. Insomma, se sia eterodiretto o sbagli di testa propria visto che colleziona “occasione mancate” quando avrebbe potuto puntare alla successione del Cavaliere con poche mosse azzeccate, giovandosi di vetrine prestigiose delle quali non ha saputo sfruttare i vantaggi, da una Vicepresidenza senza deleghe, ad un inane passaggio dalla Farnesina del quale non si ha ricordo alcuno, all’attuale Presidenza della Camera che crede di valorizzare facendo il giocatore anziché l’arbitro.
8 settembre 2009     

In vista del dopo Berlusconi
Quadro politico: prove tecniche di riposizionamento
di Senator

     È stato rilevato da più di un osservatore politico negli ultimi tempi che gli avvenimenti della politica sono caratterizzati sempre più da un accentuato nervosismo dei protagonisti, molti dei quali sembrano ispirarsi ad esigenze di individuazione di nuove posizioni in vista di un mutamento dell’attuale assetto.
     Fuor di metafora, è evidente che molti dei protagonisti della vita pubblica, di primo piano, ma anche i peones della maggioranza, quella pletora che Berlusconi apertamente ha dimostrato di disprezzare alla vigilia del voto quando disse che gli servivano solo 30 parlamentari bravi per governare le Camere, ritengano che l’attuale sia una fase conclusiva del ciclo politico iniziato nel 1994 con la discesa in campo di Silvio Berlusconi, un imprenditore abile, dotato di significative amicizie politiche, tuttavia in gravi difficoltà. Si diceva fosse indebitato per grosse somme con le banche. Tanto che qualcuno gli avrebbe consigliato di impegnarsi in politica per rimediare alle difficoltà, nel senso che è evidente come una posizione politica di preminenza può assicurare all’imprenditore vantaggi notevoli nei contratti di sponsorizzazione e pubblicità, se non altro.
     Facendo uso di un linguaggio nuovo e di una notevole capacità di comunicazione, essenziale e di facile percezione, a cominciare dalla denominazione del partito “Forza Italia”, con i colori della bandiera nazionale quell’imprenditore, presentandosi come novità, quando, in realtà, doveva molti dei suoi successi agli autorevoli appoggi politici dei quali aveva goduto negli anni (significativo il decreto legge con il quale il Governo Craxi aveva contraddetto la decisione del Pretore di chiudere le sue televisioni) ha fatto breccia nei cuori e nella mente di un elettorato deluso, quando non disgustato, di una classe politica alla quale rimproverava, più che la corruzione, l’inefficienza, assolutamente incapace di governare i destini di un popolo che non riusciva a percepire come l’Italia potesse essere tra le sei o sette più importanti potenze industriali del mondo con gli intollerabili costi di gestione di un apparato pubblico tra i più inefficienti.
     Reclutando tra democristiani di secondo piano, liberali ormai senza più partito, radicali opportunisti e socialisti allo sbando dopo l’inchiesta di “mani pulite”, Silvio Berlusconi ha messo su un’armata poco coesa, come dimostreranno i ripetuti ricorsi al voto di fiducia nonostante l’imponente maggioranza, ma sicuramente fedele, anche perché con scarso senso politico e istituzionale. Ben pochi di coloro che ha portato in Parlamento dal 1994 avrebbero, infatti, potuto sperare in un’elezione basata sul consenso personale se il Partito non avesse fatto quadrato su di loro. Personaggi nella maggior parte dei casi modesti, senza esperienza di governo, neppure nel più piccolo degli enti locali, immediatamente calatisi nel ruolo, pertanto arroganti, infastiditi dalla presenza di regole e dei giudici che al rispetto di quelle regole li invitavano. Questo non vuol dire, ovviamente, che di questa armata non facessero parte anche alcuni che, dotati di qualche intelligenza politica e di voglia di apprendere, abbiano fatto bene alla testa di organismi statali e regionali. Senza contraddire il Capo, senza lasciare insoddisfatte le aspettative sue e quelle dei suoi amici imprenditori ai quali si doveva assicurare una normativa che ne assicurasse le esigenze, sulla base di una visione “privatizzata” della gestione delle risorse pubbliche, assumendo che il modulo operativo privatistico fosse maggiormente idoneo al perseguimento di obiettivi di pubblico interesse, in precedenza sempre rimessi all’esercizio dei poteri pubblicistici che tradizionalmente hanno fatto prevalere gli interessi delle amministrazioni e degli enti rispetto alle aspettative dei privati quando con essi configgenti.
     Nulla di male se l’obiettivo, pubblico interesse=bene comune, fosse raggiunto nel modo più veloce e compiuto. Purtroppo non è stato quasi mai così. Si è confusa, in sostanza, la mancata capacità di fare del pubblico, per incapacità della classe politica di governare i fenomeni, con l’incapacità tout court del sistema e ci si è prodigati nel perseguimento di obiettivi di efficienza che in realtà giovavano quasi solo al privato gestore.
     Questa fase della vita politica italiana sembra destinata a concludersi in tempi che non è facile prevedere ma che certamente non saranno lunghi. Che Berlusconi veda accorciarsi la prospettiva del suo premierato lo dimostra l’incapacità di gestire politicamente l’aggressione della quale è stato oggetto, in gran parte a causa delle diverse versioni che ha ripetutamente offerto di fatti privati i quali, per averlo visto come protagonista, sono necessariamente di natura pubblica, considerato che le amicizie e le frequentazioni del Presidente del Consiglio, ancorché occasionali, con persone non limpide possono rivelare anche profili di sicurezza dello Stato, come insegna la storia.
     Ritenendosi diffamato, il premier ricorre ai giudici, dei quali ripetutamente ha dimostrato di non avere stima, fino a ritenere che fosse necessaria una particolare conformazione mentale, addirittura patologica, per fare quel lavoro, chiedendo risarcimenti milionari. Per cui l’accusa dell’opposizione di attentare, di fatto, alla libertà di stampa.
     Il premier che confonde una battaglia politica, le accuse dell’opposizione, con una vicenda giudiziaria, la diffamazione che sarebbe contenuta negli articoli de La Repubblica e dell’Unità, dimostra, secondo alcuni, compreso Galli della Loggia che ne ha fatto oggetto oggi di un editoriale sul Corriere della Sera, che il Presidente è alle corde, almeno psicologicamente.
     Sta di fatto che Letta e Tremonti studiano da successori, lanciando messaggi alla Chiesa, il primo scrivendo libri che assumono a tratto ispiratore alcuni tradizionali leit motiv della carità cristiana, il secondo, con un presenzialismo sempre più impegnato ed abilmente propagandato.
     Intanto Gianfranco Fini, che si è disfatto di Alleanza Nazionale, passata armi e bagagli sotto le ali del Premier cui rispondono Gasparri, La Russa e Matteoli,   immaginando gli giovasse una certa politica apertamente anticlericale, laicista, che scimmiotta istanze massoniche d’altri tempi, non si perita di apparire, oltre che essere, un arbitro che entra in gioco, a gamba tesa, rinunciando al ruolo super partes che sembrava aver scelto per puntare in alto, apertamente al Quirinale. Ma con quali voti, per assicurare quale ruolo di equilibrio se da Presidente della Camera sponsorizza e preannuncia scelte di campo che spettano ai partiti nel confronto delle opinioni, non a chi quel confronto deve assicurare si svolga liberamente.
    C’è poi, Bossi, anch’egli ammiccante alla Chiesa, nonostante le prese di distanza della gerarchia dalla politica dell’immigrazione voluta dalla Lega.
     Emerge anche la posizione di Casini, che, dopo aver giocato  la carta dell’autonomia evitando l’abbraccio mortale del Cavaliere, si ritrova corteggiato per essere determinante in alcune realtà locali se il Centrodestra vorrà prevalere nelle regionali del 2010.
     Si va verso un Centro più grande?
     Ma anche verso una nuova Destra liberale e nazionale che necessariamente non potrà più essere quella “inventata” da Berlusconi con la sua eterogenea armata di profughi dei partiti della Prima Repubblica, senza ideologie ma anche senza ideali civili, senza quella religione delle istituzioni che da sempre ha caratterizzato i partiti a destra dello schieramento politico.
     Tutto è in movimento, dunque. Farà degli scongiuri il premier un po’ attore? Per tutti questi che lo vedono sul viale del tramonto. O farà qualche mossa per guidare la successione? Farà come quegli artisti o atleti che escono di scena nel momento del massimo fulgore per mantenere il ricordo dei successi o come gli altri che non riescono a staccare e accompagnano il declino con errori su errori e, in fin dei conti, con essi fanno dimenticare ciò che di buono avevano realizzato un tempo?
    Dio fa impazzire coloro che vuol perdere! Potremmo disinteressarcene se le vicende della vita politica italiana non avessero una gravissima ripercussione su noi tutti.
7 settembre 2009

Le esternazioni del Ministro Tremonti tra demagogia e realtà
di Marco Tullio

     Le recenti esternazioni del Ministro dell’Economia al Meeting di Comunione e Liberazione a Rimini di fine agosto con l’attacco agli economisti rei di non aver saputo prevedere la crisi economica – provocata in buona parte dai banchieri rapaci ed insaziabili, altra categoria sempre nel mirino del Ministro dopo le più recenti esternazioni londinesi hanno trovato una risposta nella lettera indirizzata a inizio settembre da 16 economisti italiani al Corriere della Sera.
     Del resto diciamolo francamente: pur riconoscendo al Ministro capacità tecniche e mediatiche che lo fanno risultare il più brillante esponente del Governo in carica, quel suo atteggiamento da primo della classe, sempre infallibile e più intelligente degli altri, lo rende spesso detestabile ai più. Nel caso specifico di Rimini, il desiderio di riuscire simpatico ad una platea entusiasta di giovani ciellini, ha spinto il Ministro ad affermazioni dal sapore demagogico e populista, concluse con l’invito a tacere agli economisti con toni decisamente fuori dalle righe. La risposta è arrivata dopo pochi giorni con la lettera al Corriere che contiene un’orgogliosa rivendicazione del ruolo e dei compiti degli economisti e la sfida al Ministro a dibattere in modo pubblico e trasparente le sue idee circa il futuro del Paese. Non solo, la lettera ha maliziosamente ricordato che certe “previsioni” contenute nell’ultimo libro di Tremonti circa l’approssimarsi di una crisi, in realtà tali non sono sia per la  tempistica che per l’indeterminatezza delle stesse.
      A differenza di Tremonti, gli economisti non si sottraggono all’autocritica e riconoscono di avere in genere sottovalutato cause e conseguenze di un’anomala crescita del credito. Del resto solo pochi giorni prima il prof. Spaventa in un bell’intervento su lavoce.info aveva affrontato l’argomento delle responsabilità della categoria per non aver sufficientemente allertato la politica circa i pericoli per l’economia e la finanza conseguenti i rischi crescenti assunti dagli operatori.
     A ben vedere i firmatari della lettera sono stati anche troppo “soft” con il Ministro non avendogli ricordato le posizioni assunte e gli errori di strategia durante la precedente esperienza di governo, quando Tremonti impersonava la contabilità di stato “creativa” per diminuire con artifizi contabili il peso del debito pubblico e accenderne del nuovo, nel rispetto formale dei parametri di Maastricht. Tutti ricordiamo le polemiche con Eurostat ed il successivo flop di alcune “invenzioni” di quegli anni come Infrastrutture dello Stato Spa.
     Dopo Rimini, questo week end si è tenuto il G20 di Londra ed ecco di nuovo riaccendersi il fervore giustizialista del Ministro, questa volta contro i banchieri e le banche la cui dimensione ed influenza sarebbero troppo cresciute mettendo in pericolo la stabilità delle economie. Pur essendo state salvate in molti casi dai governi, dice Tremonti, le banche non si mettono al servizio delle imprese per rilanciare l’economia ma si preoccupano solo dei loro bilanci.
     L’impressione che si ricava da queste “esternazioni” scarsamente fondate da un punto di vista tecnico è che Tremonti stia cercando una popolarità politica ed una visibilità presso l’elettorato non più da “tecnico” ma da leader politico, cercando di posizionarsi in vista di futuri sviluppi politici nazionali. Se così fosse, pur riconoscendo la liceità dell’obiettivo, spiace constatare la mancanza di obiettività da parte di un Ministro che vede i meriti per la stabilizzazione delle economie solo dalla parte degli uomini delle istituzioni e colpe in tutti gli altri, economisti, accademici e banchieri.
     A ben vedere Tremonti è in buona compagnia perché questa caccia agli “untori” responsabili della crisi ha visto altri leader politici europei rilasciare dichiarazioni forti contro i banchieri. Del resto con il propagarsi della crisi dell’economia reale e quindi della disoccupazione, la ricerca dei capri espiatori è un problema comunemente sentito dalla politica di fronte agli elettorati nazionali!
     Quello che non viene ricordato però è che una delle ragioni principali della crisi economico finanziaria è stata la mancanza di una efficace regolamentazione dei mercati che ha consentito gli eccessi di cui oggi si scontano le conseguenze. E di chi la responsabilità di questa mancata regolamentazione se non della politica? Questa considerazione per quanto ovvia non pare interessare il Ministro che, assorbito dalla sua missione riformatrice, non ritiene evidentemente che gli amministratori pubblici abbiano delle responsabilità in materia.
     Naturalmente il discorso è molto più complesso e travalica gli ambiti nazionali. La stessa normativa UE è frutto di compromessi tra ordinamenti legislativi tendenzialmente più orientati alla regolamentazione dell’attività economica (Germania, Francia, Italia) e ordinamenti più liberali che si ispirano a principi di autoregolamentazione (Regno Unito, Olanda). Per questo i paesi dell’Europa continentale hanno criticato fortemente la blanda regolamentazione dei mercati finanziari internazionali tendenzialmente ispirata dai principi della finanza anglo-americana. Le riforme concordate ed intraprese a livello internazionale vanno nella direzione di maggiori controlli e poteri alle authority ed alle istituzioni internazionali.
     Ma un’ulteriore considerazione dovrebbe essere fatta per valutare nella giusta prospettiva la congiuntura economica che stiamo attraversando. Lo sviluppo dei mercati e degli strumenti finanziari e la globalizzazione dell’economia internazionale, prima di arrivare  alla crisi attuale di cui forse cominciamo a intravedere la fine, hanno portato dei benefici economici inimmaginabili anche solo venti anni fa’, consentendo una crescita del prodotto lordo mondiale mai conosciuta prima e facendo emergere da fame e sottosviluppo centinaia di milioni di uomini nei paesi in via di sviluppo. Anche nei paesi occidentali naturalmente si sono sentiti questi benefici e ceti sociali meno abbienti hanno potuto accedere a modelli di consumo non accessibili precedentemente. Lo sviluppo eccessivo del credito ha tuttavia creato in vari settori delle bolle speculative con i contraccolpi economici che conosciamo. Tuttavia attribuire le responsabilità di quanto accaduto negli ultimi anni nel bene o nel male a singole categorie, siano esse gli  economisti o i banchieri, sarebbe un esercizio poco serio.
7 settembre 2009

L’immagine delle istituzioni
e quella degli uomini che le incarnano
di Senator

     Essere “come la moglie di Cesare”, cioè “al di sopra di ogni sospetto”. È una frase diventata proverbiale a dire che coloro i quali occupano posti di responsabilità nelle istituzioni pubbliche debbono essere inattaccabili. Neppure un dubbio sulla loro moralità pubblica e privata. Plutarco, nel decimo capitolo della Vita di Giulio Cesare, ci dice che in occasione di una festa dedicata alla dea Bona, cui potevano partecipare soltanto le donne, Pompea, moglie di Cesare e sacerdotessa della dea, avrebbe accolto nella sua abitazione, un suo spasimante, Publio Clodio, travestito da suonatrice. Ma l’inganno venne scoperto. Pompea fu processata per oltraggio al pudore e alla religione. Al processo Cesare si dichiarò convinto dell’innocenza della moglie e quando gli chiesero perché avesse divorziato, rispose che l’aveva fatto perché la moglie di Cesare doveva essere al di sopra di ogni sospetto.
     Così nelle pubbliche istituzioni un tempo amministratori e funzionari sospetti di corruzione, concussione o di illecito arricchimento altrimenti conseguito venivano rimossi. Spesso si mettevano da parte di loro iniziativa.
Un tempo, perché più di recente cose di questo genere non accadono. Anzi, al primo sospetto, avallato dalla stampa o dall’iniziativa di qualche Pubblico Ministero la reazione del sospettato è quella di aggredire giornali e magistratura.
È un segnale brutto, del degrado di un costume pubblico il quale ignora che il servizio allo Stato ed alle istituzioni è funzione destinata a soddisfare interessi superiori, delle istituzioni, appunto, e della comunità nel suo complesso che attraverso le istituzioni persegue gli obiettivi di generale interesse, quello che si chiama il bene comune.
     In questi giorni il tema torna di attualità per alcune vicende che hanno colpito negativamente l’opinione pubblica che vorrebbe mai dover dubitare della lealtà istituzionale degli uomini, e delle donne, ovviamente, preposti a posizione di responsabilità che siano in qualche modo rappresentativi della istituzione.
     La reazione della gente ad episodi che mettano in evidenza l’inadeguatezza degli uomini è immediata e rischia di travolgere le istituzioni in conseguenza della cattiva scelta e della ritardata reazione rispetto ai fatti. Nel senso che nessuno fa come Cesare che, pur dicendosi convinto della innocenza della moglie, l’ha ripudiata dicendo che la moglie di Cesare non poteva neppure essere sfiorata dal dubbio della colpevolezza.
     La regola vale per le istituzioni dello Stato e degli enti pubblici come per le istituzioni religiose, come ha ricordato il Prof. de Mattei a proposito del “Caso Boffo”, la cui immagine non può essere messa in discussione da comportamenti pubblici o privati di propri rappresentanti.
     Pubblici e privati, perché ad onta di alcune contrarie affermazioni che si leggono sui giornali non c’è distinzione per chi ricopre una carica pubblica tra la sua immagine pubblica e quel che fa in privato, tanto è vero che un tempo (sempre “un tempo” ahimè!) all’atto dell’assunzione di un pubblico dipendente si chiedevano elementi di “buona condotta” (art. 2 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3) che attestavano un comportamento conforme al ruolo pubblico rivestito.
     Per questo, con una storica sentenza la Corte di cassazione, all’inizio degli anni ’90, ritenne, innovando rispetto ad una consolidata giurisprudenza, che anche le istituzioni soffrano della lesione dell’immagine prodotta dall’azione delittuosa dei propri funzionari. E condannò quanti furono corrotti nell’occasione dell’acquisto di aerei Locked per l’Aeronautica Militare a risarcire il “danno morale” provocato allo Stato.
     Da allora quel danno “allo Stato” ha formato oggetto di un numero rilevante di sentenze della Corte dei conti alla quale è stato riconosciuto proprio dalla Cassazione nella veste di giudice della giurisdizione, la competenza a giudicare della lesione portata allo Stato e agli enti pubblici dal comportamento illecito di amministratori e/o dipendenti.
     Accadeva un tempo, dobbiamo dire anche in questo caso, perché un recente decreto legge n. 78 del 1° luglio 2009, convertito dalla legge n. 102/2009, ha di fatto soppresso la giurisdizione della Corte dei conti in tema di danno all’immagine, limitandola a casi di condanne irrevocabili per delitti contro la pubblica amministrazione (corruzione, concussione, peculato, ecc.). Ma se viene platealmente sperperato il pubblico denaro, se un docente chiede prestazioni sessuali alle proprie studentesse per favorire il superamento dell’esame, se il maestro o la maestra abusano del bambino lasciato dai genitori alle loro cure, l’immagine ed il prestigio dell’amministrazione non ne risentono? Il Parlamento ha deciso di no.
6 settembre 2009

In videocollegamento con Cernobbio per il Workshop Ambrosetti
Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, delinea Progetti, azioni e strumenti comuni per ridare fiducia nell’Europa
di Salvatore Sfrecola

     A tutto campo, sui temi dell’economia e dello sviluppo e delle prospettive istituzionali, il Capo dello Stato ha ieri esposto ai partecipanti al Workshop Ambrosetti le sue idee in un momento difficile dell’economia, richiamando il ruolo dell’Europa e, indirettamente, le iniziative necessarie della politica italiana.
     In continuità con la precedente edizione dell’incontro settembrino che a Cernobbio riunisce politici, imprenditori ed espressioni significative della società civile, Napolitano, rispondendo alle parole di saluto del Professor Mario Monti, ha sottolineato come l’anno trascorso sia stato “cruciale per noi che ci siamo sempre sentiti e ci sentiamo impegnati senza riserve nella storica impresa della costruzione europea: è stato un anno cruciale perché ci ha dato drammaticamente il senso delle responsabilità dell’Europa, delle prove e delle sfide cui è esposto il ruolo dell’Europa nel mondo d’oggi. In un mondo cioè percorso da cambiamenti radicali nei suoi equilibri, e investito da una crisi globale che ha colpito le nostre economie e le nostre società e messo in questione le prospettive del nostro sviluppo”. E, pur non sottovalutando “gli sforzi compiuti e i contributi offerti dall’Unione Europea, in primo luogo nel semestre di presidenza francese”, in quanto “i piani di rilancio allora adottati di fronte al manifestarsi della crisi in tutta la sua gravità hanno dato dei risultati, come hanno sottolineato avantieri, nella loro lettera al Presidente di turno del Consiglio, il Cancelliere signora Merkel, il primo ministro Brown e il Presidente Sarkozy” ha voluto sottolineare come essi “hanno ragione nel ribadire che quei piani vanno portati avanti risolutamente, perché “la crisi non è terminata” e comunque è destinata a provocare serie conseguenze sul mercato del lavoro nei prossimi mesi”.
     Il Presidente ha, quindi, invitato a “riflettere sulle difficoltà e sui limiti, politici e istituzionali, che hanno impedito all’Unione di andare al di là della condivisione e concertazione di indirizzi da perseguire concretamente paese per paese”. E si è chiesto “quali maggiori risultati e vantaggi si sarebbero potuti conseguire definendo progetti e azioni comuni, mettendo in opera strumenti comuni?” Una domanda e una verifica alla quale, secondo Napolitano, “pare difficile sfuggire”.
     “E’ comunque importante – ha aggiunto il Capo dello Stato – che l’Europa abbia saputo fare la sua parte nel nuovo contesto di collaborazione mondiale che è venuto emergendo nell’ultimo anno : così, in particolare, nel G20 di Londra. Ed è importante che in vista del nuovo G20 di Pittsburgh l’Unione Europea si impegni – come hanno suggerito nella lettera da me già citata, tre autorevoli capi di Stato e di governo – sui temi di un nuovo quadro di regole per il settore finanziario: temi su cui si è specificamente molto impegnata l’Italia in occasione del G8 de L’Aquila, nella comune convinzione che si debba in questo momento bloccare il rischio di un ritorno a pratiche e comportamenti che hanno provocato una così grave crisi finanziaria come quella ancora non superata”.
     “Ci si deve augurare – ha continuato il Capo dello Stato – che nel prossimo G20 le voci europee risultino univoche. Univoche anche sulle questioni di riforma del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale. Una nuova governance globale, capace di guidare la ripresa economica mondiale su basi sostenibili, lungo linee diverse da quelle del passato, non può scaturire da un succedersi, a scadenze sempre più ravvicinate, di vertici di capi di Stato e di governo in diverse formazioni, ma può poggiare solo su istituzioni internazionali più rappresentative e più efficaci. E i paesi europei che già oggi fanno parte, ad esempio, del Fondo Monetario Internazionale, dovrebbero affrontare il problema di accrescere il loro peso, la loro influenza, unificando le quote di cui dispongono in seno a quella istituzione. In effetti, a qualunque aspetto si guardi dell’esperienza dell’ultimo anno e della possibile evoluzione del processo di globalizzazione, risulta incontestabile l’esigenza che l’Europa faccia più decisi passi avanti sulla via dell’integrazione, rafforzi la sua capacità di azione comune. L’Unione Europa è stata favorita dalla coincidenza tra l’emergere di situazioni critiche nel secondo semestre del 2008 e una presidenza forte come quella francese. Se ne è giovata sul piano della politica internazionale, contribuendo a disinnescare la crisi russo-georgiana, e se ne è giovata nel fronteggiare l’emergenza finanziaria mondiale”.
     Poi l’esigenza “di una sia pur misurata armonizzazione fiscale” che Napolitano richiama sottolineando che l’Unione Europea non può esitare ancora, “dopo quel che è accaduto”. Ed ha aggiunto che “molte possono essere le domande della stessa natura relative alla necessità di superare la soglia di persistenti chiusure nazionali e spinte centrifughe. Così, ad esempio, la domanda relativa ai limiti che tuttora incontra un impegno comune europeo in materia di immigrazione e, su un piano necessariamente distinto, a garanzia dell’inalienabile diritto all’asilo per chi sia costretto a richiederlo. Si tratta, sempre, di esprimere più volontà politica, più disponibilità alla ricerca paziente, nel rispetto reciproco, di validi punti d’incontro”.
     Infine il Capo dello Stato ha affrontato un tema istituzionale a lui caro e ricorrente nel dibattito sul futuro dell’Europa: “può l’Unione Europea affrontare il futuro con presidenze del Consiglio europeo che si avvicendano casualmente ogni sei mesi? Può affrontare il futuro senza darsi una direzione unitaria e degli strumenti validi per esprimere una politica estera e di sicurezza comune? Può l’Europa evitare un fatale declino del suo ruolo in un mondo sempre più diverso da quello del passato, senza riuscire ad esprimersi, a crescere, ad agire come entità unitaria, attraverso politiche e istituzioni comuni?” La risposta “è netta: no, è indispensabile sciogliere quei nodi. Tanto per cominciare, concludendo la vicenda, che si trascina da 8 anni, del nuovo Trattato dell’Unione, portando a termine la ratifica del Trattato di Lisbona e procedendo decisamente alla sua attuazione. Il futuro dell’Europa, e per essa dell’Unione Europea, non può rimanere sospeso al filo della defezione anche di uno solo del 27 paesi i cui governi hanno solennemente firmato un Trattato”.
     In risposta a Felipe Gonzalez, Presidente Gruppo di Riflessione sul futuro dell’Europa, sulla necessità di una Europa più coordinata di fronte alla crisi e alle sfide della globalizzazione, Napolitano si è chiesto “se si possa dire che nell’ultimo anno è stata prevalente la tendenza ad un ripiegamento sugli interessi nazionali. Ci sono stati dei momenti e ci sono state delle questioni che hanno visto emergere una maggiore capacità di espressione dell’impegno comune dell’Unione Europea. Però certamente il problema c’è, e io vorrei mettere in evidenza come questo ripiegamento su logiche strettamente nazionali o piegate agli interessi nazionali sia un ripiegamento illusorio. E’ una pura illusione pensare che qualsiasi Stato membro dell’Unione Europea, a partire dai più grandi, possa far valere propri interessi nazionali al di fuori di uno sforzo congiunto europeo. Il mondo è talmente cambiato che non si vede come nessuno dei nostri paesi possa recuperare un suo ruolo autonomo e distinto, reagire solo con le sue forze alle sfide della globalizzazione, senza invece mettere al servizio di un accresciuto ruolo dell’Unione Europea in quanto tale le proprie energie. C’è dunque una questione di volontà politica, una questione di forza e di direzione politica dell’Unione che richiede – io ritengo – anche adeguate soluzioni istituzionali”.
     Francois Fillon, Primo Ministro francese, ha interrogato il Presidente Napolitano sulla riscoperta del ruolo dell’Europa anche nel Mediterraneo . Nel ringraziarlo per la domanda il Capo dello Stato ha detto che “noi abbiamo forse scoperto in alcuni momenti, in particolare nel secondo semestre del 2008 e grazie in particolare all’autorevolezza della Presidenza Francese, che l’Europa è più forte, ha più potenzialità e può contare più di quello che essa stessa non creda. Mi auguro che si sia anche capito che invece gli Stati nazionali, ciascuno per suo conto, ciascuno da solo, sono più deboli forse di quanto qualcuno pensi. Quindi, necessità assoluta di agire insieme e di darci istituzioni e politiche comuni”.
     Tra queste politiche l’Italia – ha detto Napolitano – consideria “molto importante quella dell’Unione per il Mediterraneo. Credo che anche la soluzione che si è trovata sul piano lessicale – Unione per il Mediterraneo – abbia un significato. Si tratta di un impegno che deve coinvolgere tutti gli Stati membri dell’Unione. E’ una politica della Unione, non è la politica soltanto di alcuni paesi dell’Unione Europea che si affacciano sul Mediterraneo”.
     Wolfang Schussel, già Cancelliere Federale dell’Austria, ha chiesto a Napolitano come restituire fiducia all’Europa. “La domanda è meno semplice di quanto appaia”, ha esordito sul punto il Presidente, aggiungendo che “se vogliamo far rivivere un moto di fiducia nell’Unione Europea, innanzitutto dobbiamo trasmettere ai cittadini l’immagine di una Europa che parla con una sola voce. Perché se, invece, le voci europee danno luogo ad una talvolta assordante o deprimente cacofonia, è molto difficile che si abbia maggior fiducia nelle istituzioni europee, nell’Europa, nel progetto europeo in quanto tale”.
     Il Presidente continua dicendo di Io mi permetto di spezzare una lancia per il Parlamento europeo perché qui talvolta veramente ci troviamo di fronte a dei paradossi: il Parlamento europeo è oramai dal 1979 eletto diretto dai cittadini a suffragio universale, costituisce una istituzione rappresentativa democratica pienamente legittimata. E quando io vedo da qualche parte ripetersi, invece, che il Parlamento europeo è meno legittimato democraticamente dei Parlamenti nazionali, veramente reagisco in modo molto critico: non ci sono basi per una affermazione del genere. Se si diffonde tra i cittadini, anche in questo modo, sfiducia in una istituzione che, come si è detto, è una istituzione chiave dell’impresa europea, ci si assume una grave responsabilità. D’altronde il Parlamento europeo è quello che, anche in quest’ultimo periodo, ha dato prova di saper fornire dei contributi positivi, stimolanti e dinamici alla costruzione di una Europa unita. Quindi, io chiedo anche che ci si faccia, come leadership politiche e di governo nazionali, un esame di coscienza per il modo in cui si è condotta la recente campagna elettorale per il Parlamento europeo. E’ chiaro che diminuirà la fiducia nel Parlamento europeo se si continuerà a fare delle campagne elettorali in cui si dovrebbe parlare di Europa e invece si parla di vicende politiche strettamente nazionali, e così si dimostra scarsa sensibilità, prima ancora per il ruolo del Parlamento europeo, per il ruolo dell’Europa stessa”.
     Ponderate, efficaci, le parole del Capo dello Stato saranno senza dubbio oggetto di commenti ed approfondimenti anche dalla nostra classe politica che troppo spesso sembra trascurare che l’Europa è ormai un riferimento imprescindibile della politica economia e sociale dei singoli paesi. Per gestire l’resistente e per proiettarsi in un futuro nel quale i protagonisti dell’economia mondiale non possono essere i singoli stati ma le grandi comunità della produzione e della finanza.
6 settembre 2009

NUOVE CERTEZZE SULL’AEROPORTO DI FIUMICINO
di J.L.R.

     La preoccupazione sulla vivibilità e la consegna dei bagagli all’aeroporto di Fiumicino è stata stressata dall’immediata indagine effettuata dal pragmatico Ministro Matteoli.
     Il Ministro ha comunicato che recenti approfondite indagini hanno confermato (vedi mio scritto del 27/08/09) che “…nulla di nuovo a Fiumicino…”, parafrasando E.M. Remarque. L’inefficienza è statisticamente costante nel tempo! Quindi i bagagli continuano ad arrivare in ritardo e molti si perdono come nel 2008: non c’e’ urgenza di intervenire, nulla è cambiato, tutti lo sanno.|
Grazie Ministro: in questi tempi difficili abbiamo sempre più bisogno di certezze!
5 settembre 2009

P.S. Per la verità ieri pomeriggio, di ritorno dalla Turchia, ho avuto la straordinaria sorpresa di trovare la valigia sul nastro di consegna solo poco dopo l’atterraggio dell’aereo. E’ chiaro che una rondine.. non fa primavera.
In compenso ho fatto, sia pure per una decina di minuti, una fila all’unico posto di controllo passaporti aperto per i cittadini dell’Unione Europea (dei tre complessivamente in servizio). Intanto a fianco dei passeggeri in fila tre agenti di polizia conversavano allegramente. Non sarebbe stato possibile metterli al lavoro ed attivare un altro posto di controllo? Possibile che si abbia difficoltà ad immaginare una gestione dei servizi flessibile, così che se arrivano più aerei insieme e con molti passeggeri si possa ampliare il numero dei posti di controllo, magari chiedendo a qualche dipendente il sacrificio di rinviare a più tardi quell’amena conversazione che certamente aveva lo scopo di alleviare il peso del servizio?
Ad Istanbul i posti di controllo erano una ventina. C’è voluto un secondo per passare il controllo.
Il confronto francamente mi ha mortificato come italiano.
Salvatore Sfrecola

SE IL MEDICO DIVENTA ANCHE MANAGER
di J.L.R.

     Il compito del Medico non è mai cambiato.
     E’ ben scritto: rileggendo il giuramento di Ippocrate si rileva la sua assoluta attualità.
     Pur cambiando l’epidemiologia, la diagnostica, la terapia, è rimasto fermo il punto chiave che il Medico deve assistere e curare secondo scienza e coscienza  chiunque, senza distinzione di razza, religione, casta od altro.
     Il resto è subdolo tentativo di cambiare “le carte in tavola” e tirare il camice del medico verso interessi nazionali, politici, ecc., comunque di parte.
     Il Medico deve fare solo il Medico: ciò è già molto difficile.
     L’attività medica (non solo negli Ospedali Universitari) significa assistenza, aggiornamento scientifico, attività scientifica, attività didattica.
     In un’epoca in cui l’evoluzione medico-biologica è travolgente (quello che sembra essere vero mentre scrivo può non essere vero tra 24 ore) e spesso non è possibile  leggere in tempo gli articoli delle maggiori riviste scientifiche che riguardano la stretta specializzazione di nostra competenza??.ci viene chiesto di fare/essere manager!
     Nostro Signore, non a caso, disse che non si possono servire due padroni !
     Ma abbiate pazienza, tutti sanno che per fare i manager  (ed anche i semplici commercialisti!) bisogna studiare (anche laurearsi), aggiornarsi, partecipare a Masters, avere esperienza; tanto questo è vero che i manager vengono pagati a milioni annui.
     Allora come si può venire a dire con serietà che un Medico debba essere anche un manager: forse viene detto per scaricare le responsabilità finanziare ed organizzative di altri, a dir poco, sconsiderati!
     Se un Medico è un ottimo manager, probabilmente è un medico scadente (un “traditore”della medicina di Ippocrate), se è un ottimo Medico ben aggiornato e qualificato non potrà aver avuto il tempo di imparare a fare il manager.
     Un’altra fantastica idea è quella di coinvolgere il Medico nella progettualità architettonica delle strutture sanitarie? Ciò non sarebbe male (ma restano i problemi di cui sopra) vista la dimostrata incompetenza dei “geometri di basso livello” che operano nel settore sanitario nel nostro Paese.
     Benissimo, allora per trovare un ottimo Medico, buon manager e buon architetto sarebbe bene chiedere ad un ricercatore (medico/biologo) di cominciare a cercar di clonare Leonardo da Vinci!
     Allora correttamente sarebbe meglio dire che a fianco di un Medico che occupa un ruolo dirigenziale (Professori Universitari, Primari, Direttori di strutture sanitarie, scientifiche, ecc) debba essere assicurata la presenza di un manager e che quindi il Medico dovrebbe pensare “solo” a studiare, aggiornarsi, insegnare, curare, alleviare le sofferenze di tutti quelli che si rivolgono a lui.
     Ai pazienti serve che il Medico sappia fare il suo lavoro e non perda un solo minuto per imparare ed aggiornarsi in benchmark, budget, swap, costi  del personale e tutto il resto.
     Ricordiamoci che allorquando il medico sarà un perfetto manager e verranno stabilite e codificate linee guida diagnostiche e terapeutiche per tutte le patologie, e che la Legge controllerà pedissequamente il rispetto di queste, non ci saranno più Medici (con la M maiuscola) e  molti meno pazienti per precoce mortalità, con grande soddisfazione per la riduzione delle spese sanitarie.

PS  Attenti poi che i Manager ex medici pretenderanno anche loro milioni annui di stipendio !
4 settembre 2009

Riflessioni e domande sul caso Boffo
di Roberto de Mattei

     Il caso Boffo va bene al di là delle relazioni tra Berlusconi e il Vaticano, entro cui lo si vorrebbe ingabbiare, e pone un problema di fondo alla Chiesa cattolica.
     La questione si riassume in questi termini: può l’organo dei vescovi italiani essere  diretto da un uomo che è stato condannato per molestia e che, soprattutto, è sospettato di essere in una condizione definita dal Catechismo della Chiesa «intrinsecamente disordinata» e «contraria alla legge naturale» (n. 2357)? Poco importa come il fatto sia venuto alla luce. Quel che importa è che il direttore di “Avvenire” non lo abbia mai esplicitamente negato, aggiungendo alla doverosa smentita una altrettanta categorica condanna di ogni comportamento omosessuale.
     Il problema non tocca in alcun modo la vita privata degli uomini politici, e tantomeno dei direttori dei giornali italiani, ma – insistiamo su questo punto perché è centrale – riguarda il direttore di un giornale appartenente alla Conferenza Episcopale Italiana (CEI). La domanda che poniamo alle autorità ecclesiastiche è la seguente: è legittimo invocare il “rispetto della vita privata” in casi come questo?
     Berlusconi, Bossi, Casini, Fini e anche Franceschini, Prodi e Veltroni, sono liberi di comportarsi come vogliono nella loro vita privata. È lecito naturalmente giudicare la coerenza, o l’incoerenza, tra i loro comportamenti pubblici e privati ma, in ultima analisi, per la Chiesa la loro azione pubblica è più importante di quella privata. Per questo è preferibile un uomo politico immorale, ma contrario alla legalizzazione dell’immoralità, ad un altro uomo politico morigerato nella vita privata, ma favorevole a istituzionalizzare l’immoralità nelle leggi e nel costume.
     Ben diverso è il caso di un personaggio designato dalla CEI per un incarico così delicato, quale è quello di essere il portavoce dei vescovi italiani. Per tutti gli incarichi di responsabilità nelle istituzioni ecclesiali, quali direttori di testate cattoliche, professori o insegnanti in università cattoliche o pontificie, rettori di seminari, superiori di ordini religiosi, parroci e vescovi, la Chiesa ha sempre richiesto, e non può cessare di richiedere, una rigorosa coerenza tra la vita pubblica e quella privata. Le ragioni sono molteplici, e anche ovvie.
     In primo luogo la Chiesa non propone solo una dottrina astratta, ma anche modelli di vita, incarnati, nel più alto grado, dalla santità. Non si può pretendere la santità da tutti, ma da tutti si esigono comportamenti, anche privati, non contrari alla legge naturale e cristiana. Quando ciò non accade, ci si trova in una situazione di grave decadenza morale, come spesso è avvenuto nella storia della Chiesa. Questa situazione deve essere contrastata e non subita, o peggio ancora giustificata. E questo, non per mancanza di carità nei confronti delle membra deboli della Chiesa, che rimangono sempre fratelli da amare, ma per l’amore, più alto, che è dovuto in primis alla legge divina e poi a tutta la comunità cristiana che, con fatica, a questa legge cerca di conformarsi.
     Una seconda ragione nasce dallo stretto rapporto intercorrente tra le istituzioni e gli uomini che le rappresentano. Un poliziotto implicato in una rapina danneggia in maniera grave la credibilità della istituzione a cui appartiene. Allo stesso modo chi predica la morale, quando la trasgredisce nei fatti, causa un danno non solo a sé stesso, ma ai princìpi che cerca di trasmettere al prossimo.
     Oggi esiste una violenta offensiva contro la Chiesa, che mira a screditare i suoi rappresentanti, dipinti di volta in volta come pedofili, ladri, corrotti, razzisti, omosessuali, e comunque sempre in contraddizione con i princìpi da loro professati. L’unica replica possibile a questa manovra è la forza della Verità. Se le accuse sono false, vanno smascherate e denunciate. Se sono vere, non bisogna coprire i vizi, e tantomeno trasformarli in virtù, ma occorre estirparli prontamente, sottolineando la distinzione necessaria tra la Chiesa, sempre santa e immacolata, e gli uomini di Chiesa, deboli e fallibili come tutti i mortali. Essi vanno sempre amati, anche quando sbagliano, ma mai giustificati per i loro errori. Che senso ha esprimere loro “stima” e “solidarietà”?
     Vi è ancora una ragione, fondata sul principio secondo cui se non si vive come si pensa, si finisce col pensare come si vive. Oggi la Chiesa è impegnata in una dura battaglia contro il relativismo culturale e morale che aggredisce la società. Questa battaglia esige idee forti, ma anche uomini forti, coerenti con le proprie idee. La pratica del relativismo morale conduce inevitabilmente al relativismo ideologico, minando il fronte di resistenza al nemico. Una delle cause più profonde della debolezza culturale della Chiesa nel mondo, sta oggi proprio nella debolezza morale dei suoi rappresentanti. Ad un posto di responsabilità come quello di direttore del giornale dei vescovi, bisognerebbe designare un cattolico forte e coerente, e non già un uomo di compromesso culturale e morale.
     Se così non fosse, se cioè dovessimo immaginare che la vita privata di un personaggio destinato ad alta carica dai Pastori della Chiesa fosse priva di incidenza sulla sua attività pubblica, dovremmo chiederci perché mai la Santa Sede abbia inviato un congruo numero di visitatori apostolici presso un importante congregazione religiosa, sotto inchiesta per le trasgressioni morali private del suo fondatore. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi. Perché mai le università cattoliche e pontificie dovrebbero chiedere patenti di fede e di morale, pubblica e privata, ai propri docenti? Se si ammette il principio invocato per difendere il direttore di “Avvenire”, le conseguenze per la Chiesa sarebbero devastanti.
     Al di là del disgusto per l’intera vicenda, quel che appare grave ai semplici fedeli, quali noi siamo, non è l’attacco a Dino Boffo di Vittorio Feltri, che in fin da conti fa il suo mestiere di giornalista, ma il silenzio con cui lo scandalo giudiziario è stato fino ad oggi coperto da chi aveva il dovere di intervenire e ha ora quello, impellente, di rimuovere dal suo incarico il direttore di “Avvenire”.
Che Dio illumini i nostri uomini di Chiesa!
2 settembre 2009

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