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Febbraio 2013

Straordinaria improntitudine dei partiti
Continuano a non capire
di Senator

Si è percepito fin dai primi commenti. I partiti politici non hanno capito cosa è successo, o fanno finta di non capire. Perché, in questo caso, dovrebbero andare a casa, come ha detto Grillo, tutti, e cambiare almeno il 90 per cento di quanti siedono in Parlamento.
La lettura dei risultati elettorali vuol dire questo, che un italiano su quattro non vuole più essere governato da chi , ci ha portato all’attuale situazione finanziaria ed economico sociale, avendo gestito il potere negli ultimi venti anni, indipendentemente dai ruoli svolti, di maggioranza o di opposizione, perché in democrazia vale tanto chi è a Palazzo Chigi e dintorni e chi, nelle Assemblee parlamentari, controlla il potere.
È questo il dato dal quale si deve partire. Ed i partiti che intendono rimanere sulla scena hanno il dovere, nei confronti del proprio elettorato, di cambiare i cavalli in gara, scegliendo quelli che possono correre e vincere nello scenario che si è andato delineando, lontano dalla politica degli affari. Perché questo è ciò che ha caratterizzato questo Paese nel quale la classe dirigente, tutta o nella sua stragrande maggioranza, si è caratterizzata per aver perseguito interessi personali, in modo spesso volgare, attraverso commistioni con interessi economici incompatibili con quelli che la comunità richiede. Gli scandali che quasi quotidianamente occupano le prime pagine dei giornali.
A questo lavacro sacrosanto chiama tutti il successo di Grillo che vuol dire che la misura è colma, che la straordinaria protesta affonda le sue radici nel disagio della gente, diffuso e grave. Per i posti di lavoro perduti, per il peso della pressione fiscale, che ci allontana dall’Europa.
Se questo non viene capito è inevitabile che l’ingovernabilità che si profila all’orizzonte affondi ancora di più questo Paese, con rischi per la democrazia.
26 febbraio 2013

Il risultato elettorale
Comunque, voltiamo pagina
di Senator

            Mi dà fastidio esordire con un sonoro “l’avevo detto”! Ma è così. Questo giornale, procedendo da una lunga analisi iniziata nel 2006 con il libro del nostro direttore “Un’occasione mancata” (Roma, Nuove Idee), ha sistematicamente monitorato l’andamento della politica in Italia, dal clamoroso insuccesso del Centrodestra al termine della legislatura 2001-2006, dopo cinque anni di gestione del potere con una straordinaria maggioranza, all’esperienza del 2008-2011, a dir poco penosa.
Nonostante quella condizione, che avrebbe consentito di portare a termine le riforme programmate, e sulla base delle quali i partiti della coalizione avevano ottenuto tantissimi voti, il centrodestra non è riuscito, alla scadenza della legislatura nel maggio del 2006, a portare a casa altro che una pessima ipotesi di riforma costituzionale, bocciata dal referendum popolare.
La disattenzione per i problemi veri dell’amministrazione pubblica, attraverso la quale i governi realizzano gli obiettivi contenuti nell’indirizzo politico condiviso dall’elettorato, ha portato il Governo Berlusconi alla paralisi, con effetti negativi sul consenso elettorale, al punto che nelle elezioni del 2006 per il rinnovo del Parlamento nazionale è prevalso per un soffio il centrosinistra incarnato da Romano Prodi. Una vittoria di misura, come quella che si profila oggi, che ha consentito di governare con le stampelle di qualche senatore a vita, con problemi non indifferenti sotto il profilo della democrazia, in assenza di rappresentatività democratica.
Siamo alle solite, si direbbe. Con la variabile Grillo, effetto di una impennata di indignazione degli italiani che, a sentire i dibattiti televisivi di questa sera, i partiti non hanno compreso. Soprattutto il Partito della Libertà che si presenza con le facce di Roberto Formigoni e Maurizio Lupi che continuano a fare la solita esaltazione di Berlusconi e del suo ruolo nel risultato. Idee zero, altro che quelle, che piacciono al capo, di guerra alla magistratura. Una guerra perduta in partenza.
Non hanno capito che, comunque, con l’elezione di domenica e lunedì l’Italia ha voltato pagina. Nel senso che non sarà più come prima.
Attenzione, che il risultato, in presenza di una squadra modestissima quando non coinvolta in dubbie questioni di moralità pubblica, sia effetto dell’azione del Cavaliere, di promesse mirabolanti e fantasiose, che Maurizio Ferrara ha candidamente affermato essere boutade “elettorale”, cioè non realizzabili, non è revocabile in dubbio. Berlusconi ha questa capacità, che, del resto, tutti gli riconoscono. Sa fare la campagna elettorale, sa promettere, anche l’inverosimile e qui gli italiani gli credono, come dimostra la questione della restituzione dell’IMU che molti ingenui elettori sono andati a reclamare all’ufficio postale chiedendo indietro quanto pagato.
Sa vincere le elezioni, ma non sa governare. Non ha governato nel 1994, non nella legislatura 2001-2006, non nel 2008, nonostante avesse, ancora una volta la più grande maggioranza della storia della Repubblica.
È un fatto le cui conseguenze sono gravissime per il Paese che, invece, ha bisogno di iniziative per riequilibrare i conti pubblici, per immaginare una politica di sviluppo, perché gli italiani hanno bisogno di crescere, di trovare posti di lavoro in un quadro di serenità e fiducia.
Non è chiaro quale potrà essere la scelta di governo, di fronte allo scenario che si va profilando al termine degli scrutini, quando, voto più voto meno, sarà dimostrato che il Paese è praticamente ingovernabile o, nella migliore delle ipotesi, di scarsa governabilità.
Tornare alle urne? È stato ipotizzato nelle ore convulse del pomeriggio, ma è certo che non potrà avvenire a distanza di pochi mesi, se si vuole evitare che Grillo raddoppi i suoi voti. E’ successo in Grecia, in presenza di un elettorato mobile. Non è pensabile in Italia in tempi brevi.
Si proverà, dunque, a governare. Un “governicchio”, come si dice, sia che lo faccia la sinistra, sia che prevalga la destra, con difficoltà per tutti di presentarsi alle prossime elezioni con buone possibilità di prevalere.
Il Pd chiamerà Renzi? E la destra dell’inevitabile dopo Berlusconi? Dove sono gli uomini, dove le forze?
Come Diogene cercava l’uomo. Anche a destra occorre questa ricerca. In tempi brevi. Ma lo consentiranno quelli che con spocchia declamavano la vittoria,  gli Alfano e i Lupi?
25 febbraio 2013

E se Grillo?
di Senator

Paludato, accademico, uomo di straordinaria cultura umanistica e gran professionista del diritto, un mio amico, che stimo molto per la rettitudine che lo contraddistingue come avvocato, da me incalzato su chi avrebbe avuto il suo voto ha risposto senza esitazioni, Grillo.
Voto Grillo, ha aggiunto, perché questa classe politica deve uscire di scena. Ci ha regalato anni di gestione del potere tra sprechi e corruzione senza che l’Italia giungesse preparata ad affrontare la crisi della quale da anni si diceva, da quando gli Stati Uniti hanno conosciuto lo scandalo dei subprime. In sostanza, è la tesi del mio stimato amico, la crisi è certamente mondiale ma i suoi effetti sono stati diversi a seconda delle condizioni dei singoli paesi e della prontezza con la quale i governi hanno risposto alle prime avvisaglie dello tsunami finanziario.
La tesi ha indubbiamente del vero. Non c’è dubbio, infatti, che tra destra e sinistra, al governo, pur per periodi diversi, negli ultimi venti anni, è stato fatto poco o niente per rendere questo nostro Paese competitivo in un quadro di crescita dell’economia. Un’economia che ha certamente degli elementi di differenziazione non di poco conto e preziosi, basti pensare al turismo, un grande volano per i settori più vari dei servizi e della produzione, soprattutto artigianale che in Italia, dalle Alpi al Lilibeo, caratterizza in modo significativo l’intera penisola.
Invece di turismo si parla poco. C’è un Ministro, ottima persona, Pietro Gnudi, del quale non si è sentito parlare, ed un Ministro per i beni e le attività culturali, la ragione del nostro turismo, Lorenzo Ornaghi, altrettanto evanescente.
L’uno e l’altro non hanno fatto neppure la mossa, come si dice. Nessuno si è accorto di un programma o di un progetto, semplicemente perché non c’era.
Allora Grillo. Perché riempie le piazze, si chiedono tutti? E chi ricorda che qualcuno in passato ebbe a dire “piazze piene, urne vuote”, per indicare la diversità tra le presenze ai comizi e i risultati elettorali, deve anche riflettere su una realtà nuova, sul messaggio che Grillo invia alla gente “via tutti, perché tutti hanno male amministrato in questi anni”.
Quelle piazze gremite di folla, dunque, fanno paura. A tutti. Ma soprattutto a chi rischia di essere maggioranza, perché è evidente che sarà una maggioranza di una minoranza, complice il porcellum, per il prevedibile assenteismo e perché nessuna coalizione potrà raggiungere effettivamente una maggioranza solida che consenta di governare con quella sicurezza e continuità della quale il Paese ha bisogno.
È prevedibile, infatti, un risultato alla Prodi. Una maggioranza incerta, soggetta alle imboscate di una minoranza che dovrà fare vera opposizione se si vuol preparare a recuperare consensi nel Paese in vista di altre competizioni elettorali, le regionali, le europee e, in prospettiva, le amministrative.
Così si comincia a sentire qualche voce fuori dal coro, che immagina “difficile” ma non più impossibile governare con Grillo. Anche il Presidente del Consiglio, Monti, intervistato a Radio Anch’io ritiene che “quelle energie è fondamentale non trascurarle e snobbarle ma convogliarle in un modo di trasformare la politica”.
E percepisce che quelle piazze gremite hanno una “funzione utile di segnalazione di rabbia e insoddisfazione per la politica tradizionale, ma è una protesta da cui è difficile vedere emergere una proposta”. Aggiungendo: “la forza di Grillo sono gli elettori che lo voterebbero”.
La paura di Grillo smuove il Premier e lo porta a considerare quello che fino a poco prima aveva escluso. “Penso che Bersani possa governare molto bene, ma al di là dei ministeri che ha retto in passato, anche lui non è comprovato, e dovrà essere comprovato come presidente del Consiglio. Bisognerà vedere se è nella condizione o no”.
Va detto che l’esplosione di Grillo è anche l’effetto dell’insufficienza del Governo Monti. A parte Gnudi e Ornaghi, di cui ho detto, molti altri ministri si sono rivelati evanescenti. A cominciare da quello che era stato presentato come l’enfant prodige, quel Corrado Passera, ottimo comunicatore ma del quale non abbiamo visto significative iniziative capaci di colpire l’immaginazione e l’attenzione dei cittadini.
Grandi assenti le semplificazioni. Era una sfida nella quale il Professore Monti avrebbe dovuto riversare le sua migliori risorse. Perché è lì che si gioca la credibilità di un Governo che intenda restituire efficienza agli apparati pubblici ed alleggerire il fardello di adempimenti, spesso inutili o comunque eccessivamente complessi, che gravano sui cittadini e sulle imprese. Invece, impallinato dalle lobby ministeriali e delle professioni, il Professore, che avrebbe potuto nei primi cento giorni ottenere tutto dai partiti annichiliti dall’essere stati espropriati del governo, ha mollato la presa, prova della insufficiente conoscenza degli apparati, una gravissima limitazione per un Presidente del Consiglio al quale la Costituzione, all’art. 95, affida la direzione della “politica generale del Governo”, essendone responsabile. Inoltre precisa il Presidnete del Consiglio “mantiene l’unità di indirizzo politico ed amministrativo promuovendo e coordinando l’attività dei ministri”. Per cui la conoscenza dell’apparato è essenziale.
Con questa eredità il futuro politico di Monti è certamente precario. Poi, come la storia insegna, potrà accadere di tutto, ma è certamente improbabile che sarà ministro e, ancor meno, che possa tornare a Palazzo Chigi. Ma potrebbe presiedere il Senato. La seconda carica dello Stato costituirebbe una adeguata remunerazione ove il centro montiano appoggi un Governo Bersani. Meno probabile la Presidenza della Repubblica. Ma non impossibile.
C’è anche l’ipotesi di un nuovo governo di salute pubblica, con una maggioranza simile a quella che ha retto il Governo del Professore dal novembre 2011.
Grandi problemi, grande maggioranza, vien da dire. Una ipotesi, tuttavia, alla vigilia delle elezioni, naturalmente rifiutata da tutti. Sarebbe, infatti, una prova di scarsa fiducia in se stessi.
Ma nella serata del 25, dopo il conteggio dei voti, gli scenari potrebbero cambiare. Se Grillo, ad esempio, giungesse a quel 20-22 per cento che alcuni sondaggi gli attribuiscono sarebbe difficile immaginare una maggioranza autosufficiente.
Allora i dubbi e le previsioni che ci impegnano in questi giorni torneranno di attualità e si misureranno non con ipotesi ma con dati reali.
20 febbraio 2013

“Corruzione Spa”, l’unica “impresa” che non conosce crisi
di Salvatore Sfrecola

            L’espressione è ricorrente, e non potrebbe essere diversamente. Perché è facile dire, basta aprire un qualunque giornale in qualunque giorno dell’anno, che tra le imprese italiane quella che non conosce crisi è “Corruzione s.p.a.”. Con autorevoli azionisti, amministratori pubblici, ai vari livelli di governo, dirigenti delle amministrazioni pubbliche, funzionari e via scendendo nella gerarchia degli uffici.
            Perché, anche se i mezzi d’informazione ci danno notizia prevalentemente dei grandi illeciti, le grandi tangenti che hanno alimentato partiti e correnti di partito ed arricchito gli intermediari, la corruttela corre lungo i vari procedimenti amministrativi e contabili, quella che Luigi Giampaolino, Presidente della Corte dei conti, definisce fenomeno “burocratico/pulviscolare”, che contrappone al fenomeno “politico-ammnistrativo-sistemico”.
            In realtà le due diverse forme di corruttela, che, così definite, individuano aspetti diversi del fenomeno, concorrono a delineare l’area vastissima dell’illecito che attanaglia questo Paese, dove la mazzetta è la regola a tutti i livelli, non solo per ottenere favori non dovuti ma anche per avere ciò che spetta. Come nel caso degli imprenditori che “ungono” le ruote dell’ufficio che liquida le fatture per ottenere il pagamento di quanto dovuto, che sarebbe difficile realizzare nel marasma dei pagamenti arretrati delle pubbliche amministrazioni.
E così, se la corruzione “sistemica”, a livello di grandi mazzette, altera le regole del mercato, nel quale mette fuori gioco le imprese oneste che non vogliono cedere all’illegalità, e scoraggia gli imprenditori stranieri dall’operare in Italia, la corruzione “burocratico/pulviscolare” colpisce una più vasta area di cittadini e imprenditori, quotidianamente, quando si chiede un’autorizzazione delle tante, in alcuni settori troppe, che le leggi ed i regolamenti richiedono. È una situazione figlia delle procedure farraginose, spesso inutili, che azzoppano cittadini e imprese e che da tempo si chiede subisca salutari tagli, attraverso quelle semplificazioni che i governi spesso promettono, salvo poi a fare marcia indietro, alla prima levata di scudi delle lobby del potere amministrativo, del commercio e delle professioni.
E così, sacrosanti principi costituzionali, dall’imparzialità alla legalità, al buon andamento con i corollari dell’efficienza ed effettività, scritti nelle tavole delle leggi, rimangono sulla carta anche perché la riforma organizzativa e funzionale delle pubbliche amministrazioni, anch’essa tante volte annunciata, per restituire dignità e vigore agli apparati pubblici, rimane un’enunciazione alla quale non seguono fatti, cosicché, oltre a pregiudicare l’economia nazionale la corruzione delegittima la stessa pubblica amministrazione alla quale il cittadino guarda sempre con maggiore diffidenza
Così, mentre il Prodotto interno lordo nel nostro Paese è calato nel 2012 del 2,2%, secondo il Servizio anticorruzione e trasparenza del ministero alla Funzione pubblica, il mondo della corruzione muove ormai un giro d’affari da 60 miliardi l’anno, cifra con la quale, come è stato notato, in Borsa si possono comprare Fiat, Enel e Unicredit messe assieme.
Secondo Transparency International nel 2011 l’Italia era al 69esimo posto (su 179 Paesi) quanto alla percezione del malaffare nella pubblica amministrazione. A fine anno la classifica è cambiata, in peggio, perché siamo al 72esimo posto, dietro Ruanda, Lesotho e persino dietro Cuba.
Secondo Repubblica il malaffare non grava solo sulle imprese perché anche lo Stato ne subisce l’effetto con un sovrapprezzo medio del 40% sulle opere pubbliche. In sostanza, sempre secondo il quotidiano romano, sui 225 miliardi di spesa previsti dal governo Monti nel piano di infrastrutture strategiche 2013-2015 si devono mettere in preventivo una novantina di miliardi in più, per le tangenti.
Attendiamo gli effetti della legge 6 novembre 2012, n. 190, che ha dettato “disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella Pubblica Amministrazione” che per la prima volta non si limita ad una revisione del sistema sanzionatorio penale ma introduce elementi di novità sotto il profilo amministrativo prevedendo forme di monitoraggio e verifica che dovrebbero intercettare fenomeni di corruzione. La riforma che attende ora la sua prova più difficile, quella della sua realizzazione attraverso una revisione di strutture e procedimenti che presuppone, è ancora il Presidente della Corte dei conti a parlare, una “conoscenza delle pubbliche amministrazioni nei loro vari livelli e nelle loro variegate conformazioni, fino a quelle più insidiose aventi un’ambigua e sovente ingiustificata forma privatistica; consapevolezza dei contesti, anche economico-finanziari nei quali esse operano; volontà e capacità di incidere, lasciando al giudice penale – nonché al giudice contabile nella sua specifica sfera – l’opera, auspicabilmente sempre più eventuale, di chiusura del sistema”.
Si dovrà passare rapidamente dall’auspicio ai fatti, perché tutti devono capire se si fa sul serio.
18 febbraio 2013

Verità e ipocrisie
Provvigioni e tangenti
di Salvatore Sfrecola

Avvisi di garanzia e arresti in giro per l’Italia ci dicono che il malaffare è diffuso, è “sistemico”, come dice il Presidente della Corte dei conti, Luigi Giampaolino, a proposito della corruzione, spiegando che da tempo si è avuto modo di rilevare che “è divenuta da fenomeno burocratico/pulviscolare, fenomeno politico-amministrativo-sistemico”.
E così, a proposito delle presunte tangenti pagate per la vendita di elicotteri Agusta all’India, si scontrano Berlusconi e Bersani, con l’intervento di Scaroni e di Zanda. E intanto il governo indiano sospende il pagamento della fornitura perché evidentemente non vuole essere accusato di comprare previa mazzetta.
Quale la verità? Senza entrare nel merito di questioni che non si conoscono ancora, c’è una realtà della quale il Cavaliere, che è uomo di mondo, dice di essere consapevole. Senza mazzette in alcuni mercati non si entra, soprattutto nelle aree dove la politica domina incontrastata anche le scelte delle amministrazioni, terzo mondo e paesi dove dominano dittature, specie se ammantate da bulgare democrazie.
È inutile far finta che non sia vero. “Non escludo che succeda, ma non dovrebbe succedere”, dice Bersani che invoca “codici di comportamento su scala europea perché ci deve essere la garanzia che i vertici aziendali siano responsabili di protocolli condivisi che escludano vicende di questo tipo. Vogliamo avere un mercato pulito”.
Probabilmente avviene quasi dovunque. Magari si chiamano provvigioni, che, quando sono “pulite”, costituiscono un istituto noto al diritto civile nell’ambito del contratto di commissione (art. 1731 C.C.) e disciplinato nei particolari, tanto che se la misura della provvigione spettante al commissionario non è stabilita dalle parti si determina secondo gli usi del luogo in cui è compiuto l’affare. In mancanza “provvede il giudice secondo equità” (art. 1733 C.C.).
Se il contratto di fornitura, dunque, è stipulato a seguito di mandato (commissione) va pagata la provvigione, che è cosa diversa dalla tangente o mazzetta, che dir si voglia. Ma potrebbe inglobarla. Nel senso che il commissionario potrebbe aver dovuto “ungere” qualcuno e, pertanto, voler rientrare dal pagamento illecito che ha fatto per conto del cliente.
Ha certamente ragione Berlusconi sulla necessità di pagare tangenti per un’impresa italiana che opera in certi mercati. Per cui effettivamente senza mazzetta in quei mercati non si entra.
Di fronte a questa realtà, che penalizzerebbe le imprese italiane si possono assumere due atteggiamenti. Di assoluto rifiuto della ipotesi di ammettere questi pagamenti, come dicono Bersani e Zanda o Scaroni, il quale afferma che non è necessario pagare per ottenere commesse, o si disciplina la materia. Non è facile ma è necessario, considerato che, come si è detto, laddove la corruzione dilaga a livello politico e amministrativo o dei grandi enti di stato senza mazzetta non si fanno affari.
È giusto dire, come fa Luigi Zanza, Vicepresidente dei senatori del PD, che “un conto sono le commissioni legali pagate come compenso per attività professionali di intermediazione legalmente esercitate. Altra e ben diversa cosa sono le tangenti pagate a pubblici ufficiali, ad amministratori, a parlamentari stranieri per facilitare sottobanco l’acquisizione di commesse e forniture. Questa è ‘corruzione di pubblico ufficiale straniero'”. Infatti, la fattispecie è disciplinata dall’art. 322-bis del codice penale.
La questione è delicata, anzi delicatissima. Perché occorre trovare il modo per contabilizzare in bilancio una somma che non può essere giustificata non solo da una fattura ma neppure da una ricevuta, sia pure informale. Considerato anche il sospetto, che è stata certezza in molti casi, che una parte della somma destinata ad “ungere” la ruota estera sia poi rientrata in Italia a vantaggio dello stesso manager o dei partiti di riferimento. In sostanza il pagamento della tangente ha dato luogo ad una “ritenuta” dalla incerta destinazione.
Mi rendo conto che non è facile definire questa materia, ma in qualche modo occorre provvedere, altrimenti delle due l’una o si esce da certi mercati o si mettono a rischio manager capaci di ottenere commesse, cosa non facile. Anche perché bisogna avere relazioni importanti per non vedersi rifiutata la mazzetta, magari con il rischio di una denuncia.
Tenendo presente che è una assoluta ipocrisia pensare che in certi mercati sia possibile presentarsi e partecipare a gare “pulite” e che uscire dalla competizione significa per una impresa rinunciare a produzioni, con effetti sull’occupazione, il legislatore deve individuare un sistema trasparente che consenta di iscrivere in bilancio la “spesa” per la tangente, senza che essa venga alla luce come tale, in quanto potrebbe creare problemi al percettore estero della somma.
Occorre trovare la definizione di questa spesa che in qualche modo va anche documentata. In sostanza è una commissione che non può apparire, anzi va accuratamente oscurata, ma che è stata pagata e che, pertanto, non può essere estranea al bilancio della società o dell’ente italiano, anche ad evitare il dubbio che l’agente che ha provveduto al pagamento abbia fatto la “cresta” e si sia intascato, per se e/o per gli amici parte di quanto è stato destinato al corrotto estero, il quale non deve neppure sospettare di aver fatto la figura di essere stato più esoso del vero, cioè di aver incassato più di quel che si è effettivamente messo in tasca.
Mi rendo conto che nella Tangentopoli che disgusta, oggi più che mai gli italiani, convinti che sia peggio di prima, la “catastrofe etica” di cui parla Bersani non può essere negata. Ma una cosa è combattere la corruzione in Italia dov’è possibile, e meglio si potrebbe fare se la legge anticorruzione fosse stata confezionata con maggiore attenzione, altro è tener conto in qualche modo della realtà di alcuni mercati corrottissimi, senza incappare nella previsione dell’art. 322-bis che punisce la corruzione di persone che esercitano funzioni o attività corrispondenti a quelle dei pubblici ufficiali e degli incaricati di un pubblico servizio nell’ambito di stati esteri.
Si potrebbero prevedere spese “di rappresentanza” da commisurare insieme a quelle, eventuali, di provvigione all’importo della fornitura, da giustificare dall’amministratore o funzionario dell’impresa italiana con una dichiarazione giurata da mantenere conoscibile solo per la magistratura e gli organi di controllo e non tassabile dal fisco? O c’è altra soluzione, la quale dia certezza che il pagamento sia condizione sine qua non della fornitura, secondo gli “usi” del posto (un eufemismo giustificato da una sorta di ragion di stato)? Qualcosa comunque va fatto perché, come dice Bersani, con molto equilibrio, quando non esclude che succeda, anche se “non dovrebbe succedere”, ed invoca “codici di comportamento su scala europea” perché i vertici aziendali siano responsabili di protocolli condivisi “che escludano vicende di questo tipo”.
Occorre, in sostanza, una regola che presupponga una iniziativa necessitata e, a suo modo, trasparente, anche se in ambito limitato perché si sappia che quella iniziativa è stata fatta nell’interesse dell’impresa e, in fin dei conti, dell’economia nazionale.
Sono temi da dibattere. E con questo spirito presento le riflessioni che precedono. Nella consapevolezza degli ambiti ristretti di una disciplina che consideri una realtà dalla quale non si può prescindere e che non possono essere solamente le imprese italiane ad ignorare.
L’ipocrisia non fa emergere la realtà ma la perpetua e l’aggrava. In certi casi è bene trovare una soluzione la quale garantisca che la “provvigione” anomala sia pagata per un interesse effettivo alla fornitura o all’appalto e che nessuno dei nostri, manager o politici, si sia messo in tasca qualcosa.
16 febbraio 2013

Le “dimissioni” di Papa Benedetto XVI
Un doloroso abbandono
di Salvatore Sfrecola

Sconcerto e dolore hanno accompagnato i credenti nella giornata delle “dimissioni” di Papa Benedetto XVI, una notizia che è stata letteralmente un fulmine a ciel sereno, come si dice, mentre a Roma pioveva ed un fulmine vero colpiva la cupola di San Pietro, quasi un segno tangibile dell’evento. Doloroso, per i credenti e per il Papa, certamente perché non è immaginabile che a cuor leggero il vicario di Cristo, scelto in Conclave con l’assistenza dello Spirito Santo, lasci per aver accertato che le sue forze fisiche non gli consentono più di sostenere la responsabilità della guida della Chiesa.
“Voi dite Beatissimo Padre, Santo Padre”, ho sentito dire una volta da Papa Paolo VI, rivolgendosi ai fedeli nel corso di un’udienza generale, ma “il Papa è solo”, solo con le sue responsabilità e le sue decisioni. Certo, ha i suoi consiglieri, ma le decisioni spettano a lui per la Chiesa universale e per singole comunità, specie quando, a provocare un suo intervento, sono comportamenti non conformi alla fede, dannosi per l’immagine della Chiesa e della Comunità dei credenti. Perché è certo che i casi di pedofilia, le disinvolte (per quanto si dice) attività finanziarie di sacerdoti e dello stesso Istituto per le Opere di Religione, sbrigativamente definito banca, offuscano l’immagine della Chiesa nelle sue varie articolazioni territoriali e dei singoli credenti, soggetti, nella migliore delle ipotesi alla critica ed all’ironia della gente.
Sul Papa hanno pesato certamente episodi di cronaca che hanno macchiato l’immagine della comunità religiosa della quale è pastore. E che vive a tutte le latitudini in condizioni diverse, spesso, come ci hanno detto le cronache, le persecuzioni ed il martirio.
Né la predicazione della Parola del Vangelo è meno ardua in questo inizio del terzo millennio nel quale c’è chi si premura di contrapporre fede a ragione, tradizione a modernità. Così capita spesso, ed è capitato anche ieri sera, nel corso delle varie trasmissioni organizzate in fretta e furia dalle televisioni, che ci fossero molti a dire come dovrebbe comportarsi il Papa, nella presunzione di saper addottorare chi guida la Chiesa su come dovrebbe esercitare quella funzione, come insegnare il Vangelo, come rapportarsi con il mondo, come guidare la Curia, e via dicendo.
Benedetto XVI è stato un grande Papa. Ne parlo al passato a seguito della decisione che ha assunto, “per il bene della Chiesa”, dolorosa espressione della quale pochi hanno colto la drammaticità. La rinuncia di un Papa, non è, come qualcuno ha detto e scritto, scendere dalla Croce di Cristo, perché Papa Ratzinger quella croce la porta con sé per aver ritenuto di non poterla più portare agli occhi del mondo, per essersi dichiarato pubblicamente inidoneo a continuare in quella difficile e solitaria testimonianza di fede.
Naturalmente, già dai primi commenti è stata posta in luce la complessità delle questioni venute al soglio di Pietro a dimostrazione che essere cristiani oggi è spesso più difficile di quanto è stato in passato, anche se la storia insegna che dirsi e professarsi seguace di Cristo non è stato mai semplice, all’interno delle coscienze e nei rapporti con gli altri.
E ricorre la contrapposizione tra religione e mondo moderno. Ma perché solo per i cristiani e per i cattolici in specie? Perché non per gli ebrei o i musulmani che pure, in modi diversi, vivono una religiosità che non sente l’esigenza di rincorrere le mode? Che non si preoccupa di apparire “vecchia”, perché vecchie non sono l’insegnamento e la dottrina religiosa.
Si carica tutto sui cristiani. E si spiega perché. Perché l’insegnamento di Cristo, la Buona Novella, ha sconvolto e continua a sconvolgere il mondo perché la contraddizione non è con il mondo moderno ma con tutto ciò che allontana l’uomo da Dio, che gli impedisce di vivere quella carità che proprio Papa Benedetto ha posto al centro del suo apostolato, come massima delle virtù, spesso ignorata anche nella Chiesa, come lui stesso ha detto più volte, denunciando la presenza del male, delle cattive pratiche.
All’indomani delle “dimissioni”, dunque, anche chi non è credente ha il dovere di rispettare la dolorosa rinuncia del Papa, di comprenderne le ragioni, evitando quelle poco decorose performance di intellettuali, filosofi e teologi della domenica abituati a straparlare, quando il tema merita una riflessione che sia riguardosa di un dramma spirituale e umano evidente.
           Invece è accaduto di sentire parole in libertà, alla ricerca delle ragioni di una scelta, pur evidente, per individuare contrapposizioni anche dove non ci sono per formulare previsioni su chi sarà il nuovo Papa.
           Sembrava questa la preoccupazione di Bruno Vespa a Porta a Porta. Capisco l’esigenza di fare spettacolo, di incuriosire, ma si è passato il segno, quasi fosse, come è stato notato, una trasmissione “ad esequie avvenute”. Bravi Cacciari e Ferrara, profondi, problematici. La cultura non è acqua. Da dimenticare Carlo Freccero, direttore di Rai4, presentato da Lilly Gruber come un profondo conoscitore di uomini e cose, capace di cogliere le realtà più nascoste. Ha detto che con le sue dimissioni il Papa “non è più il Vicario di Cristo, portatore di un ruolo di origine divina. Il Pontefice diventa un funzionario”. Tipico di un ex seminarista deluso. Per l'”acuto osservatore”, “di fronte all’energia delle nuove religioni, spudoratamente irrazionali, magiche, integraliste. La Chiesa non sa più comunicare il suo messaggio, e non è in grado di fronteggiare l’attacco che viene dalle centinaia di chiese evangeliche, metodiste, integraliste, mormone, che proliferano in America e si stanno diffondendo nel resto del mondo, a scapito della tradizione cattolica”. Aggiungendo che “il cattolicesimo – a differenza delle religioni rivelate – ha sempre cercato di interpretare lo spirito dei tempi, di evolvere insieme alla società”.
Sapevo che anche la religione cattolica si basa sulla rivelazione. Ma forse il mio insegnante di religione non era andato a scuola da Freccero.
Certo che per la prima volta un Pontefice, dopo seicento anni, “si dimetta” è un fatto straordinario. Lo ha fatto nel giorno della ricorrenza della prima apparizione della Vergine a Lourdes e lo ha giustificato con l’età avanzata che non gli consente di avere la forza necessaria per la sua straordinaria missione. Senectus ipsa est morbus, ha scritto Seneca e qualcuno prima di lui aveva detto, guardandosi allo specchio,  geron ei?, sei vecchio.
Ma non era un Papa!
12 febbraio 2012

Il falso alibi
di Salvatore Sfrecola

È inevitabile, ed, infatti, accade ad ogni elezione, che i candidati ed i loro partiti, per allontanare critiche per quanto non hanno fatto nella precedente legislatura, accusino del loro insuccesso, l’insufficiente forza elettorale ovvero l’iniziativa degli avversari i quali “non hanno voluto”!
È una scusa che usano anche le persone nelle vicende di tutti i giorni. Non fanno perché viene loro impedito. E così ritengono di stare a posto con la coscienza.
Questa volta gli insuccessi vengono attribuiti alle istituzioni. Nel senso che gli impedimenti vengono dalle leggi, a cominciare dalla Costituzione e, soprattutto dalla “burocrazia”, parola magica che, come evocata, assicura consensi tra la gente, in quanto su poche cose a destra e sinistra si è d’accordo come sulla critica alle amministrazioni, accusate, spesso a ragione, di essere di ostacolo al riconoscimento dei diritti ed alla realizzazione delle aspettative, in particolare per i professionisti e le imprese.
Addossare la colpa alle istituzioni è, in realtà, un falso alibi. Anche se è indubbio che un ammodernamento della Costituzione per quanto riguarda, ad esempio, il bicameralismo “perfetto”, che prevede identiche attribuzioni per le due camere, è da tempo auspicato anche in sede scientifica. Ugualmente una migliore definizione dei poteri del Presidente del Consiglio sarebbe certamente auspicabile, come una revisione del titolo V della seconda parte della Costituzione, che ha accentuato la fisionomia federalista della Repubblica a danno dell'”interesse nazionale”, in quanto tale e come espressione dell’unità della Nazione che l’ubriacatura regionalista ha messo in crisi anche nei settori più delicati dell’economia, come il turismo, la più grande nostra risorsa che andrebbe gestita in modo coordinato per rendere il massimo vantaggio in tutte le aree del Paese, tutte ugualmente belle dal punto di vista naturalistico e ricche di straordinarie bellezze storico artistiche.
È un alibi, dunque, che non regge e lo dimostra Silvio Berlusconi, che ne ha fatto un cavallo di battaglia, perché la sua maggioranza, la più ampia della storia d’Italia, non va mai dimenticato, è riuscita a far passare le leggi per le quali aveva uno specifico interesse, come alcune norme sul processo breve e quelle che costituiscono gravissimo ostacolo per l’attività delle Procure regionali della Corte dei conti.
Chi ha sentito richiamare le difficoltà che deriverebbero dal sistema costituzionale ha udito dire che il Presidente del Consiglio non ha la possibilità di revocare i ministri e che i decreti legge li autorizza il Presidente della Repubblica, ciò che il Cavaliere considera un ostacolo, che per approvare una legge ci vogliono mesi e poi le leggi “che non piacciono ai giudici” vengono rimesse al giudizio della Corte costituzionale che, essendo “di sinistra”, le boccia. Per cui vorrebbe che i giudici della Consulta li eleggessero le Camere (oggi su quindici, cinque li eleggono deputati e senatori in seduta comune, cinque li nomina il Presidente della Repubblica, cinque li eleggono le supreme magistrature).
Il discorso è sconclusionato. Partiamo, pertanto, dal fondo. È evidente che la Corte costituzionale è “di sinistra” solo quando abroga le leggi che interessano Berlusconi. Non sono mancati, infatti, casi nei quali il Cavaliere ha lodato l’operato dei giudici delle leggi quando hanno condiviso sue posizioni, ad esempio in materia di conflitti di attribuzioni.
Contrariamente a quello che Berlusconi crede l’attuale composizione è equilibrata, perché il Parlamento è organo politico che, considerata la maggioranza richiesta, è capace di eleggere giudici costituzionali sufficientemente sopra le parti e preparati professionalmente. Com’è sempre avvenuto.
Quel che è singolare, ma neppure troppo, è che al Cavaliere non viene in mente che quelle “sue” leggi vengono dichiarate incostituzionali perché hanno forzato lo spirito e la lettera della Carta fondamentale.
Risalendo lungo la scaletta delle “ragioni” della ingovernabilità, Berlusconi lamenta che i suoi decreti legge debbano essere emanati con decreto del Capo dello Stato. Anche qui al Cavaliere sfugge che quelle norme, che possono essere emanate solo in casi straordinari di necessità ed urgenza, come si esprime l’art. 77 della Costituzione, incidono immediatamente su diritti ed interessi ed è funzionale a questa loro “forza” un previo vaglio di costituzionalità da parte del Capo dello Stato. Un tempo, fino al 1988, i decreti legge, come un tempo i decreti reali, erano assoggettati al controllo preventivo di legittimità della Corte dei conti. Poi quella verifica è stata abolita in quanto ritenuta incompatibile con la natura legislativa della relativa statuizione. Errore grave perché altrove esistono per i provvedimenti d’urgenza vagli preventivi proprio per l’eccezionalità dell’intervento che priva le Camere della decisione, rimessa alla approvazione della legge di conversione.
A questo proposito il Presidente del Consiglio “privo di poteri” ha governato con molti decreti legge convertiti da leggi alle quali sono stati imposti maxiemendamenti che hanno impedito al Parlamento di fare il proprio dovere in piena autonomia.
Il fatto di essere sistematicamente ricorso a voti di fiducia dimostra che non è il sistema che non funziona. Quello che non è stato all’altezza del ruolo nella legislatura del 2001 – 2006 e in quella che adesso si chiude è la sua maggioranza composta di persone senza esperienza politica, spesso di scarsissima cultura giuridica, per non dire di buon senso, che è stata governata da presidenti dei gruppi parlamentari assolutamente incapaci.
Non mi soffermo sul bicameralismo “perfetto” il cui superamento è generalmente accettato. Diverso è come riequilibrare le attribuzioni delle camere, che credo comunque debbano essere mantenute in numero di due. Ma è questione che non può essere trattata nello spazio breve di questa riflessione.
Per quanto riguarda la revoca dei ministri la tesi, diffusa e ripetuta, che il Presidente del Consiglio non possa allontanare un ministro sgradito non mi ha mai convinto. I Ministri vengono da lui indicati al Capo dello Strato che li nomina. Con la stessa procedura possono essere sostituiti. Ci vorrà un voto parlamentare, trattandosi di una sorta di rimpasto? Non mi sembra un problema, soprattutto per chi ha la maggioranza schiacciante che ha accompagnato Berlusconi negli ultimi anni.
Allora? Allora il difetto sta nel “manico”, come si usa dire, nella sua capacità di governare, nella capacità dei suoi collaboratori, yes men inutili, anzi dannosi, per lui e per il Paese.
Per concludere, leggi alla mano, l’alibi non regge, è falso, ma fa presa sulla gente che non riflette, che non riesamina la storia di questi anni nei quali i governi hanno fatto certamente poco, quel poco che loro interessava, ma le cause vanno ricercate nella scarsa preparazione della classe politica.
Come dimostra la vicenda delle semplificazioni, un’altra occasione mancata di tutti i governo, compreso il Governo “tecnico” dal quale ci attendevamo maggiore coraggio ed una serie di interventi “chirurgici”, laddove le pastoie delle burocrazie e delle lobby impediscono ai cittadini ed alle imprese di esercitare diritti e di far valere interessi funzionali allo sviluppo delle iniziative in campo economico e sociale e alla crescita dell’economia.
11 febbraio 2013

Nella giornata del ricordo della sofferenza
degli italiani della Dalmazia un mio personale ricordo
di Salvatore Sfrecola

Oggi ricordiamo gli italiani cacciati dalla Dalmazia dove erano insediati da secoli sull’onda dell’espansione della serenissima repubblica di Venezia. Cacciati da una terra italiana, di cultura italiana perché italiani. E sarebbe ancora poco perché quelli che non hanno avuto la possibilità di lasciare quelle terre in fretta e furia, spesso con non più di quello che avevano addosso, sono stati uccisi dalle armate comuniste del Maresciallo Tito, in tutti i modi, i più spietati. I più gettati, spesso vivi, legati a gruppi nelle foibe, crepacci profondi aperti nelle rocce carsiche. Un massacro, una tragica “pulizia etnica” che in quelle regioni è stata successivamente sperimentata a carico di minoranze religiose, nel corso delle guerre e delle guerriglie di origine tribale, che negli anni scorsi hanno rinnovando odi lunghi secoli, spesso sotto gli occhi di indifferenti autorità militari occidentali, provenienti da paesi “civili”, da democrazie antiche.
Voglio ricordare oggi i nostri cittadini uccisi perché italiani e quanti hanno dovuto lasciare la loro terra riportando passi di un capitolo del mio libro “Un’occasione mancata” (Nuove Idee, Roma, 2006), dove ho raccontato della mia esperienza di Capo di Gabinetto del Vice Presidente del Consiglio, Gianfranco Fini, dal 2001 al 2006, un libro che ancora oggi mi chiedono e che molti vorrebbero fosse nuovamente pubblicato per il valore di osservazioni e considerazioni attualissime nella crisi attuale della Seconda Repubblica.
“Ho visto un anziano signore non riuscire a trattenere le lacrime in un Campo di Raccolta, vicino Trieste, a ricordo dell’esodo dei trecentocinquantamila italiani che dopo la guerra dovettero lasciare le terre italianissime dell’Istria e della Dalmazia. Affamati, impauriti, disorientati, con null’altro che un misero fagotto, che riassumeva i loro averi ed il lavoro di una vita e delle generazioni che li avevano preceduti, furono assistiti alla meglio in spazi angusti, pochi metri quadrati, un pagliericcio, un tavolo, un misero armadietto.
Noto quel signore elegante, accanto a sua moglie, abbracciati nella sofferenza del ricordo. Ad un certo momento fa il mio nome, rivolgendosi ad Enrico Para, il fotografo ufficiale di Fini. “C’è il Consigliere Sfrecola?” È il Professor Tullio Parenzan, docente di contabilità pubblica nell’Università di Trieste, studioso di valore, che ha soffermato la sua attenzione sui diritti del cittadino alla corretta allocazione e gestione delle risorse pubbliche, diritti che Parenzan in un famoso studio ha individuato come “diritti fondamentali dell’uomo e del cittadino”.
Con lui sono da tempo in contatto epistolare e telefonico, ma non lo conosco di persona. Né mai avrei pensato di incontrarlo in un Campo di Raccolta di profughi istriani.
Mi dice di sé, mentre sullo schermo passano le immagini tremende delle colonne di profughi che si imbarcavano sul piroscafo Toscana, che fa la spola tra l’Istria, Venezia ed Ancona. Bambino, aveva lasciato Pola portando con sé soltanto una gabbietta con un piccolo cardellino. Vedo gli occhi arrossati di sua moglie, profuga anch’essa. Lo sguardo che vaga sulle brande, sugli armadi di fortuna, sui miseri fornelli per cucinare quel poco per sopravvivere. Tutto parla di dolore, come le foto, le immagini degli occhi smarriti e impauriti di giovani, vecchi, di donne. Non ti viene voglia di parlare. Non sai cosa dire.
Vedo Fini commuoversi. Non è la prima volta. Da uomo di partito, con un’alta eredità culturale e ideale che richiama i valori della Patria, che vuol dire “terra dei padri”, ricorda, e da uomo di governo impegnato, pur tra mille difficoltà, a ricercare soluzioni dignitose, possibili giuridicamente e politicamente corrette. Per un’esigenza elementare di giustizia verso quanti hanno sofferto per il solo fatto di chiamarsi italiani e di sentirsi italiani.
Non è un discorso quello di Fini. Lui che tanta capacità ha di toccare le corde del cuore, preferisce parlare sommessamente, come in un colloquio privato. Ricorda come l’accoglienza dei profughi non fu sempre ispirata a cristiana pietà. Come nella sua Bologna, dove la Pontificia Opera di Assistenza aveva preparato alla stazione un pasto caldo per quanti provenivano da Pola, via Ancona. I comunisti bolognesi minacciarono lo sciopero in caso il convoglio si fosse fermato. E il treno non si fermò. “Gli esuli non elevarono proteste, sentendosi quasi in colpa per il disturbo arrecato e, piangendo, si dileguarono nella nebbia in direzione di La Spezia, verso i cameroni della Caserma Ugo Botti.
Proseguiamo per Trieste, dove si celebra la Giornata della Memoria, per scrivere una pagina di storia rimasta in bianco. E bianco è un piccolo nastrino che ci viene attaccato sul bavero della giacca, a rappresentare la pagina di storia che va scritta.
La commozione è grande nel teatro Verdi, il grande musicista, un nome con il quale nel corso del Risorgimento veniva evocata l’aspirazione all’unità d’Italia, sicché la scritta Viva Verdi, che la polizia austriaca non poteva contestare, per i patrioti significava “Viva Vittorio Emanuele Re d’Italia”. Commozione grande al canto di Vola colomba bianca, struggente richiamo alla separazione delle famiglie e delle persone, resa celebre da Nilla Pizzi. Dio del Ciel se fossi una colomba/ Vorrei volar laggiù dov’è il mio amor,/ Che inginocchiato a San Giusto/ Prega con l’animo mesto:/ Fa che il mio amore torni/ Ma torni presto. La voce della giovane soprano arriva in ogni ordine di posti nel teatro affollato. Non riesco a controllare la commozione!
Un canto, una volontà di riscatto, una richiesta di giustizia. Fini segue costantemente con particolare attenzione le questioni che gli pongono le associazioni degli esuli, pur tra le mille difficoltà dovute alla scarsità di risorse da mettere a disposizione degli indennizzi e per l’azione dei governi dell’ex Iugoslavia, soprattutto del croato, nonostante le pressioni che vengono esercitate in vista dell’ingresso nell’Unione europea.
Credo che non tutti si siano resi conto delle difficoltà che Fini incontra. E comprendo le difficoltà degli esponenti delle associazioni, soprattutto del senatore Lucio Toth e di Guido Brazzoduro, Presidente della Federazione delle associazioni degli esuli istriani fiumani e dalmati, ad ammortizzare la protesta.
Il 10 febbraio 2003 è la “Giornata della Memoria”. Nell’anniversario del Trattato di Pace (1947), che assegna alla Jugoslavia gran parte dell’Istria, Fiume e Zara, Brazzoduro spiega, in una dichiarazione ad “Arcipelagoadriatico” che “il Trattato non ha semplicemente definito i nuovi confini orientali dell’Italia ma ha comportato un esodo di massa della popolazione italiana rimasta al di là della linea di demarcazione, iniziato ben prima della sua firma. Vogliamo, aggiunge, che l’Italia sappia che non si è trattato solo di un avvicendamento tra Stati ma della tragedia di un popolo? per iniziativa di una minoranza violenta? (con) intimidazioni e vessazioni, fino all’eliminazione fisica delle persone”.
Incontro spesso Brazzoduro e Toth, un garbato signore che mi ricorda spesso di sollecitare Fini o di chiedere notizie al Ministero dell’economia sullo stato delle pratiche di indennizzo.
L’ultima volta che l’ho sentito al telefono mi chiede conferma della diramazione delle disposizioni per l’esposizione del Tricolore nella “giornata del ricordo”.
Ho sempre prestato la massima attenzione nei confronti di aspettative legittime e giuste. Loro hanno perso la terra dei padri, noi abbiamo perso un pezzo di Patria.
Ugualmente in più occasioni mi faccio portatore presso Fini delle preoccupazioni dell’Associazione Italiani Rimpatriati dalla Libia (AIRL), presieduta da una battagliera Giovanna Ortu che non esita a contestare il Vicepresidente quando giudica inadeguata la sua azione nei confronti di Gheddafi. Difficile gestire il grave malessere dei profughi, ma l’affidabilità del leader libico non è proprio quella consueta nell’esperienza della diplomazia internazionale”.
Nulla da aggiungere, a distanza di quasi dieci anni. Rimane il significato di un’esperienza, di certe emozioni, una ricchezza che non è sminuita dall’amarezza di una deriva politica che ci ha portato alla vigilia di un’elezione difficile, da ultima spiaggia, senza punti di riferimento. Senza che nessuno alzi con dignità ed onore il vessillo democratico liberale che da Luigi Einaudi a Raffaele Costa attirava giovani e meno giovani, nella speranza di costruire una Italia nella quale non ci fossero gli squilibri economici e sociali che parlano di ingiustizie gravissime nei confronti dei più deboli, dei giovani, che non trovano lavoro e di quanti lo perdono, degli anziani e dei malati, categorie alle quali vengono tolte risorse per effetto di sprechi e corruzione e  per quei 120 miliardi annui di evasione fiscale che costituiscono un triste primato tra i paesi europei.
10 febbraio 2013

Camera, Senato e Presidenza della Repubblica
non rendono il conto della gestione alla Corte dei conti – Ius singulare, da Medioevo
di Salvatore Sfrecola

            Il Medioevo del diritto è un magnifico libro di un maestro della storiografia giuridica, Francesco Calasso. Si legge come un romanzo affascinante che fa rivivere uomini e istituzioni lungo un arco di tempo significativo per la nostra cultura giuridica, con il recupero della tradizione giuridica romana, consegnata nel Digesto di Giustiniano.
            Il Medioevo non è, dunque, quel periodo dei Secoli bui dei quali ha fantasticato certa storiografia che non ne ha colto la faticosa ma straordinaria elaborazione del pensiero laico e religioso, passaggio tra la grandezza di Roma e la fioritura delle scienze e delle arti del Rinascimento che preparano l’Età contemporanea che nel diritto si esprime con il costituzionalismo.
Il Medioevo continua, tuttavia, ad essere ritenuto periodo di frammentazione dell’esperienza giuridica nel complesso articolarsi di regni e principati, di varia dimensione ed autonomia rispetto all’autorità dell’Imperatore. Un periodo nel quale si affermano enclavi che nell’esperienza giuridica danno luogo a forme di ius singulare, che disciplinano territori, istituzioni e soggetti dell’ordinamento che pretendono o ai quali viene riconosciuta un’autonomia legislativa o giurisdizionale, in gran parte di matrice classista, che escludeva dal diritto generale abbazie, conventi, comunità, città e poi gli ecclesiastici ed i nobili. Condizioni durate nel tempo ed eliminate solo dalla Rivoluzione Francese e dai principi di uguaglianza da essa affermati e rapidamente diffusi, al di qua e al di là dell’Oceano.
È dunque regola generale dello stato di diritto che tutti i soggetti dell’ordinamento siano sottoposti a identiche regole, rispetto alle quali non costituisce lesione del principio di uguaglianza, il fatto che “la persona del Re è sacra e inviolabile”, come si legge nell’art. 4 dello Statuto Albertino, che “il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni” (art. 90 della Costituzione) o che  “I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse o dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni”, né che “senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene, nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a perquisizione personale o domiciliare, né può essere arrestato o altrimenti privato della libertà personale, o mantenuto in detenzione, salvo che in esecuzione di una sentenza irrevocabile di condanna, ovvero sia colto nell’atto di commettere un delitto per il quale è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza” (art. 68 Cost.).
Si tratta in ogni caso di norme dirette ad assicurare la libertà di azione del Capo dello Stato (Re o Presidente) o l’esercizio dell’essenziale funzione di rappresentanza politica che la Costituzione conferisce ai membri del Parlamento “senza vincolo di mandato” (art. 67) che sarebbe limitata se le opinioni espresse “nell’esercizio” delle funzioni fossero l’occasione di limitazioni della libertà politica.
Diverso è, invece, il tema della gestione delle risorse pubbliche, cioè delle somme di bilancio provenienti dalla generalità dei contribuenti che le mettono a disposizione delle autorità attraverso il prelievo fiscale. Per cui “l’obbligo di render altrui conto di una gestione, di un’amministrazione, la quale non sia stata condotta nel proprio esclusivo interesse è regola d’ordine razionale, che non può, dunque, esser collocata in una o in un’altra epoca storica”, come ebbe a dire Ferdinando Carbone, Presidente della Corte dei conti, in occasione delle celebrazioni per il primo Centenario della magistratura contabile, il 10 dicembre 1962. Regola, ricordava, presente tanto nel diritto pubblico che nel privato, citando il Vangelo di Luca, nella parabola in cui il padrone ordina all’amministratore infedele di rendere conto della sua amministrazione (Luca, 16, 2). Regola che il Codice Giustinianeo disciplina sotto la rubrica de ratiociniis tam publicis quam privatis!
A questa regola generale non può sottrarsi nessuno. Anche il Governo presenta annualmente alle Camere il conto della sua gestione (art. 81, Cost.) previamente verificato dalla Corte dei conti che ne sancisce la regolarità, con sentenza, rendendo intangibili i conti che solo le Camera possono modificare “con legge”, quell’atto del potere pubblico che, può tutto “tranne che trasformare un uomo in donna e viceversa”, frase attribuita all’illuminista francese Jean Louis de Lolme.
Dalla generalità dei gestori di pubblico denaro tenuti alla resa del conto sono oggi esenti la Camera dei Deputati, il Senato della Repubblica, la Presidenza della Repubblica e la Corte costituzionale. Non che ci sia una legge in tal senso, né ordinaria né tampoco costituzionale.
A stabilire questa esenzione è stata la Corte costituzionale con la sentenza n. 129 del 24 giugno 1981, che ha dichiarato “che non spetta alla Sezione I giurisdizionale della Corte dei conti [che aveva avviato la procedura per la resa del conto, N.d.A.] il potere di sottoporre a giudizio di conto i tesorieri della Presidenza della Repubblica, della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica”.
La pronuncia dell’alto Consesso non mi ha mai convinto e non ha convinto molti, nonostante l’autorevolezza di quel giudice dei conflitti e degli avvocati che Presidenza della Repubblica, Senato e Camera chiamarono a sostenere la tesi dell’esclusione della resa del conto che rendono tutti coloro che hanno gestione di pubblico denaro.
È una interpretazione del sistema costituzionale che sembra ispirata piuttosto ad una sorta di ius singulare di medievale memoria (nel senso deteriore del termine) piuttosto che ad una moderna democrazia fondata sulle regole fondamentali dello Stato costituzionale nato dalle riflessioni di Carlo Luigi de Secondat, barone di Montesquieu, e consacrate dalla Rivoluzione Francese.
L’esenzione dalla presentazione del conto ad una magistratura che la Costituzione ha voluto giudice della “contabilità pubblica” non ha un fondamento razionale, dacché la esclusione degli organi costituzionali da un adempimento che attiene a somme messe a loro disposizione dal bilancio dello Stato appare assolutamente in contrasto con la regola della trasparenza che ovunque si proclama come espressione di democrazia.
Questo orientamento anacronistico lo è ancora di più in un momento storico nel quale le istituzioni pubbliche e la stessa classe politica soffrono di un ridotto credito da parte dell’opinione pubblica, a causa di errori od omissioni protrattisi nel tempo, rispetto alle esigenze attuali del Paese, con una evasione fiscale certificata dall’Agenzia delle entrate in 120 miliardi annui, cui si aggiungono i conti degli sprechi e della corruzione (60 miliardi annui, dice la Corte dei conti) con la conseguenza che i cittadini sono sottoposti ad una pressione fiscale mai raggiunta in un paese occidentale, a fronte della quale i servizi resi dalle pubbliche amministrazioni, a tacer d’altro, sono estremamente modesti, comunque inadeguati rispetto al prelievo fiscale.
Il tutto in un contesto di cattiva utilizzazione delle risorse e di sprechi che hanno consigliato il Governo ad introdurre l’ottobre scorso, con un provvedimento d’urgenza, controlli della Corte dei conti su regioni ed enti locali e ad avviare una riforma costituzionale che quei controlli dovrebbe consolidare in un contesto di restituzione allo Stato di strumenti autentici di tutela degli interessi nazionali.
In questo quadro di grave crisi di valori e di fiducia nelle istituzioni, mentre spinte demagogiche possono costituire un pericolo per la stessa democrazia, il Presidente della Repubblica rimane, lo dicono i sondaggi, come sentiamo tutti, un punto di riferimento istituzionale e morale che non poco contribuisce a convincere gli italiani a sopportare la pesante pressione fiscale e le diffuse inefficienze delle amministrazioni pubbliche.
S’invoca trasparenza e se ne dà prova con alcune iniziative, come quella della pubblicazione dei alcuni redditi di personalità del Governo.
In questo quadro appare conseguente alla riconosciuta personalità democratica del Presidente della Repubblica, primo tutore della legalità e garante imparziale delle istituzioni, attendersi un gesto proprio da Primo Servitore dello Stato, quello di rendere il conto della gestione della Presidenza della Repubblica alla Corte dei conti invitando Senato e Camera dei deputati a fare altrettanto.
Sarebbe un gesto che gli italiani apprezzerebbero moltissimo ed avrebbe la conseguenza di sdrammatizzare la protesta che sale dal Paese e della quale lo stesso Capo dello Stato si è mostrato più volte preoccupato.
9 febbraio 2013

A Massimo Gramellini, che scherza sulle denunce della Corte dei conti. Simpatico e pungente, ma svilisce agli occhi del cittadino l’Istituzione che lo tutela, tra gravi difficoltà, da sprechi e corruzione. Cui prodest?
di Salvatore Sfrecola

Era inevitabile, e neppure quest’anno lo abbiamo evitato, che le inaugurazioni dell’anno giudiziario cadessero sotto la scure, pardon la penna, di alcuni giornalisti, più di altri avvezzi a scherzosi e spesso pungenti elzeviri che hanno il compito, sempre in un taglio basso della prima pagina, di far sorridere il lettori per altre notizie rattristati, sia lo spread o l’ennesima notizia di fatti di corruzione o di sprechi che pesano, senza che se ne accorgano, sulle loro tasche.
E così oggi Massimo Gramellini, che su La Stampa ci saluta con notarelle sempre pungenti affacciandosi dalla rubrica “Buongiorno”, si è occupato della cerimonia con la quale la Corte dei conti, a Roma, ha inaugurato l’anno giudiziario delle Sezioni Riunite, alla presenza, come dicono sempre le cronache, “delle massime autorità civili e religiose”.
E l’ha intitolata il “Monitificio”, cioè l’occasione dei moniti, delle reprimende di incerta efficacia.
Naturalmente è facile scherzare su una cerimonia nella quale abbondano le toghe, i pennacchi dei Carabinieri, le livree dei commessi d’udienza. “Immagini arabescate” scrive Gramellini, quelle dei telegiornali che hanno riferito della inaugurazione dell’anno giudiziario della Corte dei Conti, “la magistratura che ha il compito di fare le bucce ai bilanci dello Stato”.
E poi “giudici spagnolescamente agghindati”, alla presenza di Autorità alle quali il Presidente si è rivolto “in una lingua arcaica e sovrabbondante”, per dire di corruzione la quale ha raggiunto “livelli sistemici”, come gli sprechi, ciò mentre “le imprese sono strangolate da mazzette e mancati pagamenti, il lavoro è soffocato da tasse e austerità, le famiglie boccheggiano”.
Un ritratto della Nazione, scrive Gramellini, che potrebbe essere stato scritto “da un rivoluzionario con dolori alla cistifellea o più banalmente da chiunque di noi, ma che contrasta col contesto parrucchiforme in cui viene declamato. Ogni anno, al termine del discorso, mi aspetto sempre che il Presidente ordini ai carabinieri col pennacchio di arrestare parecchie delle persone sedute nelle prime file, sicure corresponsabili del disastro. Invece il fustigatore si limita ad auspicare una presa di coscienza che il quadro appena delineato rende necessaria e addirittura impellente, eccetera. A quel punto gli accusati applaudono l’accusatore e poi tutti vanno a pranzo perché si è fatta una cert’ora. Anche ieri. Se stanotte mi verrà un incubo, sarà a forma di monito”.
Simpatico Gramellini, penna felice, certamente. Ma un po’ qualunquista, non tanto per quel “gli accusati applaudono l’accusatore”, che ha molto di vero, ma perché il messaggio che passa ai lettori è quello di una istituzione inutile, che si compiace di cappe spagnolesche, quando le toghe, rigorosamente nere, sono le più semplici in uso alle magistrature del vecchio Continente.
L’inaugurazione dell’anno giudiziario, invece, non è una vuota celebrazione ma un momento importante nel quale l’Istituzione dialoga con il mondo politico, il Foro, l’Accademia e, in fin dei conti, con la gente per dire ciò che non va e ciò che si dovrebbe fare perché le cose andassero meglio. Dinanzi a Governo e Parlamento che, di solito, fanno orecchie da mercante e magari, sempre più spesso, avendo appreso che la Corte, come le altre magistrature, hanno individuato illeciti, trovano il modo di scrivere una norma che metta a posto quegli impudenti dei giudici. E impedisca loro di accertare i fatti o di decidere prima che intervenga la prescrizione.
La stampa, dunque, caro Gramellini, dovrebbe per una volta evitare di scherzare, tanto di occasioni non ne mancano, e chiedere alla politica conto di quel che è stato fatto per emarginare corrotti e corruttori insieme a quanti disperdono le risorse pubbliche.
Altrimenti il rischio è quello che la gente perda fiducia nelle istituzioni, ciò che non vogliamo né lei né io.
Cui prodest?. Stia certo che a qualcuno inevitabilmente la sfiducia nelle istituzioni prodest.
L’attendo a Torino, l’11 marzo, alle 10,30, per l’inaugurazione dell’anno giudiziario della Sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la Regione Piemonte.
6 febbraio 2013

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