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Maggio 2010

A proposito della manovra
Marcegaglia: l’ho riletta,va aggiunta parola “crescita”
di Oeconomicus

     Intervistata al termine dell’assemblea di Bankitalia, a proposito dell’invito del Presidente Berlusconi di “rileggere” i testo della manovra, il Presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, ha detto: durante “Si, l’ho riletta” e ‘la nostra posizione, che viene fuori anche da quanto ha detto oggi il governatore, e’ che la manovra affronta la riduzione della spesa pubblica, lo fa con 24 miliardi, e riporta i saldi di bilancio al punto in cui era necessario”; ma – spiega – “a questo vanno aggiunte due cose, ossia ridefinire i limiti, i confini della spesa pubblica, che negli ultimi sei anni è cresciuta di sei punti di pil, e pensare anche alla crescita e, quindi, a investire in produttività, ricerca, e innovazione”. Insomma, vanno bene “i tagli alla spesa”, ma è necessario “tornare a parlare del tema della crescita”.
     Alla Marcegaglia “é piaciuto il richiamo alla lotta all’evasione fiscale. E’ un grande tema – ha aggiunto – su cui lavorare, non per coprire i buchi dei conti pubblici ma in prospettiva per abbassare le aliquote fiscali che, per chi paga le tasse, sono troppo alte.
     Gli industriali, dunque, continuano ad essere perplessi sulla manovra. Il “gelo” nei confronti del Premier che la stampa ha potuto constatare in occasione della recente assemblea di Confindustria permane e le ragioni ci sono tutte. Siamo di fronte ad una manovra monca che non interviene sullo sviluppo, che non contiene misure capaci di incentivare la produzione ed i consumi. In sostanza è una rozza manovra di contenimento della spesa, nella quale “Il ragionier Tremonti”, come si è sentito ripetere nei saloni di Palazzo Kock, non ha mostrato fantasia, non ha saputo interpretare a fondo il ruolo di Ministro dell’economia, quello che hanno saputo fare i colleghi di Francia e Germania che, a misure di contenimento della spesa hanno collegati significati interventi in favore della ripresa dell’economia.
     Manca la parola “crescita”, come dice Emma Marcegaglia. Non solo la parola, ovviamente, che di parole questo Governo ne ha dette fin troppo in economia, a cominciare da quelle che nei mesi scorsi ci hanno illuso che fossimo i più virtuosi d’Europa, ma i fatti, le misure atte a rilanciare produzione e consumi. Ma in questo settore non ci sono fondi.
31 maggio 2010

I magistrati verso lo sciopero

     (AGI) – Roma, 31 mag. – Magistrati verso lo sciopero. Contro la manovra economica del governo. Lo ha confermato il presidente della ANM Luca Palamara dopo un incontro a Palazzo Chigi tra l’Associazione nazionale magistrati e il sottosegretario alla Presidenza Gianni Letta. “Abbiamo preso atto – ha detto Palamara al termine dell’incontro – della conferma dei tagli che erano stati annunciati. Fino a questo momento per senso di responsabilità, avevamo congelato ogni iniziativa ma ora convocheremo il nuovo Consiglio direttivo e siamo pronti allo sciopero e anche ad altre forme di protesta alternative allo sciopero”. “I magistrati – ha aggiunto Palamara – vogliono fare la loro parte in un momento così difficile per il Paese ma è grave che si preveda che chi guadagna di più paghi di meno. E’ inaccettabile essere considerati un costo e non una risorsa.
  Ora basta, faremo sciopero ed altre forme di lotta”.

P.S. In data odierna anche il Consiglio Direttivo dell’Associazione Magistrati della Corte dei conti ha votato un ordine del giorno nel quale delibera lo sciopero della categoria rinviando la decisione in ordine alla proclamazione dello sciopero ed alle sue modalità ad un successivo accordo con le altre associazioni dei magistrati amministrativi (TAR Consiglio di Stato) ed ordinari.

Compitino per gli studenti del II anno di giurisprudenza
Quale Consiglio dei ministri ha approvato il decreto legge alla firma del Capo dello Stato?
di Salvatore Sfrecola

     Nella bagarre di questi giorni, all’inseguimento del testo più verosimile tra i tanti pubblicati dai giornali, mi sono chiesto più volte se, una volta definito il testo di quello che possiamo ritenere una bozza di decreto legge approvato dalla Consiglio dei ministri nella seduta del 25 maggio, prima della firma del Capo dello Stato non sarebbe stato necessario un nuovo passaggio in Consiglio dei ministri.
     I decreti legge, ai quali il Governo ricorre, ai sensi dell’articolo 77, comma 2, della Costituzione nei casi “straordinari di necessità ed urgenza”, sono deliberati dal Consiglio dei ministri in base all’articolo 92, comma 1, della Costituzione e secondo le disposizioni dell’articolo 2, comma 3, lettera c) della legge 400 del 1988.
     I decreti sono emanati dalla Presidente da Repubblica in base alla disposizione costituzionale dell’articolo 87, comma 5, della Costituzione. Il potere di controllo presidenziale viene riconosciuto anche sui decreti legge. Lo ha spiegato alla Corte costituzionale con la sentenza 406 del 1989.
     Il tema all’attenzione, un compitino per gli studenti del secondo anno di giurisprudenza, i quali affrontano lo studio del Diritto costituzionale, è quello della corrispondenza tra il testo approvato dal Consiglio dei ministri e quello sul quale il Capo dello Stato appone la sua firma nell’esercizio di quel controllo di costituzionalità che portò, ad esempio, il Presidente della Repubblica Scalfaro a respingere il decreto legge di depenalizzazione del finanziamento illecito ai partiti, all’epoca di Tangentopoli ( 5 marzo 1993).
     Posto che l’urgenza della decretazione esige naturalmente i tempi ristrettissimi, ed essendo logico che i partiti, le parti sociali e infine il Presidente da Repubblica possono fare delle osservazioni che inducano il governo a delle modifiche è logico ritenere che l’originaria deliberazione del Consiglio dei ministri non sia idonea a sorreggere formalmente il testo che il Capo dello Stato sottoscrive perché non è quello deliberato dal Consiglio dei Ministri, momento procedimentale essenziale nell’iter di formazione del decreto.
     È un problema a teorico, diranno, molti lettori, ma è un problema giuridico perché qualche giudice che ritenesse di sollevare una questione di costituzionalità rispetto ad alcune norme del decreto-legge potrebbe rilevare, altresì, che il testo pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale non risulta identico a quello deliberato dal Consiglio dei Ministri e che deve essere allegato alla verbale del Consiglio stesso.
     Ho detto una questione teorica, perché probabilmente nessuno la solleverà mai ma a fini didattici ritengo che gli studenti del secondo anno di giurisprudenza potranno esercitarsi su questa ipotesi di illegittimità costituzionale per giungere alla conclusione che le regole a volte, di recente troppo spesso, vengono manomesse.
31 maggio 2010

Io, magistrato della Corte di cassazione
e la manovra economica
(Da “Il Messaggero” del 29.5.2010 – http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=104177&sez=HOME_MAIL)

     “Sono un consigliere della Terza Sezione Civile della Corte di cassazione e sto per compiere 54 anni. Sono entrato in carriera nel marzo del 1983. Questa settimana, a causa delle notizie sul trattamento che la manovra fiscale vorrebbe riservare ai magistrati, ho lavorato con profonda amarezza.
     Io, come quelli del mio concorso, mi troverei nella seguente condizione: il prossimo 19 marzo 2011 maturerei 28 anni di anzianità e, pertanto, dovrei essere valutato dal C.S.M; se dovessi ricevere una valutazione positiva, avrei diritto ad una progressione economica, funzionale anche a ragguagliare il mio trattamento a quello dei magistrati amministrativi con equivalenti condizioni di servizio. Invece, sento dire che, in forza di questa manovra (a parte il previsto prelievo del 5% o del 10% sullo stipendio e l’esclusione dell’adeguamento stipendiale agli aumenti già dati al pubblico impiego nel triennio precedente), se sarò valutato positivamente, mi sarà sì conferito il relativo titolo, ma non l’aumento di stipendio.
     Nella stessa condizione si troveranno i colleghi che, a far tempo dal 2011, dovranno subire valutazioni di professionalità, a cominciare da quelli più giovani. Anche a loro sarà conferito il titolo se valutati positivamente e, per la valutazione, dovranno prima presentare una domanda, un’autorelazione, i titoli. Tutto questo, però, senza corrispettivo. Io, come gli altri colleghi che si vedranno riconosciuta la progressione solo “per la gloria”, mi troverò a lavorare con quei colleghi che hanno conseguito entro il 2010 la stessa valutazione, ma sarò pagato di meno.
     Sono entrato in magistratura, provenendo da una famiglia di modesta condizione economica, perché credevo nel valore sociale del mestiere di magistrato. Sono arrivato giovane in Corte di cassazione (nel 2004), per concorso, e sono sempre stato soddisfatto ed entusiasta del mio lavoro (non altrettanto delle condizioni in cui si svolge, ma questo richiederebbe un discorso a parte).
     Nella mia carriera ho sempre dato tanto al “mestiere”, lavorando sempre anche di sabato e, spessissimo, di domenica, senza limiti d’orario (e qualcuno voleva metterci pure i “tornelli”!). Lo stimolo di lavorare in cassazione (la Suprema Corte!), così come la forte motivazione di far fronte all’arretrato (ad esempio, in civile la Corte riceve 30.000 ricorsi all’anno) per rispondere alle esigenze dei cittadini, ha spinto me e i miei colleghi a lavorare a ritmi ormai difficilmente sostenibili. Tanto che quelli più anziani hanno preferito collocarsi in pensione, lasciando la Corte scoperta di oltre cento unità, ossia di circa un terzo del suo organico.
     Ora sono inquieto. Ho moglie e figli a carico e la mia è una famiglia monoreddito. Certo, non sono un impiegato, né un operaio. Sono consapevole che essi avranno preoccupazioni maggiori delle mie.
     Non so, però, se sarà giusto continuare a lavorare ai ritmi attuali. Non so se sarà giusto sacrificare – come ho sempre trovato “naturale” per il “mestiere” di magistrato, perché così insegnatomi dai colleghi più anziani con cui ho lavorato e lavoro – due terzi, e talvolta più, delle mie ferie, senza esservi tenuto per dovere di ufficio.
     Credo oggi di interpretare i sentimenti dei miei colleghi; per questo ho vinto il mio naturale riserbo di magistrato, spinto anche dalla notizia che un mio validissimo e noto collega di sezione, di dieci anni più anziano di me e con quaranta anni di servizio, proprio oggi si è dimesso dalla Magistratura”.
 Raffaele Frasca
Consigliere della Corte di cassazione

P.S. Pubblico integralmente la lettera del Consigliere Frasca perché offre, con serena dignità e grande senso dello Stato, una testimonianza del disagio dei magistrati italiani dinanzi alla manovra economica all’esame del Presidente della Repubblica, ultimo disconoscimento del lavoro di chi è chiamato ad amministrare la Giustizia, dopo gli insulti pressoché quotidiani del Premier e l’aggressione del quotidiano “di famiglia”, Il Giornale, diretto da un grande giornalista che invecchiando comincia piegare la schiena assumendo sempre più il ruolo di portavoce del Cavaliere.
     Ieri titolava I giudici arrestano la finanziaria, con un articolo di Alessandro Salustri, un giornalista che si è fatto notare per il livore e la totale assenza di serenità con cui interviene nelle trasmissioni televisive. Nell’occhiello “Minacce e ricatti: i magistrati non vogliono ridursi i lauti compensi neppure di un euro. Alla fine la spunteranno, sostenuti da sinistra e Quirinale che apre un braccio di ferro col governo. E poi parlano di equità sociale nei tagli”.
     Sono parole che si commentano da sole. Più realisti del re, si diceva una volta. Più cavallerizzi del Cavaliere si deve dire oggi di questi giornalisti, una casta potente e lautamente pagata, vicina alla politica  che è in condizione di cucire sugli “altri” etichette di ogni genere purché gradite all’editore “di riferimento”.
     Ha proprio ragione Longanesi, con la frase che campeggia in alto, sulla prima pagina di questo giornale, “non è la libertà che manca, mancano gli uomini liberi!”.
Salvatore Sfrecola
31 maggio 2010

La spesa pubblica non va demonizzata
ma razionalizzata in relazione alle esigenze
della comunità nazionale
di Oeconomicus

     Ricorre sovente in questi giorni, nei quali il dibattito sulla crisi finanziaria internazionale preoccupa i governi e l’Unione europea per la tenuta dell’euro, il richiamo all’esigenza della diminuzione della spesa pubblica alla quale con il decreto legge, che peraltro non ancora visto la luce, il governo intende porre rimedio, tra l’altro, mediante i famigerati “tagli lineari”, cioè con quella riduzione dei capitoli di spesa che percentualmente colpiscono tutti i ministeri ed enti pubblici nella stessa misura. Famigerati perché la medesima riduzione percentuale degli stanziamenti di bilancio evidentemente non ha gli stessi effetti su tutti gli enti destinatari di questo intervento.
     Nel complesso, tuttavia, pur richiamandosi sovente sprechi che si annidano in varie amministrazioni ed in varia misura, la polemica sulle dimensioni della spesa pubblica non appare definita in termini di razionalità con sostanziale negazione del ruolo dell’operatore economico  Stato e degli enti pubblici da intendersi quale strumento di gestione dei servizi pubblici e di sollecitazione dell’economia.
     È evidente, infatti, che la spesa dello Stato e degli enti pubblici locali e istituzionali non ha come finalità esclusiva o prevalente quella di pagare gli stipendi, ma di mettere a disposizione della comunità, dei cittadini e delle imprese, strutture amministrative destinate a fornire servizi il cui costo nella maggior parte dei casi costituisce anche una sollecitazione per l’economia del Paese. La spesa pubblica che si distingue in spesa di funzionamento di investimento è in entrambi i casi una preziosa sollecitazione nei confronti dell’economia. Infatti, se i servizi resi dalla pubblica amministrazione nelle attività amministrative, nell’istruzione, nella sanità costituiscono un vantaggio prezioso per il cittadino e le imprese, le spese di investimento in opere pubbliche gestione e manutenzione del patrimonio mettono a disposizione della comunità nazionale infrastrutture importanti per le attività economiche e produttive. Inoltre questi interventi di spesa sono sollecitatori di forniture nei confronti della pubblica amministrazione, forniture rilevanti le quali attivano sul mercato o produzioni spesso importanti. Si pensi per un attimo che le pubbliche amministrazioni acquistano di tutto sul mercato interno e internazionale, dalle matite ai cannoni, tutti i beni e i servizi dei quali le amministrazioni si servono solo uno strumento di sollecitazione di attività produttive che altrimenti troverebbero un mercato assai più ridotto.
     Questo profilo della spesa pubblica, espressione della funzione economica della pubblica amministrazione è quasi sempre trascurato. Nelle polemiche contro “Roma ladrona”, ad esempio, si dimentica che molte imprese del Nord non avrebbero un mercato se non ci fosse l’operatore pubblica amministrazione in veste di acquirente. Anzi una nota teoria economica attribuisce alla spesa pubblica, nei momenti di crisi economica, il ruolo di volano dell’economia, quando il potere politico si dedica alla costruzione di reti infrastrutturali, oggi anche di carattere tecnologico che, oltre a costituire una utilità per le persone e le imprese, mette in moto un meccanismo di lavoro e forniture destinato a restituire tono all’economia nazionale.
      Naturalmente questa nostro riflessione presuppone che le dimensioni della spesa siano compatibili con l’esigenza di non aumentare il debito e che, quanto alla qualità, la spesa sia idonea a perseguire quegli obiettivi di sviluppo che ad essa vengono assegnati, senza sprechi, senza inutili interventi e trascurino le effettive esigenze dell’economia dei servizi sociali.
     Da questo punto di vista la polemica di questi giorni, anzi la polemica che da tempo conducono alcune forze politiche e in particolare la Lega a un certo o contenuto di validità in quanto la selezione della spesa pubblica con criteri di efficienza di efficacia e di produttività non sembra preoccupare molto gli odierni governanti i quali evidentemente non sono in condizione di fare una selezione, tagliando inesorabilmente quel che non produce e non produrrà, destinando le non rilevanti risorse verso quegli settori nei quali vi è una esigenza di carattere sociale da soddisfare e produzioni da sollecitare.
    Alla luce di queste riflessioni la manovra che si preannuncia appare assolutamente inadeguata, non riferita ad interventi strutturali cioè ad individuare riforme organizzative e procedimentali capaci di ridurre i costi dell’apparato, ma indirizzata a ridurre la spesa pubblica attraverso un risparmio a carico delle retribuzioni dei dipendenti pubblici, mentre le preannunciate riduzioni dei trattamenti economici retributivi della casta appaiono poco più che virtuali è comunque in idonei a costituire una somma di un qualche rilievo nell’ambito delle misure complessivamente destinati, sembra, a recuperare oltre 25 miliardi di euro.
     Insufficiente appare anche la ribadita necessità di colpire l’evasione fiscale alla quale si provvede in quasi tutti i paesi civilizzati norme di AN e aumento dei controlli che pure vanno fatti ma attraverso delle disposizioni tributarie le quali dissuada no all’evasione, ad esempio mettendo in posizione di conflitto virtuale i  contribuenti, ad esempio mediante delle forme di deduzione di spese che mettano in evidenza il percettore di un reddito che potrebbe essere occultato. Tutta la vicenda delle somme non fatturate dimostra che il nostro fisco non ha individuato, cosa che potrebbe fare agevolmente prendendo spunto da ordinamenti stranieri sperimentati, forme di documentazione di attività e di redditi che impediscano di fatto l’evasione.
     Ognuno di noi si è sentito dire dall’impresa che fa i lavori di manutenzione, dal piccolo muratore che ristruttura un bagno per passare ai prestatori di opere ed ai professionisti, medici e dentisti, eccetera, che la parcella è di una certa dimensione ma sarebbe inferiore se il cliente rinuncia alla ricevuta del pagamento. Questo ragionamento che fa intravedere nel soggetto che spende un vantaggio in assenza della possibilità di utilizzare in qualche modo la prova della spesa per ridurre i suoi oneri fiscali e il reddito consumato, è la dimostrazione palese che il fisco non ha capito che le deduzioni non sono fatte a scopo pietistico, come per le spese sanitarie, ma corrispondono ad una modalità di individuazione dei percettori di reddito mediante, come già accennato, l’introduzione di un conflitto di interessi fra chi paga e chi percepisce una certa somma. È evidente, infatti, che se io fossi nella condizione di dedurre sia pure in misura diversa, da uno a 100, le spese che effettuo a vario titolo io chiederei sempre la fattura e tutti chiederebbero sempre la fattura. Ma se quella somma rimane a carico del contribuente nonostante sia stata trasferita ad un altro operatore, a sua volta contribuente, è evidente che non c’è possibilità di evidenziare il reddito e di comprimere l’evasione.
     Le conclusioni di queste brevi riflessioni, che hanno preso spunto da un’antica e ricorrente polemica in ordine alle dimensioni della spesa pubblica, e che c’hanno consentito di fare qualche considerazione sul sistema fiscale delineano un quadro sul quale prima o poi un governo serio dovrà mettere mano per non continuare a subire gli effetti negativi, politici e finanziari, di un’evasione che si dice sia dell’ordine di oltre centomila miliardi.  Per non dire delle somme accertate e non riscosse per effetto di un contenzioso tributario farraginoso che non tutela, se non altro per i tempi di definizione dei giudizi, i contribuenti onesti.
     Per dirla tutta, siccome ci rifiutiamo di ritenere che il governo non sia in condizione, avendo strumenti adeguati a disposizione, di individuare le aree di spreco, il fatto che non si intervenga la dice lunga su certe contiguità tra la classe politica e coloro che sono responsabili di queste zone grigie dell’amministrazione.
29 maggio 2010

Chi ha visto il decreto legge?
La manovra fantasma
di Salvatore Sfrecola

     Si rincorrono sui giornali e nelle e-mail che intasano la posta elettronica delle amministrazioni pubbliche interessate ai tagli. Ma il decreto legge non vede la luce perché, si mormora nei corridoi dei palazzi del potere, è soggetto a modifiche, molto diverse da quegli aggiustamenti o intese che generalmente accompagnano nel linguaggio dei comunicati stampa del Consiglio dei ministri la notizia dell’approvazione di provvedimenti di una certa complessità e di controversa definizione.
     Questa situazione che, con espressione abusata, è d’uopo definire kafkiana, solo per non qualificarla sul piano giuridico quale atto inesistente, se non allegato al verbale del Consiglio dei ministri del 25 maggio, è un vero e proprio giallo politico-istituzionale, considerato che nel comunicato stampa si legge che “il Consiglio ha approvato un decreto-legge che contiene misure finalizzate alla stabilizzazione finanziaria e alla competitività economica”. Ha approvato un decreto legge, non delineato i contenuti di un futuro decreto-legge. In parole povere, trasparenza e correttezza istituzionale vorrebbero che il testo fosse conosciuto o conoscibile. Da questo punto di vista al di là del profilo strettamente giuridico, direi procedimentale, dell’iter formativo del decreto legge, è chiaro che si è pervenuti alla predisposizione del provvedimento urgente senza una preventiva, adeguata valutazione degli effetti delle misure che il governo ritiene essenziali nell’attuale momento congiunturale. Il sostanza, l’attuale situazione dimostra, senza possibilità di smentita, che il complesso delle misure immaginate non ha scontato un’adeguata valutazione dell’impatto non tanto finanziari ma sociale e, in fin dei conti, politico cui guarda con crescente apprensione il Presidente del Consiglio il quale sente scendere rapidamente il grado di consenso sul quale ha costruito il suo successo politico ed elettorale.
     La situazione conferma quel rilevante grado di inadeguatezza rispetto alle esigenze, soprattutto se caratterizzate da un significativo livello emergenziale, dei responsabili politici e degli staff tecnici che li supportano.
     Significa che manca il monitoraggio della situazione finanziaria, per cui le mia provocatoria proposta di abolire la Ragioneria generale dello Stato, e degli andamenti dell’economia che ogni governo, sulla base anche delle rilevazioni statistiche, ha il dovere di effettuare sistematicamente.
     In sostanza un governo degno di questo nome non dovrebbe essere  colto impreparato di fronte a fenomeni che si vanno delineando in un consistente arco di tempo, mai da un giorno all’altro, mai imprevedibili, come la crescita del debito rispetto al PIL che richiede misure adeguate per rientrare nei limiti del “patto di stabilità”. Non siamo, infatti, di fronte ad una emergenza naturale, di quelle capaci di sconvolgere un paese in modo tale da non avere più punti di riferimento nei dati economici e finanziari del giorno prima.
     Questo è lo scenario che denuncia l’improvvisa concitazione con la quale si corre ai ripari dopo aver detto e ripetuto giorno dopo giorno, con una insistenza per la verità sospetta, che tutto andava bene, che il governo aveva provveduto alle persone e alle imprese, mentre cresceva la disoccupazione e chiudevano ,una dopo l’altra, centinaia di imprese, soprattutto nel Nord prospetto e innovativo.
     Si è perso tempo, è certo. Troppo tempo. Si dice che è accaduto anche in altri paesi, che anche Francia e Germania sono state costrette ad assumere misure drastiche, anche per cifre superiori a quelle indicate nella manovra “approvata” il 25 maggio.
     La differenza, a leggere i giornali italiani specializzati e la stampa francese e  tedesca, sta nel fatto che quei governi hanno approfittato dell’occasione di misure straordinarie a sostegno dell’euro, per intervenire sulla struttura della spesa pubblica e sulla sua capacità di incidere sullo sviluppo economico e sui costi sociali delle rispettive comunità. Differenza non da poco, anzi essenziale a dimostrazione che in quelle realtà la classe politica, assistita da organismi governativi di prim’ordine, è in condizione di valutare programmare e decidere per il bene del paese. mentre la tecnica italiana replica rozze manovre del passato, come quei tagli “lineari” che certifica l’incapacità di separare il grano dal loglio, la spesa utile dallo spreco. Per mancanza di elementi conoscitivi? O per incapacità politica di imporre scelte razionali? In ogni caso il taglio “lineare” è intrinsecamente ingiusto, perché colpisce indiscriminatamente e nella stessa misura, per cui per alcune amministrazioni i tagli non ha alcun effetto concreto, mentre per altre potrebbero essere tombali. Così come il concetto di “ente inutile”, destinato alla soppressione o all’accorpamento, significa molto spesso ente del quale non è compresa la funzione o che quella realtà istituzionale non ha trovato un “Lord protettore”.
     Un quadro deprimente, di fronte al quale cresce la rabbia degli italiani, certamente disponibili a sacrifici, purché non siano richiesti dall’incapacità dei governanti.
28 maggio 2010

OSSERVATORIO EUROPEO
GRECIA, EURO, EUROPA: HAMILTON CERCASI
di Europeus

      “Nessun paese, infatti, sia pur minimamente informato su quella che e’ la natura della nostra struttura politica, e’ tanto sciocco da stipulare negli accordi che concedono agli Stati Uniti privilegi di una qualche importanza quando, da parte sua, deve sempre prospettarsi l’eventualità che i singoli stati dell’Unione violino gli impegni assunti dall’Unione stessa”.
 (Alexander Hamilton,  Il Federalista, saggio 22 ” i difetti della confederazione”)
       Se ha ragione Hamilton, le misure che l’Unione europea ha deciso non ci allontaneranno da altri calici amari. Ma prima arrivano, meglio e’. Perché solo così, l’attuale stato politico ed economico dell’Unione europea farà il salto verso l’assetto federalista. Hic Rhodus, hic saltus.
     Il Consiglio Ecofin ed il Fondo Monetario Internazionale hanno deciso un pacchetto di misure per complessivi 750 miliardi di euro – dando vita ad un meccanismo denominato per ora di ” Stabilizzazione Finanziaria Europea ” – hanno  firmato il ” creditor agreement ” per la Grecia, e  si sono impegnati per la prima erogazione alla Grecia con scadenza  19 maggio 2010.
     L’art. 122.2 del Trattato UE in vigore è stato utilizzato per  la prima volta. La decisione comprende: 60 miliardi di euro a forte condizionalità, nel contesto del supporto UE/FMI;  440 miliardi di euro come ” Special Purpose Vehicle ” dell’UE a complemento dei primi 60; 250 miliardi di euro  come facility del FMI.
      In questo contesto la Banca Centrale Europea ha comunicato che a partire dal 10 05 2010: a) condurrà interventi sul mercato del debito pubblico e privato dell’euro-area; b) riattiverà le operazioni di provvista di liquidità in dollari USA.
Il fabbisogno finanziario totale di Grecia, Portogallo, Spagna e Irlanda nel 2010-2013 ammonta a 722 miliardi di euro. Fabbisogno che può esser ridotto con interventi addizionali di consolidamento del debito o di riduzione del deficit, come Spagna e Portogallo sono stati sollecitati a fare. Il pacchetto  ( 750 mld di euro ) delle misure decise copre comunque il fabbisogno attuale nel triennio (722 mld di euro ).
     Il Meccanismo di stabilizzaziome potrebbe portare all’emissione di titoli dell’Unione Europea ( eurobond ) ed essere dotato di basi giuridiche tali da farlo evolvere verso  un Fondo Monetario Europeo.  In questa prospettiva le decisioni del 10 05 2010 potrebbero costituire una ” fast track ” verso l’unione fiscale ?
Ciò che è successo a Bruxelles il 9 maggio 2010 (e nei giorni seguenti) è stato oggetto di importanti ed utili commenti della stampa europea e mondiale.
E’ stato generalmente salutato con grande soddisfazione per lo `scampato pericolo´ .
     Ma la risposta fornita fotografa l´attuale precario equilibrio politico-istituzionale dell´Unione. Quindi a medio termine e’ inefficace. Abbiamo comprato un po’ di tempo, se va bene.
      Anche se saranno risolti i problemi politici e tecnici necessari per portare in tempo utile ad esecuzione quanto già deciso. Anche se sarà realizzata l’unione economica proposta da Barroso basata su tre pilastri ( rispetto reale del patto di stabilità, sorveglianza sugli squilibri macroeconomici, meccanismo permanente di soluzione delle crisi).
     Sta emergendo  il problema originario dell’euro: una moneta unica nello spazio istituzionale attuale europeo è insostenibile.
     Cosa vogliono i mercati? capire se alla fine tutto si fascia e restano con carta in mano che non vale più niente o se alla fine tutto si aggiusta ed hanno titoli di un nuovo capace attore  sulla scena multipolare mondiale ! Essi hanno studiato Hamilton: devono capire se, lasciando più o meno le cose come stanno, distruggeremo progressivamente il welfare, il lavoro, l’economia reale, il mercato unico, la finanza  e l’euro facendo la fine dell’Unione sovietica e della Iugoslavia o se passeremo ad un stato  con un unico debito pubblico, con un unico bilancio ed un unico ministro del tesoro: modello cinese o modello statunitense ?
     La ragione del calcolo ha preso il sopravvento sulla passione della costruzione negli ultimi trenta anni in Europa. E l’euro come ” l’uovo del serpente (monetario) ” – usando la metafora di  Bergman – e’ stato usato per incubare divisioni e scontri.
     Oggi lo riconosce persino Delors.
     Per l’ultima volta nella storia l’Europa può salvarsi, ma tutta intera. Quale degli stati italiani preunitari si sarebbe salvato – con un ruolo primario sulla scena europea – nello scontro tra gli stati europei nel secolo passato? E quanto avrebbe influito l’Italia se la sua dimensione ed il suo potenziale non fosse stato paragonabile ai grandi stati europei? come avrebbe fatto l’Italia se avesse mantenuto le monete preunitarie?  come avrebbe fatto se non si fosse organizzato come stato accentrato e con un unico bilancio oltre che con un’unica moneta? Avremmo avuto Sella,  Beneduce,  Einaudi per ciò che essi hanno significato nella storia identitaria economica italiana?
     La rinuncia alla moneta e quindi al tasso di cambio a chi conviene? E perché?   I paesi si indebitano se le spese superano le entrate. In termini di commercio estero se un paese importa  più beni  e servizi di quanti ne esporta, esso dovrà indebitarsi all’estero. Quindi la contropartita di un deficit della bilancia dei pagamenti è un aumento del debito estero.
     In teoria per ridurre l’indebitamento estero un paese ha tre strade: 1) svalutare, misura rapida; 2) contenere la spesa, misura che richiede tempo; 3) ristrutturare l’economia reale cioè’ la sua competitività, i suoi costi di produzione e la produttività, misura che richiede ancora più tempo, spesso decenni.
     La svalutazione sostituisce domanda estera a quella nazionale,  in modo rapido: svalutando il paese rende immediatamente più costose le merci estere e più convenienti le proprie, condannandosi però a “valere ” sempre meno. I paesi appartenenti a una unione monetaria non possono svalutare: possono solo percorrere le altre due strade.
     Il contenimento della spesa migliora i conti con l’estero riducendo le importazioni: se la gente ha meno soldi da spendere, spende meno anche in importazioni. Si producono effetti deflazionistici,  minando alla lunga la stessa capacita’ di crescere  e di ripagare il debito, la disoccupazione aumenta, le  imprese  chiudono. In teoria, l’aumento dei disoccupati contiene i salari, e col tempo le merci nazionali diventano più convenienti e le esportazioni aumentano: alla domanda nazionale si sostituisce domanda estera, e le cose tornano a posto. Ma dopo, anche  se riesce questo aggiustamento, la posizione del paese e’ quasi sempre cambiata in peggio.
     Nel trattato di Maastricht sta scritto che  con la moneta unica i paesi dell’eurozona si privano di uno dei tre strumenti disponibili per riequilibrare i conti con l’estero, quello più rapido:  la svalutazione. Gli altri due sono lasciati ai singoli stati.
     Le condizioni che rendono sostenibile l’adozione di una moneta unica sono quattro:  flessibilità di prezzi e salari,  mobilità dei fattori di produzione,  integrazione delle politiche fiscali e  convergenza dei tassi di inflazione. Il loro ruolo è chiaro alla luce del fatto che, come abbiamo chiarito, ai paesi che non possono svalutare rimane solo la strada “lacrime e sangue”.
     Maastricht ignora le condizioni dettate dalla teoria economica (flessibilità, mobilità, integrazione fiscale, convergenza dell’inflazione) e insiste sul debito pubblico, con l’intento di propugnare la riduzione del peso dello Stato nell’economia, e di evitare riferimenti alla reale natura del problema.   L’approccio di Maastricht è ideologico. Adottare una moneta unica in un’area nella quale essa non è sostenibile impone surrettiziamente e ideologicamente ai paesi membri una rincorsa affannosa dei requisiti necessari (flessibilità, mobilità, ecc.). Il mercato unico ha fatto qualcosa sotto il profilo della flessibilità, della mobilità e dell’inflazione. Il mercato unico potrebbe fare di più sotto il profilo della competitività e produttività. Sotto il profilo fiscale e del debito pubblico poco, molto poco. Quando si arriva al debito non ha quasi più alcuna funzione.
Ecco perché c’è bisogno di un Hamilton europeo: se la Germania e la Francia e l’Italia e gli altri paesi europei vogliono essere visti come un tutt’uno dai creditori internazionali – e pesare nel mondo come tale – devono mettere assieme debito, fisco e tesoro: il mercato deve essere sicuro che si salvano tutti assieme, perché sa che da soli non si salva nessuno di essi.
     Il mercato sa che questa l’Unione hamiltoniana è necessaria  all’equilibrio mondiale.
     Andando avanti così’, il prossimo tsunami è il crollo del dollaro. Ecco perché il segretario USA del Tesoro si affanna a dichiarare che gli Stati Uniti non sono la Grecia. Ecco perché egli teme che le misure restrittive dei singoli paesi europei possano portare ad una situazione ” giapponese ” di deflazione e ristagno in Europa con l’aggravante della mancanza di una politica fiscale unica ed al limite di politiche ” beggar my neighbour “. Gli Stati Uniti hanno bisogno dell’Europa hamiltoniana.
     Il ritorno ad un duopolio instabile USA-CINA, con, India,  Paesi arabi,  Sudamerica e Africa che aspettano da secoli e Russia che aspetta una rivincita renderebbe il passaggio dal breve monopolio USA già al tramonto al multipolio carico di incognite e di rischi più gravi forse di quelli della guerra fredda. Gli USA hanno bisogno dell’Europa Unita per poter giocare da primus inter pares nel mondo multipolare e poter dare concrete assicurazioni ai cinesi che essi non resteranno con un sacco di ”  dollar balances ” di cui non sanno più che farsene.
La Cina, proprio in questi giorni, smentendo il Financial Times, ha fatto sapere che continuerà ad investire nei titoli di stato dell’area euro. E non è un fatto congiunturale: ” non mettere tutte le uova in un paniere ” è la regola aurea nel medio e lungo termine.
     Il XXI secolo ha più bisogno di Europa. Come diceva Ronald Reagan ancora non abbiamo visto niente. Né code tipo crisi del ’29, né suicidi dai grattacieli (purtroppo qualcosa in Francia ) né crisi diffusa di legittimità democratica.
     Quanto siamo disposti, noi europei, a pagare per continuare a contare qualcosa?
     C’è un prezzo per il futuro? John Ferling in ” A leap in the dark ” descrive il glorioso “salto nel buio ” dalla confederazione alla federazione statunitense a partire da una semplice constatazione: unirsi o perire. I tredici stati si sono uniti prima col debito, nel fisco e nel bilancio  e poi nella moneta e sono cosi’ diventati 50 ed il mondo più di due secoli dopo non può fare a meno di loro.
E’ finito un ciclo, non la storia. La razionalità post 1989 in Europa deve cedere di nuovo alla passione.
     Noi europei dobbiamo imparare a saltare ancora nel buio  perché non abbiamo più niente da perdere, se non la impotenza dei singoli stati.
     E tutto da guadagnare: il comune futuro.
 28 maggio 2010

Il Cavaliere e il Duce: la storia pro domo sua
di Salvatore Sfrecola

     Preoccupato del consenso, che sente sfuggirgli di giorno in giorno, per aver negato la crisi troppo  a lungo, senza prendere per tempo misure adeguate a restituire incentivi allo sviluppo, Silvio Berlusconi corre ai ripari e denuncia di non avere poteri.
     E cita Benito Mussolini  “Dicono che ho potere – è il brano scelto – non è vero, forse ce lo hanno i gerarchi ma non lo so. Io so che posso solo ordinare al mio cavallo di andare a destra o di andare a sinistra e di questo posso essere contento”. Per far capire alla platea internazionale – il Cavaliere era a Parigi per la riunione dell’OCSE – che “il potere se esiste non esiste addosso a coloro che reggono le sorti dei governi”.
     Affermazione all’evidenza assurda, soprattutto per chi dispone in Parlamento di un’amplissima maggioranza che gli consentirebbe di modificare leggi e riordinare apparati dello Stato. Il fatto è che quella maggioranza, che ruota intorno a lui, è, prima che rissosa, composta in gran parte di pervenu della politica, spesso giovanotti e giovinette di bella presenza, il più delle volte senza arte né parte, con studi molte volte “brevi”, che non hanno fatto mai un lavoro, che non hanno mai amministrato neppure il condominio della casa dei genitori.
     D’altra parte, le caratteristiche di questa compagine il Cavaliere le aveva delineate benissimo alla vigilia delle elezioni quando, reclutando quelli che avrebbe “nominato” deputati e senatori chiarì che a lui  bastava un 30 per cento di bravi, gli altri li avrebbero seguiti.
     Non ha dunque motivo di lamentarsi il Premier, anche per chi ha portato al governo del Paese, spesso modestissime personalità di seconda fila già nei partiti di provenienza.
     Se non ha potere, dunque, è perché non sa esercitarlo, anche per essersi circondato, fin dal 1994, di yes men, quelli che piacciono tanto ai potenti che non sanno esercitare veramente l’arte del comando.
     Venendo, poi, a Mussolini, considerata la citazione storica di dubbia veridicità perché proveniente dai fantomatici Diari del Duce, questi di potere ne aveva, tanto da attuare una sorta di diarchia che, manipolando lo Statuto Albertino,  costringeva Re Vittorio Emanuele III a quotidiane acrobazie per mantenere la dignità della Corona. Mussolini aveva addirittura inciso sulla linea di successione al trono, che sarebbe stata sancita da una deliberazione del Gran Consiglio del Fascismo.
     Ma il tempo è galantuomo, per cui quando il Gran Consiglio il 25 luglio 1943 votò la restituzione al Re del comando dell’Esercito Vittorio Emanuele ne ha preso correttamente atto accogliendo le dimissioni che l’attonito Cavaliere Benito Mussolini riteneva sarebbero state respinte.
     Da Cavaliere a Cavaliere, il secondo, che sta perdendo a vista d’occhio consensi, pensi al pensionamento, tanto per lui, l’uomo più ricco d’Italia, non saranno un problema le norme sulla falcidia delle liquidazioni che applica, con tanta soddisfazione ed un pizzico di sadismo, ai lavoratori dipendenti.
28 maggio 2010

La Ragioneria Generale dello Stato, un ente inutile?
di Salvatore Sfrecola

     Ho scorso l’elenco, brevissimo, degli enti definiti “inutili” e come tali destinati alla soppressione il più delle volte mediante accorpamento ad altri enti del settore, come l’I.S.P.E.S.L., Istituto Superiore Prevenzione e Sicurezza sul Lavoro, che sarà unito all’INAIL.
     Non si parla, invece, della Ragioneria generale dello Stato, ovvero del Dipartimento della Ragioneria generale dello Stato, come pomposamente da qualche tempo si chiama quell’antica struttura del Ministero del tesoro, ora dell’economia e delle finanze, secondo la regola invalsa negli ultimi anni per giustificare la moltiplicazione dei posti dirigenziali.
     Naturalmente la mia è una boutade, una provocazione. Come si fa a considerare inutile la struttura cardine del controllo finanziario dello Stato, del controllo interno, parte essenziale dell’Amministrazione pubblica?
     Invece è proprio così. A sentire i funzionari della Ragioneria, che si articola in uffici centrali del bilancio presso le singole amministrazioni (un tempo si chiamavano Ragionerie centrali, chissà perché le hanno cambiato nome!) questi Uffici hanno un controllo contabile su tutte le operazioni di gestione del bilanci. La Ragioneria, inoltre, dispone di un centro di elaborazione dati sofisticatissimo. L’ho visitato al La Rustica qualche anno fa (ma non so se è ancora in funzione), una struttura avveniristica, superprotetta, una specie di Fort Nox nostrano, sigillato, a prova di bomba. Ricordo che chi mi guidava raccontava con orgoglio che l’allarme era scattato perché d’inverno sul muro di cinta si era posata una certa quantità di neve il cui peso aveva attivato l’allerta.
      Cose da fantascienza, come i grandi schermi, immensi, sui quali venivano registrate tutte le operazioni di tesoreria in entrata e in uscita, in tempo reale, mi disse orgoglioso il funzionario che mi illustrava la grande opera dell’ingegneria informatica. E in effetti sui maxischermi comparivano linee colorate che continuamente davano conto dell’andamento della gestione del bilancio e della tesoreria.
     E non finiva qui. Quel “cervellone”, mi fu detto, disponeva delle serie storiche dei bilanci delle regioni, degli enti locali e degli enti pubblici variamente denominati ma gestori di denaro del cittadino. Lì, con orgoglio, si poteva conoscere tutta la storia passata e presente della finanza pubblica e prevederne l’evoluzione.
     A parte questa miracolistica informatizzazione, da quando lo faceva sui libri mastri, la Ragioneria ha il conto degli impegni, cioè delle somme che le amministrazioni accantonano a seguito di obbligazioni “giuridicamente perfezionate”, come dice la legge.
     Di più, la Ragioneria, attraverso i suoi uffici nei ministeri ed i sindaci o revisori negli enti pubblici controlla la spesa, giorno dopo giorno. Non solo, ma riceve dalle amministrazioni statali le proposte per la formazione del bilancio di previsione, che valuta e assembla.
      A questo punto mi chiedo come sia sfuggita alla Ragioneria la pletora degli sprechi nelle pubbliche amministrazioni, quelle spese inutili che oggi pesano e per rimediare ad esse una parte degli italiani sono stati chiamati a pesanti sacrifici.
     Delle due l’una. O la Ragioneria non tiene i conti, non li controlla e non è in grado di valutare la “proficuità” della spesa, come sta scritto nella legge di contabilità del 1918, il regio decreto n. 2440, e allora va abolita come “ente inutile”, oppure la Ragioneria mette in preallarme il Ministro dell’economia che non è in grado di eliminare gli sprechi. In questo caso la colpa è del Ministro Tremonti.
     Di chiunque sia la colpa, è possibile che gli sprechi si sono accertati solo oggi, perché giorno dopo giorno, come farebbe una famiglia virtuosa o un’impresa seria, non sono state eliminate le spese inutili? Era necessario giungere sull’orlo dell’abisso per chiedere ad una parte degli italiani sacrifici durissimi per mettere riparo agli errori o alle omissioni di funzionari e politici?
     Un’ingiustizia di queste dimensioni, che colpisce aspettative spesso collegate a spese effettuate, l’acquisto della casa, l’avvio di un’attività commerciale o professionale per i figli, le spese per l’istruzione superiore e universitaria, l’auto nuova, non potrà non lasciare un segno nei rapporti con la classe politica e con le istituzioni.
     E per concludere, se è stata la Ragioneria ad omettere rispetto al suo ruolo tradizionale come definito nelle leggi aboliamola. Il risparmio sarà consistente, diretto, uomini e strutture, e indiretto, i gettoni di presenza degli inutili revisori dei conti.
     Se, invece, come credo, l’errore lo hanno fatto i politici che non hanno ascoltato la voce dei ragionieri questi signori vanno mandati a casa insieme al patetico onorevole Lupi, che Berlusconi spedisce in televisione per difendere l’indifendibile politica dell’esecutivo con argomenti da avvocatello alle prime armi, un difensore d’ufficio che dimostra agli occhi della gente tutta l’incnsistenza delle sue argomentazioni.
26 maggio 2010

Sacrifici sì, ma via i responsabili dello sfascio
di Senator

     Accade alla squadre di calcio, accade alle società, accade agli stati. L’11 che non fa gol, l’impresa che non fa profitti, lo stato con deficit e debito pubblico. Ma, mentre la società di calcio liquida l’allenatore e l’impresa in difficoltà cambia gli amministratori, non sempre gli elettori mandano a casa i responsabili dello sfascio dei conti pubblici.
     O, meglio, non li mandano a casa subito, per quella vischiosità del mondo politico che rallenta il ricambio e, soprattutto, quando manca l’alternativa, quando l’opposizione non si presenta agli occhi dell’elettorato come credibile per sostituire il governo in carica.
     Tuttavia il problema è questo. Chi ha sbagliato, anche solo per per aver omesso di assumere per tempo le misure che avrebbero potuto se non evitare quanto meno ridurre effetti della crisi. Per far questo sarebbe stato necessario, quando si sono presentati all’orizzonte dell’Italia e di altri paesi segnali non equivoci di una crisi economica indotta non solo da speculazioni finanziarie internazionali ma dallo squilibrio nei rapporti interni tra produzione, lavoro, risparmio.
     Viviamo al di sopra dei nostri mezzi, dice più d’uno. E’ vero, ma dov’erano i governi, al centro ed in periferia? Cosa hanno fatto, quali misure hanno adottato quando si sono resi conto di questa realtà? O non se ne sono resi conto?
     Comunque hanno sbagliato. E’ innegabile. E come avviene nelle squadre di calcio e nelle società, l'”allenatore” va cambiato. All’interno della maggioranza o all’interno della classe politica. Non c’è soluzione diversa.
     Ciò perché evidentemente chi è stato al timone non ha saputo condurre la barca verso una navigazione sicura, dove il lavoro sia assicurato a quanto più cittadini è possibile, dove le famiglie possano svolgere il loro ruolo di fonte di capitale sociale, cioè di gestione del ruolo essenziale che la Costituzione assegna loro, fare figli, educarli ed istruirli ad essere cittadini e lavoratori. E, poi, la famiglia che consuma, così sostenendo la produzione, e risparmia.
     Poi il turismo, la nostra grande, unica vera industria sempre potenzialmente attiva, abbandonata dalla classe politica che non ha assicurato infrastrutture e servizi, che non riesce neppure a controllare il ristoratore che serve cibi scaduti, che presenta un conto assurdo e via dicendo.
     Troppe omissioni, troppi errori. Colposi, gravemente colposi.
25 maggio 2010

La legge anticorruzione sotto la lente dei magistrati contabili

     Per iniziativa del Gruppo “Rinnovamento” dell’Associazione Magistrati della Corte dei conti si è tenuta questa mattina la preannunciata Lectio legis, cioè una lettura a più voci del disegno di legge recante:” Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione”.
      Nella prestigiosa Aula “Bonadonna” della sede centrale della Corte in viale Mazzini Salvatore Sfrecola, Segretario del Gruppo e Vice procuratore generale della Corte dei conti ha aperto i lavori sottolineando come l’iniziativa sia diretta ad una riflessione utile al dibattito parlamentare con approfondimento delle singole disposizioni del disegno normativo che prevede interventi sulle amministrazioni dello Stato e degli enti locali, chiudendo con norme che aggravano le pene previste dal codice penale.
       Dopo un indirizzo di saluto di Angelo Buscema, Presidente dell’Associazione Magistrati, Fiammetta Palmieri, Magistrato di Tribunale, addetta al Dipartimento per gli affari giuridici e legislativi della Presidenza del Consiglio dei Ministri, ha illustrato il disegno di legge “anticorruzione”, oggi Atto Senato n. 2156, mettendo in risalto i profili di novità rispetto alla precedente legislazione.
     Andrea Altieri, docente di diritto amministrativo – Link Campus University of Malta, Avvocato di CONSIP si è soffermato sul profilo della trasparenza nei contratti pubblici presentando alcune proposte dirette ad evitare interferenze politiche nella nomina delle commissioni di aggiudicazioni e delle commissioni di collaudo.
   Alessandro Botto, Consigliere di Stato, Consigliere dell’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture si è soffermato sul ruolo dell’Autorità segnalando l’esigenza che non siano inutilmente aggravate le procedure e mettendo in evidenza la necessità che le notizie in possesso della banca dati siano accessibili a tutti, evitando l’applicazione delle norme sulla privacy quando non necessarie.
       Ennio Colasanti, Consigliere della Corte dei conti, Sezione relazioni internazionali ha illustrato l’apporto delle regole dell’INTOSAI e dell’Unione Europea nella regolarità dei conti e delle gestioni.
      Laura Lunghi, Avvocato, cultore di diritto amministrativo presso la Facoltà di Giurisprudenza de “La Sapienza”, del Gruppo Intesa San Paolo ha parlato della Banca Dati nazionale dei contratti pubblici e delle prospettive che può apportare alla trasparenza dell’azione amministrativa. Tra l’altro auspicando una banca dati comunitaria.
       Nel dibattito ha preso la parola, tra gli altri, il Presidente Maurizio Meloni, Presidente delle Sezioni Riunite in sede di controllo che ha rivendicato il ruolo della Corte dei conti nell’approfondimento delle gestioni ai fini del monitoraggio dei fenomeni di malagestione.
     Salvatore Sfrecola, traendo le fila del dibattito ha dato appuntamento a tutti alla ripresa autunnale con un convegno di studio che consenta un confronto tra operatori economici, funzionari dell’Amministrazione, docenti universitari e magistrati delle varie giurisdizioni.
      Ai presenti è stato rilasciato un attestato di partecipazione.

24 maggio 2010

La crisi nello sfascio dell’Amministrazione e della Giustizia
di Salvatore Sfrecola

     Ho lasciato il titolo un pò forte del nostro amico Senator perché alcune sue considerazioni mi danno lo spunto per riflettere ad alta voce su alcuni aspetti della crisi finanziaria ed economica che preoccupa gli italiani, non solo quelli che subiranno i tagli di stipendio, dei quali parla con dovizia di particolari il Corriere della Sera insieme alle altre misure preannunciate che si leggono sul sito web del quotidiano.
     Cominciamo delineando il quadro di riferimento, per capire bene.
      L’Amministrazione pubblica è lo strumento del Governo per realizzare il programma della maggioranza, proposto all’elettorato e convalidato dal voto. Il Governo nazionale, come i governi di regioni, province e comuni operano attraverso gli strumenti normativi approvati dal Parlamento e per mezzo di impiegati pubblici che rendono servizi, dispongono pagamenti in favore di persone fisiche ed imprese, riscuotono imposte e tasse.
     Se ne deve dedurre che, in un paese ben ordinato, la classe politica al governo deve riservare la massima attenzione all’apparato amministrativo perché dirigenti, funzionari ed impiegati sono lo strumento per governare. Un’attenzione che si realizza attraverso la messa a punto di strumenti operativi adeguati alle esigenze e di uomini preparati professionalmente e messi in condizione di lavorare e di perseguire gli obiettivi stabiliti dalle leggi e precisati dalle direttive politiche. Questi uomini vanno motivati, ne va riconosciuto l’impegno lavorativo che deve essere premiato quando merita. Contestualmente gli incapaci ed i fannulloni devono essere puniti.
     Accade, invece, che, avendo trovato l’Amministrazione in condizioni non ottimali, l’attuale classe politica  di  maggioranza, di cultura prevalentemente privatistica, invece di sentire il bisogno di rendere l’apparato idoneo all’obiettivo di costituire strumento di miglioramento dei servizi resi alla comunità, si è esibita in una costante denigrazione del pubblico soprattutto agli occhi degli italiani.
     Contestualmente un sistema di spoil system esasperato, ancora di recente censurato dalla Corte costituzionale (sentenza 5 marzo 2010, n. 81, commentata da Paola Maria Zerman sull’ultimo fascicolo, il n. 5, di Diritto e Pratica Amministrativa, il mensile de Il Sole-24 Ore), ha reso la dirigenza pubblica precaria e, soprattutto, subordinata al potere politico. Il Ministro, il Presidente della regione, il Sindaco scelgono il dirigente, stabiliscono il tempo della loro permanenza nella funzione, determinano l’ammontare del loro trattamento economico. Sono le stesse autorità politiche che dovranno rinnovare la fiducia nel funzionario di lì ad un tempo breve (di solito tre anni), sicché l’indipendenza del dipendente “al servizio esclusivo della Nazione”, come dice l’art. 98 della Costituzione è stata beffata.
     Le conseguenze sono gravissime e si notano in questa stagione nella quale le cronache sono piene di riferimenti a sprechi paurosi, a ruberie a corruzione, tanto che il Governo è ricorso ad un disegno di legge, del quale parleremo domani alla Corte dei conti con alcuni esperti per cercare di analizzarne pregio e difetti e rendere al Parlamento, che si appresta ad iniziarne l’approfondimento, qualche utile suggerimento indotto dall’esperienza di avvocati, dirigenti, magistrati.
        Una classe politica con senso dello Stato si sarebbe avvalsa di un’Amministrazione efficiente per rilevare ed eliminare gli sprechi, per evitare ruberie e corruzione.
     Una classe politica che sente il Premier quotidianamente disprezzare l’Amministrazione e vilipendere i magistrati è, invece, indotta a sentirsi libera di profittare degli sprechi, che interessano molte aziende produttrici di beni e fornitrici di servizi, e magari di esercitarsi in concussione e corruzione. Per cui la riforma vera della Giustizia attende e quel che si fa aggrava il lavoro di giudici e pubblici ministeri che in questo modo appaiono agli occhi degli italiani inefficienti e concausa dello sfascio.
     Diciamoci le cose come stanno. Se l’Italia si trova in condizioni molto vicine a quelle della Grecia molto è dovuto all’incapacità della classe politica tutta, di destra e di sinistra, che si è alternata al potere in questi anni, di prevedere e prevenire le conseguenze di crisi economiche interne ed internazionali. E questa incapacità deriva dall’aver mortificato l’Amministrazione, cioè di essersi privata degli occhi e degli orecchi per vedere ed ascoltare, nonché delle mani per operare.
     Chiacchiere se ne sono fatte tante. Annunci, pure. Gli italiani li hanno presi per buoni ma di fronte all’evidenza non c’è più alcun dubbio. Non si è fatto quanto si poteva fare per mettere il Paese al riparo degli effetti. Come in medicina, anche in politica la prevenzione premia. Ha solo un limite agli occhi di politici modesti, non desta clamore, non produce consenso immediato. E questo per la classe politica di oggi è un difetto grandissimo. Così siamo seduti sull’orlo del baratro e continuiamo a sentire slogan ripetitivi e all’evidenza privi di ancoraggio con la realtà
     Se si vuole governare la crisi si devono mettere le mani nelle tasche degli italiani. Non aumentando le tasse, evidentemente, ma limando stipendi e riducendo servizi. Formalmente la promessa del Premier è mantenuta. Nella sostanza è una stangata!
23 maggio 2010

Il Premier non teme il ridicolo
Annuncia niente mani nelle tasche degli italiani, solo dei dipendenti pubblici!
di Senator

     “E’ assolutamente falso che sia alle viste un aumento delle imposte” ha affermato ieri il Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, in un messaggio registrato ai Promotori della Libertà. ”Non verranno toccate – precisa il Premier – né la sanità né le pensioni, né la scuola né l’Università. E’ sicuro invece che il governo continuerà a mantenere i conti pubblici in ordine con una politica prudente, coniugando il rigore con l’equità e il sostegno alo sviluppo. E ripeto: non aumenteremo le tasse. Non metteremo le mani nelle tasche degli italiani”.
     “Cercheremo invece con ogni mezzo – spiega Berlusconi – di combattere le spese eccessive e di combattere l’evasione fiscale. Sino ad oggi siamo riusciti a tutelare le famiglie, i ceti più deboli, le imprese (soprattutto quelle piccole e medie) con provvedimenti mirati, concreti ed efficaci. Continueremo a farlo nei limiti delle possibilità di bilancio portando avanti la politica di buon senso degli ultimi due anni, con una gestione economica che mantenendo in ordine i conti pubblici ha messo il nostro Paese al riparo: un merito che ci è stato riconosciuto internazioalmente da tutti, anche dai più severi osservatori”.
     Dal canto suo il Presidente del Senato, Renato Schifani, parlando a margine di una manifestazione a Buonconvento (Siena), ha affermato che se qualche sacrificio verrà chiesto agli italiani “sicuramente sarà graduato su livello sociale per calibrarlo. Qualche sacrificio dovrà essere chiesto a chi se lo può permettere”. . Commentando la prossima manovra finanziaria ed economica, Schifani ha ribadito che “sarà significativa” ma si è detto certo che “si interverrà sulla contrazione della spesa pubblica e in particolar modo su quella non produttiva”.
     Qualche commento. L’ipocrisia sta nel dire che non aumenteranno le tasse, quando è previsto, a leggere il Corriere della Sera, una significativa falcidia degli stipendi dei pubblici dipendenti. Non solo degli amministratori e dei collaboratori (la notizia dei 289 mila euro per il Capo di Gabinetto del Sindaco Alemanno ne è scandaloso esempio) ma dei dirigenti e dei funzionari sui quali incombono responsabilità, prova ancora della lontananza del Premier e della classe dirigente politica che lo circonda da una consapevolezza del ruolo delle istituzioni, che, infatti, non hanno saputo prevedere e frenare il dissesto del settore pubblico. In queste condizioni è difficile pensare alla ripresa dell’Amministrazione e ad un suo ruolo per la ripresa e la lotta all’evasione fiscale.
23 maggio 2010

Solidarietà e responsabilità
di Salvatore Sfrecola

  La situazione finanziaria e quella economica del Paese richiedono sacrifici a tutti, soprattutto a chi dispone di redditi più alti.
     Oggi il Corriere della Sera a pagina 8 illustra la manovra nei contenuti di cui si ha notizia, secondo ipotesi verosimili, stile Grecia, considerato che per avere un senso la manovra deve compire un po’ tutti in misura tale da portare nelle casse dello Stato i miliardi di cui c’è bisogno per sostenere l’euro e non  aumentare il deficit.
     Tutti dobbiamo concorrere . Questo diffuso senso di responsabilità non ci può, tuttavia, impedire di fare alcune considerazioni di ordine generale: fino all’altro ieri ci è stato detto che tutto andava bene, che il nostro Paese era il più virtuoso dell’Europa, forse del mondo, che stavamo lontano dalla condizione della Grecia. Ma adesso adottiamo le stesse misure.
     Stanno male anche la Germania e gli Stati Unici d’America. Mal comune mezzo gaudio?
     Mi chiedo chi ha consentito si giungesse sull’orlo del precipizio senza prevederlo, senza adottare misure anticipate di salvaguardia a tutela dell’economia. E chi ha consentito negli anni che gli sprechi nelle pubbliche amministrazioni continuassero impuniti, che il malgoverno degli enti alimentasse la corruzione che oggi viene alla luce per alcune inchieste della magistratura.
     Non mi riferisco a questo a quel governo, al centro ed in periferia, ma mi sembra amara constatazione che la classe politica tutta non è stata all’altezza del compito, non ha saputo guardare al di là del proprio naso e dei propri interessi ben curati (indennità, case comprate o ristrutturate, conti all’estero).
     Sempre dal Corriere della Sera abbiamo appreso che il Capo di Gabinetto del Sindaco di Roma “gode” di una indennità di 298 mila euro l’anno (immagino oltre allo stipendio di magistrato). Ed altri 49 collaboratori del medesimo Sindaco “godono” anch’essi di sostanziose indennità, mentre il comune è in grave deficit e l’unica entrata certa è data dalle multe per divieto di sosta.
     Per educazione, per cultura, oltre che per professione, uomo “delle istituzioni” non posso fare a meno di esternare queste mie perplessità perché quel che ci è capitato sulla testa non è dovuto al Fato, ma all’incapacità e disonestà degli uomini. Incapacità di prevedere e prevenire, di guardate alle prossime generazioni anziché alle prossime elezioni, come diceva De Gasperi individuando in questa capacità di guardare al futuro  il tratto distintivo degli statisti rispetto ai politici.
     Attenzione, poi, al dibattito parlamentare, perché siamo stati abituati ad emendamenti “della maggioranza” che completano la volontà del governo come consegnata nel decreto legge.
22 maggio 2009

Il Presidente della Commissione Europea, Barroso, in visita al Gran Maestro dell’Ordine di Malta

Roma, 21 mag. – (Adnkronos) – Il presidente della Commissione Europea Jose’ Manuel Barroso, illustra a Roma il suo programma contro la disoccupazione in Europa, con l’obiettivo di ”ridurre del 25 per cento il numero di quanti sono esposti alla povertà e all’esclusione sociale”, obiettivo, ha precisato, ”parte integrante della strategia economica che la Commissione Europea sta mettendo a punto per i prossimi 10 anni”, oltre che impegno comune con l’Ordine di Malta che con i suoi 900 anni di vita e’ ”la prima organizzazione umanitaria della storia”.
Nella sua visita all’Ordine di Malta, questa sera, Barroso e’ stato insignito del ”Collare al Merito melitense” dal Gran Maestro Fra’ Matthew Festing, ”per il grande impegno e la profonda competenza con i quali dal 2004 svolge il delicato incarico di Presidente della Commissione Europea e per l’attenzione che ha riservato all’Ordine di Malta sostenendone le attività con profondo spirito umanitario”. Durante i suoi colloqui sono stati ribaditi anche la volontà di rafforzare la cooperazione sanitaria e umanitaria fra la Commissione europea e l’Ordine di Malta (progetti umanitari congiunti sono in corso in Congo, Tailandia, Cambogia e Myanmar) e di collaborare alla tutela dei Luoghi santi e al dialogo inter-religioso.
La cerimonia, che ha avuto luogo nella Villa Magistrale a Roma, e’ stata seguita da una cena di gala alla quale hanno partecipato un centinaio di ambasciatori e personalità delle istituzioni italiane tra le quali il ministro per le Politiche europee Andrea Ronchi, e vaticane come il presidente del Pontificio consiglio per il Dialogo interreligioso, cardinale Jean Louis Tauran.
Nel corso di una ”crisi economica e finanziaria senza precedenti” e durante l’Anno europeo della lotta alla povertà’ e all’esclusione sociale, ha ricordato il Presidente, l’impegno per la creazione di posti di lavoro e per una ”occupazione qualificata” dei cittadini europei e’ una priorità dell’Unione europea. ”Non si possono chiudere gli occhi – ha detto – di fronte alla sorte di 80 milioni di nostri concittadini poveri, dei quali 19 milioni di minori”. L’Ordine di Malta e l’Unione europea devono ”opporsi con determinazione e soprattutto con i nostri valori” ai disvalori creati dalle crisi economiche che ”offrono un terreno fertile al populismo, al ripiegamento su se stessi e all’egoismo”. ”Contro la precarietà e l’ingiustizia – ha detto – occorre più che mai mobilitarsi con gli ideali di giustizia e di solidarietà che animano il vostro Ordine”.

A proposito della nuova disciplina delle intercettazioni
Una lezione dagli U.S.A.
un avvertimento per il Premier
di Iudex

     Severa lezione di politica criminale del Sottosegretario U.S.A. alla Giustizia, Lanny Breuer, in Italia per partecipare alle commemorazioni per Giovanni Falcone: “Nessuna norma ostacoli l’ottimo lavoro dei magistrati italiani. Grandi passi avanti nella lotta alla mafia”. Per l’Amministrazione Obama le intercettazioni telefoniche sono uno “strumento essenziale delle indagini” che non va indebolito. “Non vogliamo che succeda niente che impedisca ai magistrati italiani di continuare a fare l’ottimo lavoro fatto finora”, ha affermato il vice-sottosegretario del Dipartimento Penale Usa con delega per la lotta alla criminalità organizzata,
    Nel corso di un incontro con la stampa all’ambasciata americana a Roma, Breuer ha ricordato l'”ottimo livello di cooperazione” con la giustizia italiana. “Sono cosciente del fatto che contro la criminalità possiamo e dobbiamo fare di più”.
     L’esponente del governo americano non ha inteso in alcun modo entrare in valutazioni di merito sulla legislazione italiana in materia di intercettazioni che ha esplicitamente dichiarato di “non conoscere”, ma ha dato una indicazione sulla quale, peraltro, concordano tutte le persone di buon senso.
     Una cosa sono le intercettazioni utili alle indagini, altra cosa sono gli abusi dei giornali che pubblicano notizie riservate o non funzionali alle esigenze della polizia e della magistratura. Per queste rileva la regola della privacy, non per tutto ciò che è funzionale alla repressione dei reati.
     Purtroppo il Presidente del Consiglio, Berlusconi,  il il Ministro della Giustizia, Alfano, confondono le due esigenze perché l’intento palese è quello di depotenziare le indagini giudiziarie. Lo dimostra se non altro la circostanza che il Cavaliere ha annunciato l’iniziativa limitativa delle intercettazioni in un convegno di industriali, laddove si annidano corruttori e concussi, ricevendo un applauso da stadio.
     Infine, la presa di posizione del sottosegretario U.S.A. induce anche ad altra riflessione. Forse il Presidente americano, “giovane e abbronzato”  ha voluto manifestare ancora una volta la scarsa simpatia per il Cavaliere, troppo effervescente per il costume governativo americano, con troppe amicizie “pericolose”, come il sovietico Putin con il quale l’Italia fa affari che urtano la sensibilità d’oltre oceano.
     O, forse, Obama vede il Cavaliere avviarsi a grandi passi sul viale del tramonto.
21 maggio 2010

Tremonti non metterà le mani nelle nostre tasche ma avremo tutti meno servizi
Si delinea una finanziaria di sacrifici, ma non per tutti
di Oeconomicus

     Non metteremo le mani nelle tasche degli italiani, assicura il Ministro dell’economia, Giulio Tremonti, sarà una finanziaria di tagli alla spesa pubblica. L’affermazione non può tranquillizzare in quanto lavorare sulla spesa pubblica, necessario da tempo, non è facile perché la spesa improduttiva si annida nelle pieghe dei bilanci, dello Stato e degli enti pubblici, da quelli istituzionali a quelli del servizio sanitario nazionale (quelle che adesso si chiamano “aziende”) e la selezione della spesa non è facile, soprattutto non è da fare in poche settimane. Ne consegue che i tagli non saranno selettivi ma orizzontali, tot per ogni ente così da colpire, come è accaduto in passato, tutti indistintamente con conseguenze scarse per alcuni e gravi o gravissime per altri.
     Non metteremo le mani nelle tasche degli italiani, dice Tremonti, ma taglieremo molti servizi, soprattutto nello stato sociale, così i cittadini non pagheranno più tasse ma saranno costretti a rinunciare a molti servizi o a pagarli di tasca propria.
     E’ inevitabile che accada così, che la spesa pubblica ridotta colpisca soprattutto la sanità, dove si annidano gravissimi sprechi, la scuola, i trasporti, ecc. Ma non saranno necessariamente ridotti gli sprechi proprio per la rozzezza della manovra che si preannuncia. Non è un processo alle intenzioni. E’ quanto è accaduto finora tutte le volte che i governi, di destra e di sinistra, si sono impegnati a tagliare la spesa pubblica.
     A questo punto s’impongono alcune domande e considerazioni. Chi ha fatto deteriorare la situazione, chi non ha previsto, pur avendo la possibilità di monitorare l’andamento della finanza internazionale e dell’economia interna? Chi ha sottovalutato i segnali che provenivano da altri paesi e dagli indicatori dei vari fattori dell’economia?
     Non basta dire che altri hanno sbagliato e stanno, forse, peggio di noi. Gli statisti degni di questo nome prevedono e corrono tempestivamente ai ripari. Non è da ieri che l’economia dà segni di rallentamento, che la gente non compra e non risparmia come faceva una volta, mentre le imprese chiudono e in  migliaia perdono il lavoro, cioè escono dal mercato dei consumi. Con la conseguenza che la produzione rallenta e si perdono altri posti di lavoro. Il rapporto tra i vari fattori dello sviluppo dell’economia e della finanza è noto e non richiede grandi menti perché siano delineati i termini della crisi rispetto alla quale l’ottimismo è di  rigore per evitare che la gente cada nella disperazione, ma intanto il governo deve lavorare ed adottare le misure idonee a restituire alla gente fiducia e risorse.
     Non c’è dubbio che in molti abbiano sbagliato in Europa e nei singoli paesi. I responsabili se ne devono andare a casa, come accade in una società il difficoltà. Si cambiano gli amministratori. In politica si cambiano le maggioranze o il partito o la coalizione al governo cambia uomini.
     Anche gli italiani si attendono qualche segnale significativo. Deve saltare qualche testa, a cominciare da quella di chi non si è dimostrato all’altezza del ruolo. Il Presidente del Consiglio deve capire che non si governa con amici, compagni di scuola, amici degli amici. Servono doti politiche e capacità operative. Una squadra per vincere deve essere coesa e formata da persone capaci. Finora non è stato così, Berlusconi ha dimostrato di non avere la dote dei grandi politici, quella di saper scegliere collaboratori di valore. Si è circondato di mezze tacche, spesso infide ed adesso rischia grosso perché gli italiani, che pure lo hanno votato, sentono che quella fiducia si è incrinata per le difficoltà dell’economia e gli scandali che stanno travolgendo politici e amministratori. Anche qui il Premier deve fare il suo mea culpa. Se non avesse sistematicamente denigrato la pubblica amministrazione, la magistratura, le istituzioni di controllo, la Corte costituzionale, facendo intendere ai suoi che potevano violare impunemente le regole, oggi non si troverebbe a perdere consensi tra la gente per le vicende di una classe dirigente da terzo mondo, intenta a lucrare  miserevoli favori da imprenditori senza scrupoli, la cui più grave responsabilità è senza dubbio quella di aver messo fuori gioco operatori economici seri e non disposti a percorrere la strada facile della corruzione.
19 maggio 2010

La finanziaria della crisi
Pagheranno i soliti noti?
di Salvatore Sfrecola

     Al di là dell’ottimismo di maniera che i governi sono istituzionalmente tenuti ad ostentare, le prime anticipazioni della manovra d’estate che il governo si appresterebbe a presentare al Parlamento fanno intendere che si andrebbe a pescare nelle tasche dei dipendenti pubblici e dei pensionati.
     Senza fantasia avendo trascurato un’effettiva lotta all’evasione fiscale, soprattutto prevenendo e contenendo il contenzioso tributario, né combattendo la corruzione e la malagestione del denaro pubblico che dilaga nel Paese, come dimostra la cronaca di questi giorni, il Cavaliere affida al fido Tremonti una manovra “lacrime e sangue” giustificata dalle difficoltà interne ed internazionali per una stretta che peserà essenzialmente sul pubblico, con rinvio del rinnovo del contratto di lavoro e blocco degli incrementi retributivi automatici e del turn over. Si penserebbe anche di intervenire sulle grandi opere evidentemente per rinviarne la realizzazione.
     Cominciamo da quest’ultimo argomento. A scuola, fin dal liceo e poi all’università ci hanno spiegato che le grandi opere pubbliche sono il “volano” della ripresa economica di un paese in difficoltà. Sono strade, autostrade, porti, aeroporti, i grandi immobili dei quali il Paese ha bisogno per il suo sviluppo e che vengono accelerate perché muovono capitali, ingenti produzioni ed una buona dose di posti di lavoro.
     Il fatto è che in Italia, grazie alla corruzione ed all’incapacità dell’Amministrazione pubblica di progettare le opere pubbliche e seguirne la realizzazione, questi interventi vengono a costare molto più che altrove per non dire della durata dei lavori che vanno sistematicamente al di là dei tempi previsti dai contratti d’appalto anche per effetto del contenzioso che nella maggior parte dei casi oppone imprese e stazioni appaltanti, con ricorso alla definizione di riserve milionarie sulla definizione degli stati avanzamento lavori e conseguenti arbitrati regolarmente persi dalla parte pubblica.
     Mettere mano all’inefficienza ed alla corruzione nel settore delle opere pubbliche significherebbe risparmiare e vedere realizzati gli interventi nei tempi previsti.
     Quanto agli statali ed in genere ai dipendenti pubblici intervenire  sui loro stipendi e sul turn over è una scelta grezza e sostanzialmente ingiusta cui ricorrono i governi con scarsa fantasia e nessun coraggio di intervenire sui gangli vitali dell’ìllecito e dello spreco. Laddove si annidano le spese inutili o improduttive, decise spesso sulla spinta di interessi inconfessabili.
     Così, invece di selezionare la spesa pubblica, mantenendone i livelli essenziali al buon funzionamento delle istituzioni, il Ministro Tremonti ci ha abituati ai tagli indiscriminati, percentualmente determinati in modo aprioristico, con la conseguenza che la stessa misura della riduzione per alcuni è indifferente, per altri fatale, nel senso che impedisce l’esercizio delle funzioni istituzionali.
     E’ stata la filosofia che ha stroncato enti prestigiosi e di rilevante funzione sociale o culturale e mantenuto in vita scatole vuote solo perché politicamente assistite.
     Quanto al turn over, del quale si riempiono la bocca troppo spesso i nostri governanti, questa misura per molte amministrazioni ha un effetto gravissimo perché invecchia strutture destinate a svolgere un ruolo importante. Si pensi ai beni culturali, la più grande risorsa del nostro Paese, una componente essenziale per il turismo, dove manca personale e l’età media degli storici dell’arte è superiore ai cinquant’anni.
     Per non dire delle conseguenze sull’occupazione, che pure andrebbero considerate in un momento di grave crisi economica.
     Da ultimo, posto che il valore della spesa pubblica sta non nelle sue dimensioni ma nella sua produttività, cioè nella capacità di offrire servizi e di sviluppare virtuose sinergie con i privati fornitori di beni e servizi, tagliare indiscriminatamente significa soffocare migliaia di piccole imprese che forniscono le strutture del settore pubblico. Una cosa che questo giornale va dicendo fin  dall’inizio sperando che lo capiscano i nostri governanti, soprattutto quelli che si fanno paladini del Nord – Nord Est produttivo, che dovrebbero riconoscere il ruolo dell’operatore economico pubblico nello sviluppo dell’economia.
     Insomma, risparmi sì, ma scelte selettive e soprattutto lotta senza tregua alla all’illegalità ed alla corruzione.
      Solo così le misure possono essere credibili ed i sacrifici accettati.
16 maggio 2010

Senza pudore
Per l’On Stracquadanio i parlamentari che lavorano dovrebbero essere premiati!
di Senator

      “Non c’è niente da fare – ha scritto Quotidiano.net – : quelli che stanno dentro il Palazzo non capiscono che la gente ne ha abbastanza dei loro privilegi e, anziché proporre di tagliarli, addirittura c’è chi chiede di aumentare gli stipendi dei parlamentari che attualmente oscillano attorno ai 15 mila euro mensili, benefit esclusi.
     La proposta era stata avanzata dell’on. Giorgio Stracquadanio: “Credo che, se lavorano e se si impegnano, i parlamentari debbano essere pagati di più. Auspico un sistema che ne controlli il rendimento, la resa. Giusto punire i pochi fannulloni, ma quelli che si impegnano devono poter essere premiati secondo i principi meritocratici. Fra tutti solo una settantina non lavorano. O meglio: fanno altri lavori. Gli altri sgobbano eccome”.
     Peccato che a distanza di pochi giorni il Ministro Calderoli, un leghista che capisce la gente, propone di diminuire gli stipendi di parlamentari e membri del governo. Gli fanno eco altri politici, Casini in testa, per dare un esempio.
     Povero Stracquadanio non si è reso conto di aver fatto un’affermazione paradossale. In sostanza, se lavorano i parlamentari meriterebbero una indennità superiore. E se non lavorano? Pensa che debbano essere puniti, ma non dice come.
     Sintomatico il commento del senatore della Lega Nord, Piergiorgio Stiffoni: “Solo uno con un simile cognome poteva esprimersi in questo modo. Credo che la politica abbia bisogno in questo momento di riavvicinarsi alla gente, non certo ad allungare ancor di più le distanze”. Gli ha fatto eco il senatore Felice Belisario, capogruppo dell’Idv a Palazzo Madama: “In una situazione di gravissima crisi economica, con famiglie che non riescono ad arrivare alla fine del mese, è una follia che un parlamentare osi soltanto pensare di aumentarsi lo stipendio”. “Spiace che l’esponente del Pdl non abbia invece previsto il ritiro dell’indennità se i parlamentari non fanno niente. Il Parlamento è fermo dall’inizio della legislatura, sequestrato per risolvere i problemi di Berlusconi, dei suoi ministri e sottosegretari. Stracquadanio stia tranquillo: se la maggioranza la smettesse di prendere solo ordini dal Presidente del Consiglio e si decidesse ad esaminare provvedimenti che servono al Paese e che l’IdV ha presentato in numero cospicuo, l’Italia avvertirebbe meno la pesante crisi internazionale”.
15 maggio 2010 

Per moralizzare la vita pubblica ed uscire dalla crisi
Il Parlamento greco approva una nuova legge anticorruzione

     Approvata il 12 sera in aula nei suoi tratti essenziali, sarà formalmente votata martedì prossimo dal Parlamento greco, dopo l’integrazione degli emendamenti, la legge anti corruzione voluta dal premier, Giorgio Papandreou. Riferisce l’ANSA che, in base alla nuova legge,  ministri, politici, amministratori locali e funzionari dello stato potranno essere allontanati dai loro incarichi e i beni confiscati.
     La legge costituisce una risposta alla esigenza di moralizzazione della vita pubblica considerata elemento fondamentale per riformare il paese, salvarlo dal dissesto finanziario e garantirne la ripresa.
     La legge, che proibisce agli uomini politici e ai funzionari pubblici di detenere conti o interessi off-shore, prevede la prigione per gli evasori fiscali ed ammende fino ad un milione di euro. Un’amnistia sarà accordata a chi denunci attività corruttive.
15 maggio 2010

Il Premier e la scelta dei  collaboratori
Chi è causa del suo mal…
di Senator

     “Nessuna indulgenza e impunità per chi ha sbagliato”, tuona Silvio Berlusconi di fronte al quotidiano stillicidio delle liste che anche il quotidiano “di famiglia”, Il Giornale, appunto e quello vicino al Premier, Libero,  pubblicano di giorno in giorno con attacchi violenti a personalità del governo e del partito.
     Per cui se è un’epurazione viene dall’interno della maggioranza, una sorta di resa dei conti che fa gongolare i peones, quei parlamentari “nominati” che non potevano avere altro ruolo che quello dei portatori d’acqua, quel settanta per cento della forza parlamentare che Berlusconi alla vigilia delle elezioni aveva indicato come destinati “ad obbedir tacendo” all’elite, quel trenta per cento al quale il Cavaliere affidava le sue fortune parlamentari.
      Sennonché la minoranza capace non si è dimostrata tale per virtù professionali e personali se il Governo deve ripetutamente ricorrere a decreti legge ed a voti di fiducia ed oggi occupa le prime pagine dei giornali per miserevoli storie di bustarelle e di affarucci impunemente coltivati.
     Ma qui il Cavaliere dovrebbe fare un po’ di autocritica. Se non avesse fin dal 1994 predicato l’insofferenza verso la pubblica amministrazione ed i suoi funzionari e le regole della legalità presidiate dalla magistratura probabilmente avrebbe potuto reclutare uomini e donne con più senso dello Stato e rispetto delle regole. La forsennata critica ai giudici ed ai pubblici ministeri, lodati solo quando pronunciavano sentenze favorevoli,  l’aggressione rabbiosa anche alla Corte costituzionale, presidio di legalità e del corretto rapporto tra le istituzioni, hanno fatto sì che un manipolo (absit iniuria verbis!) di avventurieri s’insinuasse ai vari livelli di gestione della cosa pubblica nella convinzione dell’impunità indotta dai programmi enunciati dal premier in tema di regole e di giustizia.
     Ora che sente che molti suoi collaboratori hanno gravemente peccato contro la fede pubblica Berlusconi minaccia l’epurazione. Potrebbe essere tardi, mentre cresce il disgusto della gente perbene e di quella che la crisi economica ha impoverito e privato del lavoro. Non a caso il Capo dello Stato paventa azione violente di disperati che potrebbero ammantare azioni terroristiche di contenuti politici o di farneticazioni ideologiche.
     Non basta che il fido Ministro della Giustizia Alfano richiami il  Ddl contro la corruzione “che si fonda su l’inasprimento delle pene e un sistema di maggiore trasparenza dentro la pubblica amministrazione” o che Frattini invochi “nuove regole, che comprendano anche l’ineleggibilità per tutti coloro che sono stati condannati per reati connessi alle loro funzioni, e questo non riguarda solo i politici” preannunciando “una forte accelerazione del ddl del Governo contro la corruzione”.
     Potrebbe essere tardi per l’immagine del Premier che gli italiani hanno sentito troppe volte imprecare contro i magistrati e le loro inchieste, soprattutto contro le intercettazioni telefoniche e ambientali, quelle che proprio in questi giorni si sono dimostrate lo strumento indispensabile per scoprire le malefatte della “cricca”.
14 maggio 2010

Un assaggio di federalismo fiscale
Più tasse per coprire i buffi della sanità
di Salvatore Sfrecola

     La sanità in deficit richiede più tasse per quattro regioni, Lazio, Campania, Calabria. “Andiamoci piano prima di alzare le imposte” dice il neo Governatore del Lazio, Polverini. Non vuole legare l’inizio della sua azione di governo ad un “prelievo” supplementare. Si parla di sanità ed il “prelievo” è di casa.
     Il buco è di 420 milioni, i debiti sono pari a sette miliardi dice la Renata laziale (in senso geografico s’intende), una situazione seria che denuncia il malgoverno di anni, di troppi anni nei quali si sono succedute giunte di destra e di sinistra e manager, si fa per dire, appartenenti ad entrambi gli schieramenti. capaci solo di liquidare fatture miliardarie a progettisti di opere mai realizzate perché la regione cambiava continuamente destinazione agli immobili o alle strutture ospedaliere.
     Non basta. C’è il capitolo delle forniture di beni e servizi che costano più che alle strutture ospedaliere private, alcune delle quali di elevata professionalità, con tecnologia d’avanguardia ed utilizzazione piena. Sono quasi degli eroi questi imprenditori privati della sanità, come gli enti ospedalieri religiosi che “vantano” cifre da capogiro non corrisposte dalla Regione.
     Non intendiamo, si badi bene, fare l’esaltazione della sanità privata. Il pubblico deve garantire a tutti i cittadini servizi di elevata qualità, considerati i costi che le aziende sostengono.
     Tutti sanno che decenni fa una degenza ospedaliera, per il solo profilo alberghiero, costava al pubblico qualcosa come 6-700 mila lire al giorno. Una tariffa da albergo superlusso sul canal Grande. Una cosa inconcepibile, nota a tutti, da tutti denunciata, un problema mai risolto.
     Pagava lo Stato, praticamente a piè di lista. Non è più possibile. Così le regioni dovranno far fronte al disastro dei conti della sanità con risorse proprie, recuperandole da altre funzioni che ne soffriranno e dalle imposte e  tasse regionali.
     E’ il primo acconto di federalismo fiscale, non proprio quello che si attendono i leghisti che ritengono che nell’Italia federale gran parte delle risorse devono rimanere sul territorio. Così come ritengono che finora le opulente (fino a ieri) regioni del Nord davano alla comunità nazionale più di quanto ricevessero. Una leggenda smentita dalla Ragioneria Generale dello Stato e dall’Istituto di Studi sulla Contabilità Pubblica (I.S.Co.P) già anni addietro.
     Come sempre in Italia si chiude la stalla quando i buoi sono fuggiti. La sanità ha rappresentato ovunque la spesa più rilevante delle regioni, un settore dove fare affari di ogni genere. Gli esempi non servono, sono sotto gli occhi di tutti.
14 maggio 2010

Tra stress fisico e logoramento politico
Il Cavaliere è stanco
di Senator

     Mi ha colpito Berlusconi in televisione, la sera prima della definizione del piano di salvataggio europeo, quando si andava delineando la soluzione sulla base del piano Sarkozy Merkel, poi presentato al pubblico italiano come l’accordo Sarkozy Berlusconi. Intervistato dalla televisione, il Presidente del Consiglio afferma di essere soddisfatto perché è prevalsa la linea italo francese. Alla richiesta di chiarimenti ribadisce è prevalso l’accordo tra Italia e Francia. Ed alla successiva domanda dei giornalisti dice che è passata la linea portata avanti da Italia e Francia. Per tre volte il Cavaliere ribadisce un concetto astratto, quello della linea politica, dell’intesa tra i due paesi. Non spiega niente. Neppure vagamente accenna al contenuto della posizione italo francese. Avrebbe potuto dire qualcosa di generico, del tipo la Banca Centrale Europea interverrà per assicurare la tenuta dell’euro, o qualcosa di simile.
     Il premier, invece, ripete per tre volte lo stesso concetto, praticamente con le stesse parole, sembra quasi balbettare. E’ evidente che è stanco. E’ logico che lo sia dopo il tour de force al quale la gravissima situazione della Grecia e le difficoltà emergenti in Portogallo e Spagna costringono i governanti d’Europa, preoccupati del contagio, di quello che è stato chiamato “effetto domino”.
     Il premier stanco è anche l’immagine di un leader logorato dalla guerriglia che gli porta Gianfranco Fini, che non ha gran seguito, ma desta comunque preoccupazione perché quella goccia che quotidianamente l’ex leader dell’ex Alleanza Nazionale fa cadere sulla pietra del Popolo della libertà più che per scavare per tentare di allargare le crepe che naturalmente caratterizzano il composito partito creato da Berlusconi, fatto di ex socialisti (soprattutto) ex democristiani ex socialdemocratici ed ex repubblicani, con qualche liberale tanto per consentire al Cavaliere di dire che anche lui è liberale.
     Berlusconi fa spallucce. Fini lo infastidisce e basta. In realtà non ne ha paura. Il Presidente della Camera ha un seguito modesto, la stampa riprende le sue esternazioni perché fanno notizia come sempre fa notizia una parola fuori dal coro, perché la sinistra applaude all’ex leader della destra immaginando che possa essere il cavallo di Troia capace di favorire l’incursione nella cittadella del potere.
     Il Presidente del Consiglio e leader del maggior partito italiano è tentato dallo scioglimento anticipato delle Camere per nuove elezioni nella convinzione, suffragata dal recente successo elettorale nelle elezioni regionali, che potrebbe fare il pieno, frenare l’espansione della Lega, un’armata che avanza ma a passo lento e ridurre ai minimi termini la componente finiana, dopo che ha portato dalla sua parte La Russa, Gasparri e Matteoli.
     La scelta non è facile. C’è il rischio che esplodano le contraddizioni del PdL e che la Lega cresca più di quanto prevedibile, anche al Centro. Le dichiarazioni prudenti, ragionevoli, ispirate a senso dell’attualità dimostrano che il partito di Bossi punta in alto. Anche qualche battuta antiunitaria non rallenta l’espansione del partito nato nel Nord Est. Gli italiani sono preoccupati della situazione economica, della carenza di lavoro e cominciano a pensare che il Cavaliere sia sul viale del tramonto. Lui lo sente e si preoccupa.
13 maggio 2010

Scajola: più preoccupato che arrogante
di Senator

     E’ parso un atto d’arroganza, di quelli ai quali la casta ci ha abituato, ma, in verità, la decisione di Claudio Scajola di non andare a testimoniare a Perugia quale persona “informata sui fatti” è in realtà evidentemente motivata dalla preoccupazione di passare da testimone ad indagato.
     “Vedrò i magistrati. Il 14 andrò a Perugia e dopo riferirò al Parlamento”, aveva detto l’ex Ministro dello sviluppo economico il 3 maggio. Ieri il suo avvocato,Giorgio Perroni, dice che Scajola non andrà perché, dice, non è assicurato “il rispetto delle garanzie difensive normalmente previste”. Perché, “sulla base delle notizie di stampa, lui è soggetto solo formalmente non indagato ma sostanzialmente indagato perché lo accusano di cose non vere che però tali sono riportate”.
     Si tratta di una dichiarazione che si commenta da sola, una confusa giustificazione indotta da un’evidente preoccupazione. Se l’ex Ministro non ha niente da temere può certamente documentare la correttezza del suo operato, spiegare con quali fondi ha potuto acquistare l’appartamento fronte Colosseo per una cifra, a quel che si legge sui giornali, che tutti avremmo speso volentieri per ottenere lo stesso immobile.
     Tutto qui. Il ruolo pubblico dell’ex Ministro impone a lui un obbligo di chiarezza, quello che un tempo era la regola per cui ogni pubblico amministratore, all’atto di assumere la carica doveva rendere pubblico l’ammontare del suo patrimonio e  che avrebbe dovuto ugualmente presentare a rendiconto al termine della gestione pubblica del potere.
     E’ un fatto che oggi molto spesso si entra in politica con le classiche toppe sul sedere, spesso senza aver mai fatto un lavoro, per poi arricchirsi rapidamente.
13 maggio 2010

Federalismo fiscale dietro l’angolo
E’ in arrivo la nuova “service tax” proposta dal Ministro Calderoli.
di Senator

     “È il momento della “service tax” -scrive l’On. Antonio Borghesi sul suo sito www.antonioborghesi.it, parlamentare veronese dell’Italia dei Valori – un’imposta unica chiamata a sostituire gli attuali balzelli degli enti locali come tassa sui rifiuti, di scopo o addizionale Irpef e Ici, ma non sulla prima casa. L’idea è stata lanciata questa settimana dal ministro della Semplificazione Roberto Calderoli di fronte alla commissione bicamerale sul federalismo. “Non abbiamo intenzione di reintrodurre l’Ici – ha spiegato l’esponente del Carroccio – il nostro obiettivo è quello dell’autonomia impositiva e della semplificazione delle entrate tributarie”. Insomma, “un lavoro di sfoltimento” che però, spiegano gli esperti, non potrà che venire alla luce alla fine del percorso federalista”.
     “Se si trattasse di una mera sostituzione di altre imposte, senza alcun aumento della pressione fiscale, potremmo anche convenirne. Ma in una situazione come quella attuale, con i Comuni ormai impossibilitati a qualunque azione a causa del “patto di stabilità”, non fidarsi è meglio. La “excusatio non petita” che intendono reintrodurre l’Ici ci preoccupa non poco. Non ci stupiremmo infatti che, come spesso accaduto in passato, la “service tax” si risolvesse in una nuova “fregatura” per i contribuenti onesti, costretti a pagare di più per avere meno servizi di prima. Noi di Italia dei Valori vigileremo sulla questione “dalla parte del cittadino”.”
     Abbiamo riportato integralmente l’opinione dell’On. Borghesi che, tra l’altro, è Professore Ordinario di Economia e Gestione delle Imprese presso la facoltà di Economia dell’Università di Verona, per aprire un dibattito sul tema del federalismo fiscale, il passo avanti richiesto dalla Lega, preteso come condizione per la prosecuzione dell’esperienza governativa con Berlusconi.
     Ora non è dubbio che il federalismo o è fiscale o non è e che quindi non è immaginabile la nuova articolazione della repubblica nata dalla riforma del 2001 senza un’ampia autonomia fiscale delle regioni Il fatto indubbiamente positivo sta nela responsabilità che gli amministratori regionali e, di seguito quelli delle province e dei comuni assumeranno dinanzi ai cittadini contribuenti per i servizi che le amministrazioni renderanno. Finirà, dunque, quella sorta di irresponsabilità per la quale oggi gli amministratori locali gestiscono risorse in gran parte trasferite dallo Stato, spesso generosamente pronto a ripianare i debiti, com’è accaduto per Roma.
     Tuttavia la preoccupazione dell’On. Borghesi non è espressione di una opposizione a tutti i costi neri confronti del governo in carica e della sua maggioranza. E’, infatti, inevitabile che regioni ed enti locali, di fronte alla necessità di far fronte ai servizi richiesti ed in presenza di gravi situazioni deficitarie, come quelle provocate dall’irresponsabile ricorso ai derivati, saranno in molti casi indotti in materia di imposte e tasse locali ad effettuare alcuni “ritocchi” la parolina magica che serve ad edulcorare la cattiva notizia. E c’è da temere sempre, considerato che nel passaggio dalla lira all’euro a dare il cattivo esempio sono stati lo Stato e gli enti locali, il primo raddoppiando il canone RAI, i secondi perfino l’importo della sosta oraria nei parcheggi a pagamento. Lo ha fatto Roma portando ad 1 euro la sosta oraria che in termini di lire ne valeva 1000.
2 maggio 2010

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