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Aprile 2010

Colto “in fragranza”
di Salvatore Sfrecola

     Il “profumato” episodio è stato narrato dal TG5 Prima Pagina questa mattina, nel riferire dei disordini di ieri a Napoli provocati dai “Disoccupati Organizzati”, incappucciati, che hanno fermato alcuni autobus di linea danneggiandoli gravemente. L’hanno pure fatta franca, dice il giornale, tutti tranne uno, quello, appunto, colto “in fragranza”, che è stato arrestato.
      Dubito che il disoccupato emanasse un “intenso e gradevole profumo” (Devoto-Oli, Dizionario della lingua italiana, 582).
     È chiaro che l’espressione corretta è “in flagranza”, nel senso che il colpevole dell’atto è stato sorpreso nell’atto di commetterlo.
     Disguidi linguistici che capitano. Stupisce che l’errore sia stato ripetuto in tutti i notiziari dalle 6,00 alle 7,00. Segno che Prima Pagina non la ascoltano neppure quelli che vi scrivono!
30 aprile 2010

“Non vi manchi la fierezza di appartenere a un mondo di servitori dello Stato – ‘soggetti solo alla legge’, fedeli alla Costituzione”
di Salvatore Sfrecola

      Nelle parole del Capo dello Stato ai neomagistrati il senso della delicatissima funzione attribuita a chi è chiamato a rendere giustizia in nome del popolo italiano, in scienza e coscienza, avendo una adeguata preparazione professionale e capacità di giudizio con equilibrio.
     “Servitori dello Stato”, ha detto Giorgio Napolitano, un’espressione usata in tutto il mondo per dire il giudice, soggetto solo alla legge, è qualcosa di più del pubblico dipendente che la Costituzione, all’art. 98, vuole “al servizio esclusivo della Nazione”.
     La magistratura, ha ricordato il Capo dello Stato, “in decenni di vita democratica ha espresso personalità di straordinaria tempra morale, sapienza giuridica, sensibilità umana e sociale, e dato contribuiti inestimabili alla tutela della legalità, dei diritti dei cittadini, delle regole di un ordinato e dinamico vivere civile. E’ un patrimonio che nessuna ombra, nessuna caduta, nessuna contestazione può cancellare o svilire: un patrimonio che voi siete chiamati a raccogliere e che potete salvaguardare e rinnovare se vi sorreggeranno, insieme con il senso della misura, anche lo slancio ideale e l’apertura culturale di cui oggi siete portatori”.
     Ed ha aggiunto: “dipende non poco da voi aprire una nuova pagina, una nuova stagione nelle travagliate vicende della giustizia in Italia”.
     E quanto ai rapporti tra politica e giustizia il Capo dello Stato ha richiamato la necessità di “stemperare le esasperazioni e le contrapposizioni polemiche”. “Rimango convinto, come ho avuto modo di dire più volte, che la politica e la giustizia non possono e non debbono percepirsi come ‘mondi ostili guidati dal reciproco sospetto’. Deve prevalere in tutti il senso della misura, del rispetto e, infine, della comune responsabilità istituzionale, nella consapevolezza di essere chiamati solidalmente a prestare un servizio efficiente, a garantire un diritto fondamentale ai cittadini”.
     “Quella del magistrato – ha sottolineato il Presidente Napolitano – è una funzione che esige equilibrio, serenità e sobrietà di comportamenti. Il suo unico fine è quello di applicare e far rispettare le leggi attraverso un esercizio della giurisdizione che coniughi il rigore con la scrupolosa osservanza delle garanzie previste per i cittadini”. Senza cedere a ‘esposizioni mediatiche’ o indulgere “ad atteggiamenti impropriamente protagonistici e personalistici che possono offuscare e mettere in discussione la imparzialità dei singoli magistrati”.
      “La fiducia che i cittadini ripongono nella magistratura – ha concluso il Presidente Napolitano – si nutre anche della percezione che essi hanno della indipendenza e imparzialità dei singoli magistrati nell’esercizio concreto delle loro funzioni”.
     Parte della stampa si è soffermata soprattutto su questa sollecitazione del Capo dello Stato ai nuovi magistrati. A ben leggere il Presidente della Repubblica ha rimarcato il rilievo della funzione e la sua subordinazione “solo alla legge”, un segnale al Governo ed alla maggioranza intenzionata a portare avanti una riforma, la separazione delle carriere che se attuata sarà motivo di decadenza della funzione punitiva dello Stato oggi affidata ad un Pubblico Ministero assolutamente indipendente e con la cultura della giurisdizione, cioè della terzietà. Forse proprio la maggioranza è stata la destinataria vera del discorso di Napolitano. E i soliti giornali “di famiglia” hanno fatto finta di non capire.
28 aprile 2010

Solo il debito non è federale?
di Salvatore Sfrecola

     Siamo al federalismo demaniale che attribuisce alle regioni i beni del patrimonio dello Stato, in attesa che il federalismo fiscale, in attuazione della riforma costituzionale del 2001 e della legge delega approvata nei mesi scorsi, assegni poteri e risorse.
     Ma non si parla di controlli e di attestazioni di correttezza delle gestioni in funzione del coordinamento della finanza pubblica e in previsione degli interventi affidati al “fondo perequativo” e le “risorse aggiuntive” previsti dall’art. 119 perché il federalismo sia solidale. Non si parla, ad esempio, del ruolo della Corte dei conti, tradizionale organo di controllo e di certificazione della correttezza ed “affidabilità”, secondo il linguaggio europeo dei conti, delle gestioni pubbliche. Una “dimenticanza” sospetta e preoccupante, che fa temere un federalismo zoppo e litigioso tra regioni virtuose e regioni spendaccione.
     Soprattutto non si parla di debito, dacché in un sistema federale è necessario che la partecipazione agli “utili” non escluda quella alle “perdite”. In parole povere, il debito pubblico che l’Italia ha accumulato negli anni anche per le iniziative generose dello Stato centrale nei confronti dell’impreditoria delle regioni che sono state definite la “locomotiva” d’Italia. Locomotiva, certo, alla quale lo Stato, ha fornito il carburante per anni, attraverso incentivi alle imprese all’acquisto di beni (dalle auto ai frigoriferi) e cassa integrazione, quando, come oggi, la produzione stagna e si perdono posti di lavoro. Nè va trascurato che le amministrazioni pubbliche che fanno capo alla tanto vituperata “Roma ladrona” hanno acquistato direttamente beni e servizi, dall’arredo degli uffici “rinnovato” troppo spesso, alle forniture di materiali, dalle matite agli strumenti informatici. Per non dire delle attività generosamente “esternalizzate”.
     In tal modo sono state le pubbliche amministrazioni il vero motore dell’economia privata, soprattutto al Centro Nord ed al Nord Est in particolare.
     Ed ora che la Lega giustamente pretende di passare dal federalismo legislativo e amministrativo  al federalismo fiscale, condizione indispensabile perché decolli l’intero sistema, bisogna fare un po’ i conti e pensare che in una ripartizione giusta non si può solo distribuire risorse e beni ma anche gli oneri che quei vantaggi hanno consentito nel tempo.
     E’ una condizione indispensabile, perché il federalismo sia effettivamente tale, per ripartire, perché la nuova Repubblica metta tutti gli enti territoriali che la compongono allineati al nastro di partenza. Poi correrà di più chi saprà far fruttare meglio le risorse economiche del territorio, dall’industria ai commerci, al turismo, la grande risorsa trascurata dai governi di tutti i colori.
28 aprile 2010

Fini “oppositore” a giorni alterni
di Senator

     La sua storia accanto a Berlusconi ci dice che Gianfranco Fini soffre da sempre della “sindrome di Calimero”, lo sfortunato pulcino di Carosello, prototipo degli sfigati vittime di una sorte contraria. Così l’ex leader dell’ex Alleanza Nazionale, confluito nel Popolo della Libertà, il movimento che, al solo annuncio “dal predellino”, lo aveva visto contrario, al punto da esclamare “siamo alle comiche finali”, si è lasciato incastonare nel seggio più alto di Montecitorio, evidentemente convinto  che quella posizione fosse premiante sul piano politico. E quando ha capito che i suoi uomini più significativi al governo, con esclusione del patetico Ronchi, erano  passati al comando di Berlusconi, ha tentato, come aveva fatto più volte in passato, una sortita, con argomenti buoni, certo, ma per questo non graditi al Cavaliere.
     Nella riunione della Direzione Nazionale del PdL ha messo alcuni paletti in tema di riforme istituzionali, soprattutto chiedendo che siano condivise, e di giustizia, rivendicando la scelta per l’indipendenza dei Pubblici Ministeri.
     Tutto inutile. Ed alla conta i numeri, 172 ad 11, dimostrano che Fini è rimasto solo, come voleva essere, convinto, tuttavia, che autonomia e prestigio istituzionale gli avrebbero assicurato quella prospettiva politica che altri (il suo esempio è Giuliano Amato) si sono conquistati in passato con spessore professionale e solide amicizie “americane”. Al contrario Fini, che nella legislatura 2001 – 2006 non ha saputo crescere sul piano dell’esperienza governativa (inutile lo stereotipato ruolo di Ministro degli esteri), evitata anche nel 2008 quando ha preferito la “vetrina” di Palazzo Montecitorio, è rimasto del tutto isolato.
     Così oggi, dopo aver illuso l’area autenticamente liberale del Centrodestra di saper mostrare i muscoli per difendere lo stato di diritto, accertato che alle sue spalle le truppe sono scarse ha fatto marcia indietro affermando che l’intesa tra tutte le forze politiche non è necessaria, ma opportuna e aprendo alla possibilità di discutere di un “modello italiano” per la riforma istituzionale. Il Presidente della Camera ribadisce che modifiche costituzionali sono possibili anche senza l’opposizione, ma precisa che un’intesa è meglio per evitare la spada di Damocle del referendum. E in tema di Giustizia dice di essere “per la separazione delle carriere dei magistrati, ma senza che i Pm siano alle dipendenze dell’esecutivo”. Una vera e propria ipocrisia, considerato che è in fase avanzata di definizione il disegno di legge che affida ad un nuovo organismo, l'”Avvocato dell’accusa”, il ruolo di Pubblico Ministero. In sostanza l’Avvocatura dello Stato integrata da ex Carabinieri e Poliziotti. Infatti, prevedendo che i magistrati, oggi assegnati a funzioni  requirenti, lo schema di ddl prevede un concorso straordinario per titoli a 1000 posti  di “avvocato dell’accusa” riservato a funzionari delle Forze dell’Ordine. E’ evidente che questa soluzione è sostanzialmente l’anticamera della sottoposizione della funzione del P.M. al controllo dell’Esecutivo. Come l’Avvocatura Generale, che, appunto, è un organo di difesa legale dell’Amministrazione, alle dirette dipendenze della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Del resto non era stato Luigi Mazzella, all’atto del suo insediamento quale Avvocato Generale dello Stato, a suggerire, presente Berlusconi, di affidare la funzione di P.M. all’Avvocatura Generale, trascurando un piccolo particolare, l’Avvocatura rappresenta lo Stato in giudizio il Pubblico Ministero la legge. Ma questa differenza il Cavaliere ha dimostrato di non essere in condizione di coglierla o di non volerla cogliere.
     Chi lo segue o non sa di cosa parla o è in mala fede.
 26 aprile 2010

Le riforme istituzionali da fare: un po’ vero, un po’ alibi
di Iudex

     Che questo paese abbia bisogno di un restying della Costituzione questo giornale lo ha scritto più volte. Come per il bicameralismo “perfetto” non più compatibile con l’assetto federale introdotto dalla riforma del 2001, come dimostrano le attribuzioni legislative delle regioni previste dall’art, 117 della Costituzione. Ugualmente va certamente rivisto il ruolo del Presidente del Consiglio che deve emanciparsi da quella posizione di primus inter pares come lo vede la dottrina prevalente. Con qualche dubbio da parte mia, considerato che egli “dirige la politica generale del governo e ne è responsabile. Mantiene l’unità di indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei ministri” (art. 95, comma 1, Cost.).
     Si potrebbe dare più poteri al Premier. Ad esempio si potrebbe prevedere la sua elezione da parte del popolo, una sorta di premierato forte vicino al cancelleriato tedesco.
     Si possono fare molte cose e sarebbe bene si facessero. Ma, nella realtà, colui che si duole della mancanza di poteri è un Presidente del Consiglio la cui maggioranza, composta sulla base di una legge elettorale che mette nelle mani dei segretari di partito e, quindi del Premier, la scelta dei parlamentari, è di gran lunga la più consistente della storia repubblicana. Eppure deve ricorrere frequentemente ai decreti-legge ed alle mozioni di fiducia per ricompattare i suoi parlamentari che evidentemente non rispettano la disciplina dei Gruppi, forse perché all’interno di essi non vengono assunte decisioni dopo un dibattito che consenta di esprimere un orientamento largamente condiviso.
     In queste condizioni il Presidente del Consiglio avrebbe gli strumenti per governare, a volte con qualche difficoltà, ma comunque efficacemente. I numeri lo dicono, la realtà lo nega. Vuol dire che c’è del malessere nella maggioranza, che, forse, la scelta è ricaduta su chi aveva soprattutto caratteristiche estrinseche, il bell’aspetto, per le donne, la giovane età, per tutti, la fedeltà al capo, al quale va riconosciuto ogni ragione della carriera politica. Che, poi, i candidati (pardon, gli eletti, nel senso di scelti dal capo, cioè di “nominati”) avessero anche un po’ di cultura politica e giuridica, sapessero, almeno, che nel diritto esiste una “gerarchia delle fonti”, questa è una variabile residuale, come abbiamo notato più volte.
     A questo punto il Cavaliere non può lamentarsi della mancata riforma del governo, ma della sua incapacità di gestire un consistente numero di parlamentari, per averli scelti con i criteri di cui sopra.
     E siccome l’uomo ama circondarsi di yes men, come ha scritto poco fa Senator, è inevitabile che i collaboratori del Premier non riescano a governare il complesso meccanismo parlamentare nonostante il numero di deputati e senatori,
     E’, evidentemente, un caso nel quale il numero non fa la forza. Perché manca sempre qualcosa, la qualità delle persone e l’attitudine dei capi a ricoprire quel ruolo.
12 aprile 2010

Gli “aggettivi” delle leggi del Governo
di Senator

     Se è vero quel che scrive oggi Marzio Breda nell’articolo di spalla sul Corriere della sera (“Di nuovo gelo tra il premier e il Quirinale”). secondo il aule Berlusconi avrebbe parlato dello staff di Napolitano come impegnato a “controllare addirittura agli aggettivi” delle leggi del Governo, e non abbiamo motivo di  dubitarlo, il Presidente del Consiglio non sembra consapevole del ruolo del Capo dello Stato nella fase delicata della promulgazione delle leggi. Una fase essenziale, che precede la pubblicazione e l’entrata in vigore della legge, nella quale al Capo dello Stato la Costituzione affida un compito importante in un regime parlamentare e nel quadro di quella leale collaborazione che deve caratterizzare i rapporti tra le istituzioni. Il Governo, infatti, propone disegni di legge, le Camere le approvano dopo un complesso iter parlamentare nel corso del quale possono essere notevolmente emendati, il Capo dello Stato esercita un controllo di legalità, non solo con riguardo alla Costituzione ma anche sulla coerenza del sistema normativo nel suo complesso. In caso il Presidente ritenga che il testo varato dalle Camere sia incostituzionale, incoerente o irragionevole può restituirlo alle Camere con un messaggio motivato invitandole a riesaminarlo e riapprovarlo. In caso il Parlamento approvi nuovamente la legge il Presidente non può che promulgarla a riprova del fatto che la Costituzione ha distinto nettamente i ruoli riservando al Capo dello Stato un compito di vigilanza sulla legislazione ma senza privare le Camere delle loro prerogative. E’ un quadro armonico che sottolinea il carattere parlamentare della Repubblica pur individuando un ruolo di garanzia del Capo dello Stato.
     Sembra evidente che la battuta di Berlusconi, il fastidio che gli procura il controllo del Capo dello Stato, probabilmente da ultimo per effetto del rinvio alle Camere della legge sul lavoro, stia dietro la sua conversione presidenzialista. Che deve far riflettere. Nella Repubblica che immagina il Cavaliere nessuno avrebbe rilevato l’incoerenza del disegno di legge d’iniziativa del Governo, approvato dalle Camere.
     Quanto, infine, alla critica per il controllo degli “aggettivi” , chiunque conosce la lingua italiana sa che essi costituiscono la rifinitura del discorso che nel linguaggio giuridico possono essere essenziali.
12 aprile 2010

L’arte del comando
di Salvatore Sfrecola

     Ricorro al titolo di un bel libro di Francesco Alberoni il quale è tornato oggi a parlarne sul Corriere della Sera (“Le qualità di un buon capo e di una leadership di gruppo”) nell’ambito della sua settimanale Rubrica Pubblico & Privato.
     Il capo, il “buon” capo è colui che sa utilizzare il suo potere per le finalità istituzionali, di un’impresa commerciale, se è questo il suo ruolo, o della comunità, se, eletto dal popolo, direttamente o meno, ha responsabilità dello sviluppo economico e sociale di tante persone insediate in un territorio, lo Stato, la Regione, la Provincia, il Comune. Così come il capo di un’azienda “deve essere capace di intuire che cosa può interessare i consumatori”, il leader politico deve capire “che cosa desiderano intimamente gli elettori e come parlare loro per convincerli”. Alberoni mette in risalto come per scoprire cosa chiedono i consumatori o i cittadini “non bastano le ricerche demoscopiche o di mercato… occorre una visione del mondo, una comprensione profonda dell’animo umano, e percepire lo spirito dei tempi e la direzione del mutamento”.
       Naturalmente, come ricordo spesso parlando di buoni e cattivi consiglieri, i capi non possono agire da soli e la loro capacità è anche, e soprattutto, quella di saper scegliere i loro collaboratori, non per amicizia o fedeltà cieca, ma competenza professionale ed onestà intellettuale, due requisiti che mancano agli yes men, quei personaggi pericolosissimi, che però piacciono tanto ad alcuni capi i quali si ingegnano per intuire ciò cha il capo desidera, per accontentarlo e riceverne ulteriori favori, indipendentemente dal fatto che l’intuizione sia effettivamente conforme alle esigenze del ruolo istituzionale. Un esempio di yes men deleteri  l’ho fatto ripetutamente con riferimento a coloro che consigliano il Premier in materia di giustizia e di rapporti istituzionali che spingono o non frenano il Cavaliere quando prende certe posizioni nei confronti delle istituzioni, dal Presidente della Repubblica alla Corte costituzionale alla Magistratura che, in bocca al Capo del Governo, cioè al primo rappresentante della istituzione “potere esecutivo” hanno un sapore sostanzialmente eversivo dell’ordine costituzionale. Il quale, ovviamente, può essere cambiato, come la Costituzione prevede, in caso di inadeguatezza del ruolo di questa o di quella istituzione, ma non perché, nell’esercizio delle attribuzioni proprie, la Corte costituzionale, ad esempio, dichiara non conforme alla Carta fondamentale una legge che al Premier sta a cuore o perché il Capo dello Stato invita le Camere con un messaggio motivato a rivedere una legge sul lavoro, per molti versi confusa, come ha ripetutamente sostenuto uno che se ne intende il Prof. Pietro Ichino.
     In questa aggressione alle istituzioni il Presidente del Consiglio è evidentemente consigliato o non dissuaso dai suoi consiglieri, politici e giuridici i quali non vogliono perdere il posto. E questa è la prova della incapacità del capo di scegliere i propri collaboratori perché un buon capo deve ricercare persone con senso critico sviluppato, le quali siano in condizione, quanto meno, di richiamare la sua attenzione sulla necessità di riflettere su una iniziativa, sia un disegno di legge o una esternazione.
     E’ la caratteristica di tutti gli autocrati, sempre personalità di rilievo, molte volte incapaci di farsi consigliare, i quali inevitabilmente finiscono per passare alla storia più per gli errori che per le cose buone che necessariamente fanno. Dividono nettamente l’opinione pubblica e gli storici tra favorevoli e contrari, una condizione che, in vita, li esalta, tanto da teorizzare il rilievo che alla loro azione assicura l’opposizione, come nel mussoliniano “molti nemici molto onore”. E’ una semplificazione che la storia non ammette dacché ai capi, da sempre, è affidato il perseguimento di obiettivi che, nel caso di un uomo pubblico, si chiamano “bene comune”. Se questo obiettivo non è raggiunto e magari neppure perseguito, prevalendo interessi personali o di lobby, quel personaggio rischia di passare nel ricordo dei più come il capo di una fazione o di un clan.
12 aprile 2010

Conta più l’annuncio che i risultati
di Senator

     “Quello che conta ai suoi occhi è la portata mediatica dell’operazione, più che il risultato finale”. Con questa frase ieri, su Il Sole 24 Ore, Stefano Folli ha dato corpo ad una diffusa sensazione (“Il premier mostra di tenere più al nucleare che al presidenzialismo”) sull’attivismo riformatore di Silvio Berlusconi, quella che, come al solito, il Cavaliere faccia politica con gli annunci che puntualmente ripropone aggiungendo qualche variabile. Tanto se poi Bersani o qualche altro esponente della sinistra fa notare che ha realizzato poco o niente gli italiani hanno abbondantemente dimostrato di credere soprattutto agli annunci.
     Così a a Parma, dinanzi all’assemblea della Confindustria, il Presidente del Consiglio imprenditore  ha ribadito che il suo obiettivo è modernizzare l’Italia. Ma stavolta la Marcegaglia gli ha dato un termine. A maggio, all’assemblea generale degli industriali, lo ha invitato a portare fatti concreti, stanziamento di miliardi per la ripresa. Ma forse in quell’occasione Silvio Berlusconi si varrà del “legittimo impedimento” e c’è da star certi che manderà qualcun altro a prendersi la reprimenda  dei suoi colleghi imprenditori. A meno che non si presenti con un altro annuncio rinviando ancora misure concrete per la ripresa dinanzi ad una crisi che l’Italia ha affrontato meglio di altri. Tanto confronti non sono possibili alla gente comune. Come le altre affermazioni che ha il 62 per cento di gradimento, il più alto dei Presidenti del Consiglio dei paesi europei, o che è il migliore dei centocinquant’anni della storia d’Italia. Tanto Cavour, Giolitti, Mussolini, De Gasperi, Fanfani, Craxi, ecc. non possono smentire.
     Ma torniamo all’annuncio di Parma ed alle valutazioni di Folli. Agli industriali Berlusconi ha detto che l’Italia sarà modernizzata non avrà più l’oppressione della burocrazia, del fisco e della magistratura.
     Riforme istituzionali niente, come dice Folli. E c’è da dubitare dell’annuncio perché il fardello della burocrazia sui cittadini e sulle imprese non è stato alleggerito nei lunghi anni dei Governi Berlusconi, perché la pressione fiscale, nonostante i ripetuti annunci (dal 1994) non è diminuita e soprattutto è squilibrata in presenza di una rilevante evasione fiscale. Quanto alla magistratura ormai gli italiani hanno capito che il problema del Cavaliere è personale e dipende dalla sua attività di imprenditore, come dimostra l’ultima indagine sui diritti televisivi, e non riguarda gli italiani che attenderanno  ancora anni prima di avere giustizia in sede penale e civile.
     Sulla burocrazia, quando avremo la possibilità di fare il punto sulla riforma Brunetta capiremo che, al di là degli annunci, si è fatto poco o niente di concreto per la gente. Quanto al fisco, poi, ilo Ministro Tremonti che ha annunciato la riforma tributaria non è quello che aveva detto pochi mesi fa, smentendo il Premier, che non è tempo, che bisogna prima uscire dalla crisi, dimenticando che dalla crisi di esce “anche” con una intelligente riforma fiscale.
     Oggi il Ministro dell’economia una riforma non “platonica”. Anche questo è un annuncio. Ed è certo che ne avremo a iosa da oggi a prima delle elezioni del 2013, mentre il balletto delle riforme istituzionali rischia di essere l’ennesima presa in giro degli italiani Berlusconi non vuole farle sotto l’incalzare della Lega e non vuole seguire le indicazioni di Gianfranco Fini, quello spilungoni che il Cavaliere non ha mai sopportato perché, come lui, è bravo nella comunicazione e, come lui, dietro l’annuncio non ha idee. Uno scontro nel vuoto pneumatico.
     Ma soprattutto Berlusconi non vuol coinvolgere nelle riforme l’opposizione alla quale non intende riconoscere, agli occhi degli italiani, un minimo contribuito nell’eventuale revisione della Costituzione.
      Se il Premier volesse veramente passare dalle parole ai fatti avrebbe la possibilità di portare avanti una riforma tutto sommato facile e sperimentata, il premierato forte “alla tedesca”, compatibile con la natura parlamentare della nostra Repubblica, lasciando il ruolo di garante al Capo dello Stato, una figura autorevole, eletta con ampio concorso delle forze politiche, che non è bene eliminare “per il bene dell’Italia”!
11 aprile 2010

Riforme istituzionali, come e perché
di Salvatore Sfrecola

     Di riforme istituzionali, cioè di interventi sulla Costituzione diretti a cambiare l’ordinamento e le attribuzioni di alcune istituzioni od ordini, il Governo, il Parlamento, la Magistratura, si parla da moltissimi anni, in pratica dall’indomani dell’entrata in vigore (1948) della nostra Carta fondamentale. Ne parlano gli studiosi, che hanno messo in risalto alcuni limiti, come il bicameralismo “perfetto” e gli insufficienti poteri del Presidente del Consiglio, di una Costituzione che pure ha grandissimi pregi, e ne parlano i politici, ciclicamente, nei momenti di difficoltà del Paese. Per alcuni l’esigenza di riforme è un alibi rispetto al fallimento delle politiche, per altri è la necessità di contare di più.
     Sul tappeto sono stati messi tutti i problemi di funzionamento delle istituzioni. Nel corso di tre Commissioni Bicamerali, la Commissioni Bozzi, la Iotti e la D’Alema è stato arato profondamente il terreno. I politici e gli studiosi sono stati indotti a fare le loro proposte, spesso traendo spunto da esperienze estere viste in Italia a volte con l’occhio benevolo di chi se ne è innamorato per la definizione che ne è data dalla stampa, indipendentemente dai problemi che un certo assetto istituzionale pone. Così si parla di presidenzialismo all’americana o di semipresidenzialismo alla francese, trascurando di considerare la diversità delle esperienze degli ordinamenti presidenziali e semipresidenziali e le caratteristiche del sistema politico italiano, cioè del modo di essere dei partiti e dei movimenti politici nel nostro Paese, per l’ovvia, ma trascurata considerazione, che le istituzioni vivono nella realtà dei vari paesi, per cui la cosiddetta “costituzione materiale” in molti casi vale più di quella “formale”, perché il concreto atteggiarsi delle istituzioni integra la norma giuridica e la rende viva e vitale.
     Il dibattito, dunque, si sviluppa e si arricchisce di un tema che, già alcuni giorni fa, Giovanni Sartori sul Corriere della Sera (Presidenzialismi vari e sbagliati) ha ricordato essere essenziale alle riforme istituzionali, il sistema elettorale.
     Sartori esordisce dicendo che si riferisce ai “presidenzialismi (al plurale) perché ne esiste più di uno, ai quali si aggiungono poi presidenzialismi fasulli inventati dall’ignoranza dei politici e dal pressappochismo crescente dei giornalisti”. E precisa che, ovviamente, non basta che il Capo dello Stato sia eletto dal popolo per definire una repubblica “presidenziale”. Aggiunge, “in Irlanda, Islanda e Austria, per esempio, il capo dello Stato è eletto direttamente ma i presidenti in questione sono «di facciata» (cito il politologo francese Maurice Duverger, che se ne intende)”.
     Le preferenze di Sartori vanno per il semi-presidenzialismo di tipo francese, ma in ogni caso – ricorda – in tutte le democrazie che funzionano “il sistema elettorale è parte integrante e costitutiva dell’edificio”.
     Altra opzione è quella, facilmente realizzabile nel contesto della Costituzione vigente è il “cancellierato” di tipo tedesco. Il sistema rimane parlamentare ma il premier è dotato di maggiori poteri che assicurano la governabilità del Paese. In ogni caso il sistema elettorale – conveniamo ancora con Sartori – “è ugualmente decisivo e dovrebbe restare così come è in Germania: proporzionale con sbarramento al 5% non aggirabile mediante alleanze elettorali truffaldine”.
     Gli argomenti per discutere ci sono tutti ed è certo che ne sentiremo ancora altri  nei convegni di giuristi e nelle assise dei politici. Purtroppo spesso, troppo spesso, il motivo di fondo che alimenta il dibattito è la convenienza di questo o quel sistema per questo o quel partito. E’ naturale che ognuno faccia i conti sugli effetti della riforma per la sua parte politica e per la sua capacità di realizzare le scelte che la caratterizzano. Sarebbe, comunque, opportuno che tutti guardassero un po’ in là, al bene comune, cioè agli interessi del Paese e delle generazioni a venire. Per dirla con De Gasperi dovrebbero tutti ragionare da statisti e non da semplici politici, quelli che guardano alle prossime elezioni e non alla prossima generazione.
     Ne torneremo a parlare di riforme istituzionali, seguendo il dibattito con qualche “modesta proposta per governare” l’Italia degli anni a venire.
11 aprile 2010

ATAC: pagososta con multa – 2
di Salvatore Sfrecola

     Seguito della vicenda ATAC di cui ho scritto l’8 aprile. Recuperando la e-mai che mi aveva dato notizia che la mia utenza era stata “riattivata” chiamo alle more 13,37 il Contact Center Atac al numero 06.57003 (lunedì-sabato 08.00 – 20.00). Ricevo un “benvenuto Roma servizi per la mobilità” e digitando il n. 2 senti squillare il telefono, uno squillo e la comunicazione s’interrompe, come se qualcuno avesse abbassato la cornetta. Riprovo una seconda volta un paio di minuti più tardi ed a qualche squillo subentra il silenzio.
     Riprovo, stavolta mi risponde una addetta al servizio, la Signora o Signorina Anna, alla quale spiego, richiamando la e-mail, che mi aveva comunicato la riattivazione del servizio, che il messaggio    “Pagososta – impossibile attivare la sosta: classe tariffaria di attivazione della sosta inesistente” mi era parsa poco comprensibile.
     Per Anna non è così. Sono io che non ho capito. Per certi versi ha indubbiamente ragione: “impossibile attivare la sosta” non lascia dubbi. Propendo per qualche disguido e già mi acqueto quando mi viene spiegato che in realtà sono cambiate le tariffe per cui avrei dovuto modificare il mio “profilo”. ATAC aveva comunicato la circostanza. Sta di fatto che questo non è avvenuto per cui la mia riattivazione è virtuale, anche perché, avendo riattivato la mia utenza in data 2 febbraio 2010 avrei potuto essere tempestivamente, anche nell’occasione, del mutamento della classe tariffaria, che secondo Anna sarebbe avvenuto a gennaio, quindi prima dell’e-mail, con indicazione degli adempimenti a me richiesti.
     Nulla di tutto questo. Naturalmente nella discussione Anna non ha pensato, avendo io detto di non aver ricevuto nessuna comunicazione, di pronunciare la parola “scusa”, che ci stava benissimo, sia pure a titolo di mera cortesia. Non essendo evidentemente lei responsabile del disguido avrebbe potuto chiudere la conversazione con la classica frase di cortesia: “sarà stato un disguido, sa sono tanti gli abbonati, può accadere, comunque ce ne scusiamo”.
     Niente di tutto questo, anzi si è un po’ innervosita ed io con lei perché di devo ancora raccontare la premessa di tutta questa vicenda. Di quasi un anno fa. Alla prossima puntata.
     E continuo a chiedermi che cosa significa “la Sua utenza è stata riattivata”?
10 aprile 2010

ATAC: pagososta con multa – 1
di Salvatore Sfrecola

     Disavventure di un povero automobilista.
     Ecco la cronaca. Sono abbonato al Pagososta, il servizio di ATAC, gestore dei parcheggi a pagamento del Comune di Roma, che consente di corrispondere la tariffa nelle aree delimitate dalle strisce blu mediante invio di un messaggio vuoto al numero di un cellulare messo a disposizione dalla medesima ATAC; 3424112586. Periodicamente ATAC provvede all’esazione della tariffa mediante pagamento delle varie utilizzazione del servizio. Nel mio caso ho indicato una carta di credito VISA.
     Non avevo avuto occasione di utilizzare il servizio da quando è stato ripristinato, cioè da quando ho ricevuto una mail da infopagoposta@atac.roma.it in data 2 febbraio 2010, ore 18,24. Il testo del messaggio “Gentile Cliente, in riferimento alla Sua e-mail Le comunichiamo che la Sua utenza è stata riattivata”.
     A distanza di poco più di due mesi torno ad utilizzare l’utenza “riattivata”, questa sera alle ore 20,09, avendo parcheggiato l’auto in via Ludovisi.
     Ricevo un messaggio di risposta nel quale, anziché precisare che il sistema è stato correttamente attivato, come di consueto, si legge “Pagososta – impossibile attivare la sosta: classe tariffaria di attivazione della sosta inesistente”. Frase sibillina, considerato che avevo riattivato il servizio dopo una lunga corrispondenza con ATAC.
     Ne ho dedotto, evidentemente sbagliando, che forse non era orario di sosta a pagamento. Così ho lasciato l’auto sul parabrezza della quale ho trovato, poco più di due ore dopo, un modulo di contravvenzione per aver sostato “senza esporre titolo di pagamento”.
     Di chi la ragione?
     E’ certo che se io ricevo da ATAC la comunicazione che il servizio è stato “riattivato” devo desumere che sia effettivamente così e che dopo la sospensione dovuta alla brillante iniziativa del Sindaco Alemanno di annullare la sosta a pagamento il servizio sia stato riattivato come prima.
     Niente da fare. Si tratta solo di 36,00 euro ma il cittadino non può essere impunemente preso in giro e se ci sono incompetenti vanno licenziati lo preveda o meno la legge Brunetta.
     Adesso è tardi 23,50) e vado a letto, ma desidero raccontare ai lettori di Un Sogno Italiano questa vicenda cui seguirà l’illustrazione di quel che mi era capitato prima della sospensione della sosta. Alla prossima puntata. Un raro esempio di improntitudine e di inefficienza.
8 aprile 2010

Gli orrori della guerra tra impreparazione e fatalità
di Caesar

     Il telegiornale ha appena riproposto, avviene da stamattina, la tragica scena dell’elicottero Apache che mitraglia ignari personaggi, tra cui un reporter, scambiati per combattenti, forse perché un teleobiettivo può somigliare ad un lanciarazzi.
     Una brutta figura di militari appartenenti all’esercito più forte del mondo dei quali si intuisce lo scarso addestramento che, complice la tensione di una guerra che è soprattutto una guerriglia, induce ad errori. E mi torna in mente una bella trasmissione televisiva di qualche settimana fa quando Edward N. Luttwak, esperto di storia e strategia, si è diffuso su una descrizione dell’organizzazione dell’esercito romano che avrebbe dovuto inorgoglire tutti gli italiani.
     Luttwak ha iniziato con una affermazione importante, l’esercito di Roma era fatto “per non combattere”. Cioè era una formidabile macchina da guerra che per essere tale incuteva rispetto nei possibili avversari e li induceva ad evitare lo scontro. Si vis pacem para bellum, infatti, vuol dire che uno stato forte non viene aggredito. La storia, d’altra parte, insegna che le guerre scoppiano quando uno dei contendenti è convinto di poter facilmente vincere, magari perché l’avversario si è disarmato, come le potenze occidentali arretrate ripetutamente a fronte delle prepotenze di Hitler. Basta rileggere, in proposito, la Storia della Seconda guerra mondiale di Winston Churchill per capire come Inghilterra e Francia abbiano fatto ritenere, mentre riducevano i contingenti militari, di non essere pronte combattere. D’altra parte Mussolini diceva sovente che quello inglese era l’ultimo esercito del mondo, un modo sciocco di argomentare perché denigrando l’avversario si sminuisce il senso dell’eventuale vittoria. Sicché Churchill potè dire alla Camera dei comuni, all’indomani della capitolazione dell’Italia che l’ultimo esercito del mondo aveva battuto il penultimo.
     Ma torniamo a Luttwak. L’esercito romano, diceva nell’occasione, era forte perché ben addestrato. Ha ricordato, infatti, che il fante romano veniva inviato in linea  dopo due anni di addestramento. Due anni per tirare l’arco, per usare il gladium e per lanciare il pilum, armi efficientissime ed adatte al combattimento di quei tempi. Il gladium corto e robusto, che spaccava gli scudi, adatto al combattimento corpo a corpo, il pilum pesante e affilato che li trapassava.
     E qui la sconsolata conclusione di Luttwak. I romani addestravano i loro milites per due anni mentre gli americani reclutano a gennaio soldati che dopo tre mesi vanno a combattere in Irak e in Afghanista. Anche in questo sta la ragione delle tragiche immagini che abbiamo visto oggi in televisione.
     Una conclusione ulteriore. Abituati a flagellarci come italiani, quasi con un complesso d’inferiorità, non teniamo conto della nostra storia, di queste peculiarità dell’esercito romano, nel quale, tra l’altro, scarse erano le morti per malattia, in ragione di un efficientissimo servizio sanitario, quando fino alla prima guerra mondiale su un caduto in combattimento due morivano di malattie. Si pensi alla guerra di Crimea, nella quale i bersaglieri morirono soprattutto di tifo e dissenteria.
     Quanti argomenti per riflettere sull’oggi e sul domani d’Italia!
6 aprile 2010

Sollecitazione di Napolitano
Protezione civile e basta!
di Iudex

     “La Protezione Civile – ha detto il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano nell’ambito del suo messaggio di “solidarietà e vicinanza” alla popolazione dell’Abruzzo ad un anno dal terremoto – costituisce un sistema complesso – al cui vertice si colloca l’apposita struttura costituita presso la Presidenza del Consiglio dei ministri e presente anche capillarmente sul territorio – destinato ad interagire con le altre istituzioni pubbliche centrali e locali, per mobilitare e integrare tutte le energie e le competenze che occorre coinvolgere nelle situazioni di emergenza. Un modello organizzativo – ha proseguito il Capo dello Stato – sviluppatosi e progressivamente perfezionatosi a partire dagli anni ’90, dotato di poteri eccezionali e che ha raggiunto livelli di straordinaria efficienza, riconosciuti anche a livello internazionale. Un modello che è chiamato a fronteggiare le calamità naturali e ad esse deve dedicarsi, senza disperdersi in altre direzioni di intervento pubblico per ovviare alle lentezze di procedure ordinarie non ancora rinnovate e semplificate come è necessario da tempo”.
     Preciso, consapevole del ruolo svolto nelle emergenze, il Presidente della Repubblica offre un riconoscimento forte, a nome di tutti gli italiani,  alla struttura della Presidenza del Consiglio dei ministri – il Dipartimento della Protezione civile – che deve provvedere alle emergenze, assistendo le persone e mettendo in sicurezza immobili e il territorio.
     Ma in un Paese nel quale le emergenze sono conseguenza assai spesso di incuria di decenni se non di secoli il Capo dello Stato ha intendere che la Protezione civile non debba “disperdersi” nell’organizzazione e gestione di “eventi” previsti e programmati da tempo che possono bene essere oggetto di intervento delle strutture ordinarie dello Stato e degli enti pubblici locali.
     In sostanza la Protezione civile, che ha creato, in collaborazione con le Forze Armate e le istituzioni scientifiche del Paese un sistema di monitoraggio del territorio il cui assetto, soprattutto sul piano idrogeologico,  è fortemente precario e fa temere e prevedere nuove disgrazie, dagli effetti di altri terremoti alle conseguenze di  possibili inondazioni, considerata lo scadente  controllo del corso dei fiumi, un tempo oggetto di attenta vigilanza da parte delle strutture periferiche del Ministero dei lavori pubblici, quando il mitico assistente idraulico vigilava lungo i fiumi che non si creassero le condizioni per esondazioni, quali accumuli di materiali, soprattutto di legname, che ostruiscono anse e pericolosamente si accumulano sotto i ponti.
     C’è da fare, dunque, nel silenzio della quotidianità e nell’impegno dell’ordinaria amministrazione, quella che non piace ai politici, perché non fa notizia, non appare, ma è essenziale per la prevenzione dei disastri e delle emergenze. L’equilibrato intervento del Capo dello Stato è consapevolezza del ruolo dell’amministrazione, la grande forza dei governi e dei popoli, ingiustamente ignorata dai politici di questa stagione di personalità modeste, distratte da interessi effimeri, quando non illeciti.
6 aprile 2010

C’è terremoto e terremoto,
ma soprattutto c’è prevenzione e prevenzione
di Salvatore Sfrecola

      Un terremoto di magnitudo 7,2 Richter – riferisce l’ANSA – ha colpito la Bassa California, tra Stati Uniti e Messico: una vittima. La scossa, la più forte registrata nella California meridionale dal 1969 ad oggi e seguita da 18 repliche, è stata avvertita a San Diego, Los Angeles, Las Vegas e addirittura a Phoenix, in Arizona, a centinaia di chilometri dall’epicentro, localizzato in territorio messicano. La Cnn ha dato notizia di una persona morta a Mexicali.
     Stanotte a l’Aquila sarà ricordato il terremoto che esattamente un anno fa ha colpito il capoluogo abruzzese. Le vittime sono state 308, i danni immensi hanno portato fuori delle loro case distrutte o inabitabili decine di migliaia di persone.
     Il sisma fu di magnitudo 6,4.
     Certo il livello della magnitudo da sola non è sufficiente a delineare le conseguenze di un terremoto. Vi sono altre variabili come la distanza dall’epicentro, la natura del terreno, ecc.
     Ma una cosa è certa in quei paesi, come la California o il Giappone, dove i terremoti sono frequenti e di rilevante intensità,  da tempo esistono tecniche di costruzione antisismiche e si fanno rispettare. In Italia il desiderio di risparmiare sui costi di costruzione, la tolleranza degli enti preposti al controllo fanno sì che le norme siano ampiamente eluse o non imposte.
     Per far sì che le norme antisismiche siano rispettate occorrerebbe che le autorità procedessero ai controlli ed imponessero l’adeguamento degli immobili alle nuove regole, ove introdotte a seguito del progresso della scienza. In assenza sarebbe bene che lo Stato e gli enti locali non intervenissero a finanziare la ricostruzione degli immobili di chi ha violato la legge.
     Ma il primo a violare le leggi è lo Stato se è vero che, mentre la Prefettura è crollata alla prima scossa, alcuni palazzi storici dell’Aquila restaurati con rispetto della normativa antisimica hanno retto alla scossa.
5 aprile 2010

Dopo il voto delle regionali 2013, Bossi a  Palazzo Chigi
di Senator

     I risultati delle elezioni del 18-28 marzo ci hanno consegnato uno scenario politico nuovo, destinato inevitabilmente ad avere conseguenze negli anni a venire, soprattutto alla scadenza del 2013, quando torneremo a votare per il Parlamento nazionale.
    E’ la Lega il vero vincitore delle elezioni, la Lega con la sua coerenza, con i suoi amministratori attenti alle esigenze della gente, mediamente più capaci di quelli messi in campo dal Partito della Libertà nelle sue componenti di Forza Italia e Alleanza Nazionale, costituite prevalentemente da amministratori improvvisati, spesso attenti più agli affari affari della lobby di riferimento che agli interessi della comunità. La gente se ne è accorta ed ha premiato Bossi ed i suoi uomini dando al Carroccio una forza determinante al Nord, dove è il primo partito, ed una presenza significativa al Centro, con prospettive di affermazione anche al Sud.
     E’ facile, dunque, immaginare che nel 2013 la Lega, come primo partito della maggioranza, rivendichi la guida del Governo, con Bossi o, forse, con Maroni che, come uomo di governo, al Ministero dell’interno, ha dimostrato di avere quel senso delle istituzioni di cui sono gravemente carenti molti degli uomini e delle donne che sono scesi in campo con Berlusconi e Fini.
     La difesa degli interessi delle comunità, nella gestione dell’immigrazione, non respinta ma apprezzata se regolare, la vicinanza alle tematiche del mondo cattolico (oggi Giannelli sul Corriere della Sera propone l’immagine di una guardia svizzera pontificia che proietta l’ombra del monumento ad Alberto di Giussano), che poi significa il sentire medio della popolazione italiana, come dimostrano i consensi che la Lega ha guadagnato a sinistra, sottraendolo all’incerto Bersani con nostalgie veterocomuniste, come abbiamo visto a Sanremo quando ha salutato con il pugno chiuso, dimostrano che il partito del Nord ha assunto una configurazione nazionale percepita dagli elettori. In sostanza ha saputo crescere, guidata da giovani che hanno una lunga prospettiva politica, che toglie spazio a Casini ed al suo tentativo di immaginare un terzo polo capace di condizionare i due schieramenti.
     Bossi a Palazzo Chigi darebbe a Berlusconi la certezza di salire al Quirinale a coronamento della sua “avventura” politica. Per cui l'”antipolitico”, che piace all’italiano medio che ama l’immagine più della sostanza, che ne apprezza la spregiudicatezza, la lotta alle pastoie burocratiche ed ai burocrati che le gestiscono, che contrasta a muso duro i magistrati verso i quali gli abitanti del Bel Paese non hanno mai mostrato soverchie simpatie perché istituzionalmente destinati a richiamarli all’ordine, riceve consensi in misura razionalmente non spiegabile.
     Le cose vanno così ed è bene tenerne conto, senza pensare alle ideologie, alla storia dei partiti, ai filoni del pensiero politico, dei quali tutti si fanno platealmente beffa.
     Attenzione, però, perché l’italiano cambia facilmente opinione, quando ne ha l’occasione per eventi esterni. Mussolini aveva raggiunto l’apice della sua popolarità, come riconoscono anche i più convinti antifascisti, dopo lì’impresa di Etiopia, tanto che non aveva opposizione neppure all’interno del partito e dello Stato. Nessuno avrebbe potuto ostacolarlo e nessuno ha tentato. Neppure il Re che notoriamente era contrario alle leggi sulla razza, come disse al Duce mettendosi tra i quindicimila che, secondo Mussolini, non condividevano l’iniziativa. Una popolarità perduta a seguito di una guerra disastrosa che se avesse studiato un po’ di storia, come ebbe a dire Vittorio Emanuele III, non avrebbe intrapreso. Infine, messo alla porta in virtù di una legge, quella sul Gran Consiglio del Fascismo che il Duce aveva voluto per dominare la Monarchia anche condizionandone la successione al trono.
     La storia è imprevedibile e la crisi economica potrebbe essere la guerra perduta di Berlusconi, non di Bossi che, con molta attenzione per i problemi delle aree del Nord industriale, ha dimostrato senso di realismo.
     Anche il federalismo fiscale, necessario, perché il federalismo o è fiscale o non è, potrebbe essere una buccia di banana per il premier, per l’inevitabile disagio che, almeno all’inizio, verrà alle regioni del Sud.
     In ogni caso la Lega è destinata ad essere un punto di riferimento maggioritario, la Democrazia Cristiana dell’inizio del terzo millennio.
4 aprile 2010

In margine alla polemica sulla lettera di un “amico ebreo” a Padre Cantalamessa
Chi ha subito più persecuzioni?
di Salvatore Sfrecola

     A quarant’otto ore dalla polemica, che ha interessato i giornali di mezzo mondo, tentiamo una riflessione serena sulla vicenda della “lettera di un amico ebreo” a Padre Raniero Cantalamessa, letta in San Pietro durante la celebrazione dei riti del Venerdì Santo, nella quale si l’amico del cappuccino dice di seguire “con disgusto l’attacco violento e concentrico contro la Chiesa, il Papa e tutti i fedeli da parte del mondo intero. L’uso dello stereotipo – prosegue – il passaggio dalla responsabilità e colpa personale a quella collettiva mi ricordano gli aspetti più vergognoso dell’antisemitismo”.
     “Il parallelo tra le persecuzioni contro gli ebrei e gli attacchi subiti dal papa e dalla Chiesa cattolica per gli scandali dei preti pedofili è forte”, ha scritto sul Corriere della sera di ieri Gian Guido Vecchi. E tale l’hanno considerato soprattutto ambienti ebraici. “Un parallelo improprio, una caduta di gusto “, ha detto il Rabbino Capo di Roma, Di Segni. “E’ ripugnante, osceno e soprattutto offensivo nei confronti di tutte le vittime degli abusi così come nei confronti di tutte le vittime della Shoah”, è il commento del Segretario generale del Consiglio degli ebrei tedeschi, Stephan Kramer: “sinora non ho visto San Pietro bruciare né ci sono stati scoppi di violenza contro i preti cattolici. Sono senza parole. Il Vaticano sta tentando di trasformare i persecutori in vittime”. Per il Centro Wiesenthal “queste affermazioni ingiuriose sono state fatte in presenza del papa e il Papa stesso deve chiedere scusa”.
     E’ sufficiente per comprendere che, al di là dell’affermazione, certamente inopportuna, concreta è la sensazione che si stia sviluppando un sentimento anticattolico dalle conseguenze al momento imprevedibili, una sensazione della quale quanti hanno subito la più grande persecuzione della storia conclusasi con una strage di una efferatezza senza precedenti dovrebbero avere piena consapevolezza. Le persecuzioni nascono quando si diffonde un’opinione che demonizza un popolo, l’appartenenza ad una religione. Si comincia generalizzando,  quando si passa, come ha scritto la lettera incriminata, “dalla responsabilità e colpa personale a quella collettiva”, per additare una comunità all’odio della gente.
     Del resto i cristiani hanno subito e subiscono persecuzioni non di poco conto, nella fase di affermazione della nuova religione in contrasto con il paganesimo dell’Impero romano, poi dall’inizio dell’espansione musulmana che ha provocato massacri di massa nelle regioni dell’Africa settentrionale già cristiane, a cominciare dall’Egitto. Hanno subito i massacri che hanno caratterizzato le invasioni dei paesi dell’Europa balcanica fin sotto le porte di Vienna. Ed oggi, giorno dopo giorno, le cronache danno conto di chiese bruciate in India, di comunità cristiane sterminate in Sudan. Pochi giorni fa un cristiano che non si voleva convertire è stato bruciato vivo.
     Sono persecuzioni di serie “B”?
     Ma veniamo alla vicenda dei preti pedofili. sono, evidentemente, responsabilità e colpe personali, anche quando fossero state coperte dalle autorità locali. Ma l’evidente tentativo di trasformare questa responsabilità, che va fatta valere all’interno della Chiesa e nelle aule dei Tribunali non può diventare “collettiva”, né dei cristiani né della Chiesa. Sarebbe una violazione palese e gravissima del principio della personalità della responsabilità penale o disciplinare.
     Il tentativo di criminalizzare la Chiesa è evidente e sfrutta un argomento importante e di grande presa sull’opinione pubblica, il tradimento dei preti pedofili rispetto al ruolo di sacerdoti e di educatori. Colpisce la funzione educativa della Chiesa, il suo ruolo di assistenza spirituale fin dalla prima età, per fare dei bambini e delle bambine  affidate alla Chiesa dei cittadini dotati di sentimenti di spiritualità fedeli nel mondo secolarizzato del nostro tempo. Ma anche di preparazione culturale e professionale attraverso le scuole cattoliche.
     C’è, dunque, il sospetto che di fronte alla ripresa di attenzione per l’insegnamento fornito dalla scuola cattoliche e per una evidente ripresa della pratica religiosa dovuta molto all’azione evangelica di Benedetto XVI, al suo richiamo severo alle regole, si stia tentando di far passare nell’opinione pubblica la tesi che la responsabilità e le colpe personali che il Papa è impegnato ad affermare possano consentire l’affermazione di una responsabilità collettiva, dell’intera comunità cattolica, complice anche come reazione alle conversioni che si sta sviluppando laddove sono presenti forti comunità protestanti.
      In queste condizioni sono giustificabili preoccupazioni da parte del mondo cattolico. O forse dobbiamo aspettare che la torcia umana del cristiano che non voleva convertirsi all’Islam si accenda anche a Roma, magari sul sagrato di San Pietro?
     Questa graduatoria delle persecuzioni religiose, che traspaiono da alcune delle dichiarazioni delle comunità ebraiche di cui abbiamo riferito mi sembrano oggettivamente esagerate, anche perché, rileggendo la lettera dell’amico ebreo di Padre Cantalamessa, l’autore non aveva fatto confronti ma semplicemente affermato che certi attacchi indiscriminati, “il passaggio dalla responsabilità e colpa personale a quella collettiva” ricordano “gli aspetti più vergognoso dell’antisemitismo”. Forse che i pogrom nella storia e le persecuzioni naziste non sono state sempre precedute da campagne diffamatorie delle comunità che ci si stava preparando a sterminare?
     Forse la frase dell’ebreo “amico” non è stata felice, ma le reazioni sono state esagerate, come quella di pretendere che il Papa chieda scusa. O forse ha disturbato che quelle cose le abbia scritte un “amico ebreo”?
4 aprile 2010

Dopo il “messaggio” alle Camere sulla legge delega in materia di lavoro
Napolitano e il ruolo di garanzia del Capo dello Stato in sede di promulgazione delle leggi (pro memoria per chi pensa alla Repubblica Presidenziale)
di Salvatore Sfrecola

     È passata un po’ in sordina, nel dibattito sui risultati delle elezioni regionali, il messaggio con il quale il Capo dello Stato ha chiesto alle Camere, a norma dell’articolo 74, primo comma, della Costituzione, una nuova deliberazione in ordine alla legge trasmessagli per la promulgazione il 3 marzo 2010 la legge recante: “Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro”.
     In particolare non è stato messo in risalto nei commenti della stampa il ruolo del controllo di costituzionalità che spetta al Presidente della Repubblica in sede di promulgazione della legge. Un ruolo essenziale di garanzia, proprio degli stati parlamentari, che in caso di trasformazione della Repubblica in senso presidenziale dovrà essere altrimenti collocato, ad esempio con attribuzione ad un organo tecnico, ad esempio al Consiglio di Stato, una forma di controllo preventivo di legittimità costituzionale che non escluda la valutazione del provvedimento sotto il profilo della legislazione nel suo complesso nei confronti della quale la nuova legge possa costituire, al di là della naturale funzione innovativa, un elemento di dissonanza che ne possa pregiudicare l’applicazione e gli effetti.
     Il provvedimento, ricorda il Presidente della Repubblica “ha avuto un travagliato iter parlamentare nel corso del quale il testo, che all’origine constava di 9 articoli e 39 commi e già interveniva in settori tra loro diversi, si è trasformato in una legge molto complessa, composta da 50 articoli e 140 commi riferiti alle materie più disparate”. Una configurazione, prosegue il messaggio, “marcatamente eterogenea – che risulta, del resto, dallo stesso titolo – è resa ancora più evidente da una sia pur sintetica e parziale elencazione delle principali materie oggetto di disciplina: revisione della normativa in tema di lavori usuranti, riorganizzazione degli enti vigilati dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali e dal Ministero della salute, regolamentazione della Commissione per la vigilanza sul doping e la tutela della salute nelle attività sportive, misure contro il lavoro sommerso, disposizioni riguardanti i medici e professionisti sanitari extracomunitari, permessi per l’assistenza ai portatori di handicap, ispezioni nei luoghi di lavoro, indicatori di situazione economica equivalente, indennizzi per aziende in crisi, numerosi aspetti della disciplina del pubblico impiego (con conferimento di varie deleghe o il rinvio a successive disposizioni legislative), nonché una ampia riforma del codice di procedura civile per quanto attiene alle disposizioni in materia di conciliazione e arbitrato nelle controversie individuali di lavoro”.
     Il Presidente Napolitano ricorda di aver “altre volte occasione di sottolineare gli effetti negativi di questo modo di legiferare sulla conoscibilità e comprensibilità delle disposizioni, sulla organicità del sistema normativo e quindi sulla certezza del diritto; nonché sullo stesso svolgimento del procedimento legislativo, per la impossibilità di coinvolgere a pieno titolo nella fase istruttoria tutte le Commissioni parlamentari competenti per ciascuna delle materie interessate. Nel caso specifico l’esame referente si è concentrato alla Camera nella Commissione lavoro e al Senato nelle Commissioni affari costituzionali e lavoro, mentre, ad esempio, la Commissione giustizia di entrambi i rami del Parlamento ed anche la Commissione affari costituzionali della Camera sono intervenute esclusivamente in sede consultiva e non hanno potuto seguire l’esame in Assemblea nelle forme consentite dai rispettivi Regolamenti. Tali inconvenienti risultano ancora più gravi allorché si intervenga, come in questo caso, in modo novellistico su codici e leggi organiche”.
     “Ciò premesso – con l’auspicio di una attenta riflessione sul modo in cui procedere nel futuro alla definizione di provvedimenti legislativi, specialmente se relativi a materie di particolare rilievo e complessità – sono indotto a chiedere alle Camere una nuova deliberazione sulla presente legge dalla particolare problematicità di alcune disposizioni che disciplinano temi di indubbia delicatezza sul piano sociale, attinenti alla tutela del diritto alla salute e di altri diritti dei lavoratori: temi sui quali – nell’esercizio del mio mandato – ho ritenuto di dover richiamare più volte l’attenzione delle istituzioni, delle parti sociali e dell’opinione pubblica”.
      Il Capo dello Stato si riferisce specificamente “all’articolo 31 che modifica le disposizioni del codice di procedura civile in materia di conciliazione ed arbitrato nelle controversie individuali di lavoro e all’articolo 20 relativo alla responsabilità per le infezioni da amianto subite dal personale che presta la sua opera sul naviglio di Stato”. La norma, nei primi nove commi, “modifica in modo rilevante la sezione prima del capo primo del titolo quarto del libro secondo del codice di procedura civile, nella parte in cui reca le disposizioni sul tentativo di conciliazione e sull’arbitrato nelle controversie individuali di lavoro (artt. da 409 a 412-quater del codice di procedura civile), introducendo varie modalità di composizione delle controversie di lavoro alternative al ricorso al giudice. Apporta inoltre, negli ultimi sette commi, una serie di modifiche al decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, dirette a rafforzare le competenze delle commissioni di certificazione dei contratti di lavoro”. Il Presidente apprezza l'”introduzione nell’ordinamento di strumenti idonei a prevenire l’insorgere di controversie ed a semplificarne ed accelerarne le modalità di definizione” ma ritiene necessario “verificare attentamente che le relative disposizioni siano pienamente coerenti con i princìpi della volontarietà dell’arbitrato e della necessità di assicurare una adeguata tutela del contraente debole”, secondo l’insegnamento della Corte Costituzionale che ha “dichiarato la illegittimità costituzionale delle norme che prevedono il ricorso obbligatorio all’arbitrato, poiché solo la concorde volontà delle parti può consentire deroghe al fondamentale principio di statualità ed esclusività della giurisdizione (art. 102, primo comma, della Costituzione) e al diritto di tutti i cittadini di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi (artt. 24 e 25 della Costituzione)”. Inoltre, ricorda Napolitano, “con riferimento ai rapporti nei quali sussiste un evidente, marcato squilibrio di potere contrattuale tra le parti, la Corte ha riconosciuto la necessità di garantire la “effettiva” volontarietà delle negoziazioni e delle eventuali rinunce, ancora una volta con speciale riguardo ai rapporti di lavoro ed alla tutela dei diritti del lavoratore in sede giurisdizionale”. Linea giurisprudenziale ripresa e sviluppata dalla Corte di Cassazione.
      Per cui nel Presidente “non può non destare serie perplessità la previsione del comma 9 dell’art. 31, secondo cui la decisione di devolvere ad arbitri la definizione di eventuali controversie può essere assunta non solo in costanza di rapporto allorché insorga la controversia, ma anche nel momento della stipulazione del contratto, attraverso l’inserimento di apposita clausola compromissoria: la fase della costituzione del rapporto è infatti il momento nel quale massima è la condizione di debolezza della parte che offre la prestazione di lavoro. Del resto l’esigenza di verificare che la volontà delle parti di devolvere ad arbitri le controversie sia “effettiva” risulta dalla stessa formulazione del comma 9, che affida tale accertamento agli organi di certificazione di cui all’art. 76 del citato decreto legislativo n. 276 del 2003. Garanzia che peraltro non appare sufficiente, perché tali organi – anche a prescindere dalle incertezze sull’ambito dei relativi poteri, che scontano più generali difficoltà di “acclimatamento” dell’istituto – non potrebbero che prendere atto della volontà dichiarata dal lavoratore, una volta che sia stata confermata in una fase che è pur sempre costitutiva del rapporto e nella quale permane pertanto una ovvia condizione di debolezza”.
     Il Presidente manifesta “ulteriori motivi di perplessità” su vari aspetti della legge, in particolare su una norma, definita interpretativa, che”non interpreta? ma apporta ? una evidente modificazione integrativa”, tra l’altro incidendo su su una legge delega che ha già esaurito la sua funzione.
     Il Governo, per bocca del Ministro Sacconi, ha manifestato disponibilità a sollecitare in Parlamento la modifica della legge.
     Al di là del caso specifico, a me preme sottolineare in questa occasione, il ruolo di garanzia del Capo dello Stato in sede di rinvio delle leggi alle camere, una attribuzione della quale i Presidenti hanno fatto uso sempre con grande misura e marcato rispetto delle prerogative parlamentari e la rilevata farraginosità della legislazione che caratterizza questa stagione dell’attività parlamentare, nella quale spesso le norme vengono confezionate fuori delle Camere, nelle segreterie dei partiti e nelle direzioni sindacali nonché nelle stanze del potere economico. Tutte queste sedi posso ben essere propositive rispetto ad iniziative parlamentari e governative ma le Camere devono essere consapevoli del loro ruolo di legislatori secondo l’indirizzo politico emerso in sede elettorale e nel rispetto dei diritti delle persone e della funzione delle istituzioni.
4 aprile 2010

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