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Novembre 2013

Divagazioni generiche sulla giustizia in Italia: in margine alla presentazione del libro del Prof. Sapelli “Chi comanda in Italia”
di Salvatore Sfrecola

Va di moda da qualche tempo scrivere di “chi comanda” e dove. A Torino, a Roma, libri con profluvio di nomi che, anche se sono i soli acquirenti del libro e le loro famiglie già assicurano una buona riuscita del volume.
Diverso il caso volume di Giulio Sapelli “Chi comanda in Italia” (Guerini e Associati, 2013), nel quale lo storico dell’economia dell’Università di Milano spazia al di qua e al di là dell’oceano per ripercorrere il fil rouge dei poteri forti in economia. Senza trascurare la Germania di Frau Merkel e le sue strategie.
Il volume è stato presentato l’altroieri alla Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice, a Roma, in via Genova 24. Hanno introdotto il Prof. Giuseppe Parlato, Ordinario di Storia contemporanea presso l’Università degli Studi Internazionali di Roma e Presidente della Fondazione ed il Prof, Gaetano Sabatini, ordinario di storia economica a Roma Tre.
È seguita una dotta dissertazione dell’Autore che ha evocato fatti e scritti di autori italiani e stranieri. Nel corso del suo intervento il Prof. Sapelli ha parlato anche di giustizia, criticando la funzione di supplenz a della magistratura che da ordine si è trasformata in un potere dello Stato. Un po’ quello che ripete da sempre Silvio Berlusconi e ripetono gli uomini e le donne della sua parte.
Diciamo che c’è un po’ di confusione e più di qualche approssimazione, in dottrina e di fatto.
Non c’è dubbio che l’esercizio della giurisdizione sia espressione di un potere dello Stato quello, appunto, di “dire il diritto”, iusdicere, così assicurando la corretta applicazione delle leggi che fa il Parlamento. Che poi l’esercizio della giurisdizione sia affidato ad un corpus di funzionari dello Stato dotati di specifica preparazione ed assistiti da indipendenza non modifica la posizione istituzionale dell’esercizio della funzione giudicante.
L’accusa mossa ai giudici di debordare, di svolgere in alcune circostanze un’azione di supplenza del potere politico, ricorrente da più tempo, è cosa diversa, è la prova che il bilanciamento dei poteri di fatto non è attuato, che il potere legislativo è carente sotto il profilo della predisposizione delle norme di diritto sostanziale e processuale attraverso le quali si realizza, da un lato, la determinazione delle norme, civili e penali, e, dall’altro, l’esercizio della giurisdizione, cioè l’affermazione del diritto nel caso concreto. D’altra parte il potere amministrativo manca gravemente nell’esercizio della funzione sua propria.
Cominciamo col dire che i giudici applicano le leggi che fa il Parlamento. Le applica interpretandole (la distinzione tra applicazione ed interpretazione, cara a taluni è una immane sciocchezza) con un impegno professionale che è tanto più complesso quanto più oscura è la norma. Una oscurità determinata da vari fattori. In primo luogo dall’uso di parole di equivoco significato giuridico, magari perché oggetto di diversi e variegati comandi legislativi, per non dire della ricorrente esterofilia per cui un po’ per l’endemico provincialismo italico, un po’ per confondere le idee al “popolo sovrano” vengono introdotti termini stranieri dai molteplici significati. Un esempio per tutti, la parola mobbing non viene usata nelle normative dei paesi anglosassoni.
Le difficoltà di interpretazione portano con sé inevitabilmente varietà di indirizzi giurisprudenziali. È normale in ogni ordinamento. Ma se la cosa assume aspetti patologici ci sono due modalità di intervento. Del legislatore con norma di interpretazione autentica o del sistema giudiziario attraverso l’intervento nomofilattico del giudice della giurisdizione. Ovunque le Corti supreme mettono ordine in presenza di pronunce eccessivamente contrastanti.
In assenza di questo tipo di interventi è evidente che il cittadino rimane sconcertato.
Nel complesso, poi, è evidente che la responsabilità del buon funzionamento della giustizia è conseguenza del sistema normativo nel suo complesso, come accennato. Le regole le detta il Parlamento. Se non le fa o le fa in modo da non assicurare l’effetto voluto non è colpa del giudice.
Ancora, l’ipotesi della “supplenza”. Lo si dice in conseguenza del cattivo uso che dei rispettivi poteri fanno il potere legislativo e quello amministrativo. Nel senso che se sembra che il giudice si sostituisce al Parlamento o al Governo vuol dire che c’è un vuoto grave. A volte è solo effetto della sovrapposizione di comportamenti diversi o dell’assenza di comportamenti.
Un esempio, l’ILVA di Taranto quando qualche bella testa ha accusato la magistratura di fare “politica industriale” decidendo la chiusura di alcuni altoforni ritenuti inquinanti. Ancora una volta qualcuno non aveva fatto il proprio dovere. Perché se un impianto industriale inquina è dovere del giudice, a tutela della salute, fermarlo. Ma spetta all’amministrazione disporre gli interventi necessari per ripristinare le condizioni di legge per il corretto esercizio dell’attività industriale.
Troppe volte la politica è intervenuta a gamba tesa a fronte di azioni giudiziarie scomode con grave danno per la salute. L’acqua è inquinata? Niente problemi, alziamo il limite della tollerabilità di un fattore inquinante.
A Taranto il giudice sequestra il prodotto finito a garanzia degli interventi risanatori? Fa “politica industriale”. Nessuno pensa di criticare chi ha omesso di intervenire a far rispettare le regole.
Il fatto è che in Italia è frequente la trascuratezza del legislatore e dell’amministratore sicché il giudice, messo alle strette, deve intervenire individuando un reato anche dove sarebbe possibile una precisazione normativa o una iniziativa governativa.
A volte non si interviene per non far emergere errori od omissioni e si attende che un altro potere assuma qualche iniziativa. Se sono latitanti Parlamento e Governo nessun problema. Ma se è il giudice ad intervenire, soprattutto in materia di sicurezza e salute ecco che deborda.
Non accadrebbe se ognuno facesse il proprio dovere, tempestivamente ed appropriatamente
30 novembre 2013
Berlusconi: caduta di stile
di Senator
E’ caduto in malomodo, com’era prevedibile, urlando sulla piazza lontano dal Senato. Dal Parlamento. Da quel Parlamento che, aveva sostenuto già nel 1994, non frequentava perché gli faceva “perdere tempo”.
In questi due episodi sta l’alfa e l’omega del personaggio, la sua concezione dello Stato, il suo disprezzo per la democrazia parlamentare di cui dà dimostrazione, tra l’altro, il porcellum, la legge, sempre difesa, che ha trasformato le assemblee, sede della sovranità popolare, in camere di nominati e non di eletti, come vuole la più elementare delle regole dello stato di diritto.
Conseguentemente i suoi governi, che pure, nel 2001 – 2006 e nel 2008, poggiavano sulle più consistenti maggioranze della storia della Repubblica si sono distinti per l’abuso del decreto legge, al quale ricorreva, anche in assenza dei requisiti di straordinaria necessità ed urgenza, per evitare il dibattito parlamentare strozzato in sede di conversione del decreto con il solito maxi emendamento sul quale poneva la questione di fiducia così impedendo ogni modifica.
Con questa tecnica sono state effettuate le peggiori manomissioni della legislazione e delle regole dell’Amministrazione, resa ancora più pesante e inefficiente, quando dalle persone e dalle imprese provenivano richieste di semplificazioni necessarie per alleggerire il carico burocratico inutile che avvelena la vita di cittadini ed imprenditori. Forse perché lui, da imprenditore, certi problemi non ne aveva avuti, costantemente assistito dal potere politico che gli ha consentito di aggirare le leggi, come quando il suo amico Bettino Craxi, tornato d’urgenza da Londra, dove si trovava in visita di Stato, convocò d’urgenza il Consiglio dei ministri per consentire alle sue televisioni di tornare a trasmette dopo le decisioni del Pretore di chiuderle per violazione della legge sull’emittenza.
Assistito, ancora, quando gli furono assicurate agevolazioni per costruire quella Milano2 che è fra i suoi vanti da imprenditore.
Accusato dalle Procure della Repubblica di reati tipici degli imprenditori, dall’evasione fiscale alla costituzione di capitali all’estero, non ha cercato, “scendendo” in politica, di chiudere con quella passata esperienza ma ha continuato a gestire, sia pure per interposta persona, le sue imprese che si sono arricchite. Perché il Cavaliere, entrato in politica indebitato fino al collo, ha presto riequilibrato i conti. Del resto quale imprenditore oserebbe rifiutare la pubblicità alle televisioni del Presidente del Consiglio?
E così il “Presidente imprenditore”, che non raggiungerà mai la statura (absit iniuria verbis) di statista, esordisce non solo con il disprezzo del Parlamento ma con insulti ai magistrati, un ruolo per Il quale, afferma ripetutamente, occorre essere “dissociati mentali”.
Eppure quest’uomo ha costantemente ottenuto grande successo elettorale perché i moderati italiani lo riconoscono come il loro campione. Ha una straordinaria capacità di persuasione e convince tanti di essere veramente il difensore della libertà, il tutore della democrazia. Le sue parole d’ordine, anticomunismo e democrazia liberale, colpiscono un vasto elettorato. Attore consumato, ricorderete la sceneggiata a ServizioPubblico quando spolvera la sedia dove poco priva sedeva Travaglio, Berlusconi se la cava facilmente con una battuta o una barzelletta. E pensa di poterlo farla anche all’estero dove scherza da goliarda. Fa le corna in una foto ufficiale, torna a Roma vantando di aver corteggiato la presidente di una Repubblica baltica provocando la reazione ufficiale dell’ambasciatore.
In sostanza non è mai entrato nella parte. Tra l’altro circondato da mezze figure inopinatamente elevate al rango di ministro, sottosegretario, presidente di commissione. Sempre il peggio del peggio a Roma, come nelle regioni, nelle province e nei comuni, come dimostra la cronaca che riferisce di spese personali poste a carico dei bilanci pubblici. E, quando professionalmente qualificate, di yes men tanto inutili quanto pericolosi per cui le maggioranze più consistenti della storia parlamentare non sono riuscite a portare avanti quelle riforme che aveva promesso nel “contratto” con gli italiani, non la riduzione delle tasse che nella sua gestione sono aumentate, non il milione di posti di lavoro, che sono diminuiti, non la riduzione del debito che anzi, come ai tempi del suo amico Craxi, è aumentato. Un fallimento. Un ventennio perduto, che’ tanto è durata l’influenza di Berlusconi sulla politica italiana.
Se fosse stato uno statista avrebbe dovuto partecipare alla seduta finale, pronunciare il suo discorso, salutare e lasciare l’aula prima del voto. Invece ha preferito la piazzata, non smentirsi, per dimostrare ancora una volta di non essere un uomo delle istituzioni, ma un “bottegaio”, come l’aveva bollato Montanelli.
Quanto diverso da Andreotti, che pure aveva avuto problemi gravi con la magistratura. Quell’Andreotti che andava a farsi la barba a Montecitorio ogni mattina per incontrare nell’occasione i parlamentari, soprattutto i più giovani, per un consiglio, per una battuta.
No, Berlusconi non ha saputo cadere con stile. O meglio ha confermato il suo stile, quello di un uomo lontano dallo Stato e dalle istituzioni.
28 novembre 2013
La settimana horribilis
di Senator

Settimana cruciale, quella che si apre oggi per gli italiani e per l’Italia, con molteplici punti di crisi. La votazione al Senato sul disegno di legge di stabilità che mette alla prova la tenuta del Governo, già messo in minoranza in commissione per i distinguo di ForzaItalia. Poi, sempre al Senato, il 27, la votazione sulla decadenza di Berlusconi accompagnata da una manifestazione di piazza per esercitare una pressione sui senatori, convocata con i toni duri cui ricorre spesso il Cavaliere e che hanno fatto parlare di eversione. E indotto il Capo dello Stato a diramare una nota particolarmente severa.
A rischio, dunque, il Governo e la sua maggioranza, perché sul voto si divideranno Partito Democratico, ForzaItalia e gli ex montiani. Un voto inevitabilmente destinato a lasciare strascichi pesanti, anche perché Renzi, sicuro vincitore delle primarie nel PD non sembra disponibile a fare sconti a quella parte della maggioranza che ritiene responsabile dello scarso impegno del Governo sui temi cari al Partito.
Certa la decadenza di Berlusconi è anche molto probabile che il viso delle armi mostrato dinanzi ai giovani di ForzaItalia lascerà il posto ai toni dei quali il Cavaliere è un maestro di consumata abilità. Vestirà i panni della vittima della magistratura e del partito di governo che vuole uccidere l’alleato, per prepararsi ad una campagna elettorale dai toni accesi, in senso anticomunista rinnovando la battaglia per la libertà che è stata costantemente il leit motiv della sua propaganda, toccando il tasto caro ai moderati italiani.
E qui emergono anche gli errori della sinistra, dimostratasi agli occhi dei medesimi moderati particolarmente intollerante, a cominciare da quella inopportuna conferenza stampa di Guglielmo Epifani a pochi minuti dalla lettura del dispositivo della sentenza della Cassazione. Con toni enfatici molto più adatti ad una vittoria elettorale che ad una sconfitta dell’avversario politico per iniziativa della magistratura.
E di errore in errore il PD ha continuato a dare argomenti a Berlusconi ed ai suoi. Come la pervicace opposizione all’ipotesi di chiamare la Corte costituzionale a decidere sulla legittimità della Severino, anche di fronte a dubbi di costituzionalità da più parti sollevati. Dubbi probabilmente infondati ma che avrebbero potuto sostenere un rinvio al giudice delle leggi a dimostrazione che non c’erano timori di sorta.
Invece no. La sinistra teme la rimonta di Berlusconi e non vede l’ora di toglierlo di mezzo. Giusto desiderio di una parte politica di fronte all’avversa. Ma ritenere che fuori del Parlamento Berlusconi possa rivelarsi azzoppato è un errore di valutazione pericoloso, anzi pericolosissimo.
Tutta questa vicenda, infatti, rischia di non pregiudicare lo schieramento di destra, oggi articolato in ForzaItalia e NuovoCentrodestra, ma anzi di rafforzarlo. È tempo, infatti, che l’elettorato di destra, che pure si caratterizza per un elevato senso di legalità si mostra insensibile alle imputazioni penali di Berlusconi considerandolo comunque un imprenditore di successo, un leader che ha salvato l’Italia e gli italiani dalla sinistra comunista e illiberale.
In sostanza si ha l’impressione che con la sua abilità comunicativa il Cavaliere sia riuscito ad oscurare i suoi difetti, che del resto sono del tutto identici a quelli di altri imprenditori, e passi soprattutto come un perseguitato da giudici “di sinistra” che se-sbagliano-non-pagano. Immaginiamo come potrà commuovere gli italiani “di destra” una volta dichiarato decaduto, quando si potrà dire che è stato vinto dalle toghe e non dai voti.
Quando si sarebbe potuto dimostrare che, avendo governato con maggioranze straordinariamente consistenti per molti anni, non è riuscito a portare a casa nulla di quanto aveva promesso, né minori tasse, né maggiori posti di lavoro, né quella semplificazione dello Stato che tanto pesa sui cittadini e le imprese.
25 novembre 2013
Nelle regioni la politica costa un miliardo
di Salvatore Sfrecola
Si è detto molto dei “costi” della politica, della necessità ma anche delle difficoltà di ridurli. Ogni tentativo, infatti, trova ostacoli, sempre bipartisan, e quando s’immagina che qualche progresso si faccia nella direzione auspicata inevitabilmente si scopre che si restituisce da una parte quanto si è tolto dall’altra. Da parte di una classe politica che ha saputo, all’indomani di un referendum dall’esito plebiscitario che aveva cancellato il finanziamento pubblico dei partiti, inventare i rimborsi elettorali. Una truffa scandalosa.
Così negli ultimi mesi e ancora negli ultimi giorni la stampa ci dà notizia di utilizzazioni improprie di denaro assegnato ai Gruppi consiliari regionali per le esigenze del loro funzionamento. Per finalità politiche, dunque, che nulla hanno a che fare con il pagamento con le spese delle vacanze o l’acquisto di un frigorifero, come ha scritto www.lospiffero.com richiamando gli esiti delle indagini della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Torino, dove s’immaginava che la cultura sabauda avesse lasciato una eredità di legalità ed efficienza. O come ha scritto www.blitzquotidiano.it dando conto delle ruberie e degli sprechi denunciati ed accertati in tutta Italia.
Oggi disponiamo di una rilevazione del Prof. Roberto Perotti che si può leggere su http://www.lavoce.info/quanto-costano-consigli-regionali/. Ordinario alla Bocconi dal 2006, una lunga esperienza all’estero (PhD in Economics al MIT nel 1991, 10 anni alla Columbia University di New York), research associate del National Bureau of Economic Research e del Center for Economic Policy Research, consulente del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Mondiale, della Banca Interamericana per lo Sviluppo, della Banca Centrale Europea, della Fed, e della Banca d’Italia, pubblica su lavoce.info una ricerca in tema di costi della politica regionale della quale è necessario disporre anche ai fini delle riforme istituzionali. E che è stato osservato si attendeva da tempo e certamente l’avrebbero potuta effettuare organismi pubblici di controllo.
Perotti presenta una stima dei costi totali della politica regionale. La fa sulla base dei bilanci dei consigli regionali per il 2012, indicando, per ogni regione, la spesa totale di ogni consiglio, distinta nelle seguenti voci: Retribuzione dei consiglieri, Spese per consiglieri cessati dal mandato, Spese per il personale, Contributi ai gruppi consiliari, e Altre spese (in gran parte spese per acquisto di beni e servizi, ma anche spese di rappresentanza, consulenze al consiglio regionale, manutenzione etc.).
“Il massimo sforzo – scrive Perotti – è stato fatto per rendere queste voci comparabili tra le varie regioni”. Pur in assenza di alcuni dati (“nel bilancio del Lazio manca gran parte della spesa per il personale e in quello del Molise la spesa per vitalizi. Inoltre, i bilanci consuntivi del 2012 di Sicilia e Veneto non erano ancora stati approvati” al momento della rilevazione) le conclusioni sono che “ogni consigliere regionale costa in media 200.000 euro”.
Complessivamente, dunque, Perotti indica il costo dei consigli regionali in circa 1 miliardo di euro all’anno, “esattamente quasi quanto la Camera dei Deputati. I compensi lordi ai consiglieri sono circa 230 milioni, mentre si spendono circa 170 milioni per pensioni e vitalizi dei consiglieri cessati dal mandato. I contributi ai gruppi consiliari sono quasi 100 milioni”.
“Le regioni più costose – prosegue lo studio – sono le due che forse più frequentemente si sono ritrovate al centro della cronaca: la Sicilia, con un costo totale di 156 milioni, e il Lazio, con 84 milioni (ai quali però come abbiamo visti bisogna aggiungere altri 20 o 30 milioni”, perché il dato è riferito al 2011, n.d.a).
“Ovviamente però la spesa dipende anche dalle dimensioni del consiglio. In media in tutta Italia gli emolumenti lordi a ciascuno dei 1117 consiglieri regionali ammontano a poco più di 200.000 euro all’anno. Si passa dai 118.000 euro in Emilia e 140.000 in Valle d’Aosta ai 244.000 euro del Piemonte, 270.000 del Lazio, e 281.000 della Calabria”.
“La spesa totale (quindi comprensiva degli emolumenti ma anche di tutte le altre voci) per consigliere è un indice della spesa che le regioni ritengono necessaria per mettere ciascun consigliere in grado di svolgere il proprio lavoro. La media italiana è di 875.000 euro per consigliere. Ma anche qui c’è molta dispersione: si passa dai 410.000 euro della Valle d’Aosta e i 415.000 euro del Trentino a 1.000.000 di euro per consigliere in Piemonte, 1.500.000 in Calabria, e 1.700.000 in Sicilia”.
“Se vi sono dei costi fissi, ci si aspetterebbe che nei consigli più piccoli il costo totale medio per consigliere sia più alto. I dati invece indicano l’esatto opposto: più grande il consiglio, più alto il costo totale medio per consigliere. Sembra che vi siano quindi notevoli diseconomie di scala: se siano dovute a sprechi o ad altri fattori è difficile dire. E’ però interessante notare che una regione medio-grande come l’Emilia, usualmente considerata bene amministrata, in totale spende per ciascun suo consigliere 650.000 euro, molto meno della media nazionale. Con lo stesso numero di consiglieri (e una popolazione inferiore) la Calabria spende quasi due volte e mezzo l’Emilia”.
112 euro per abitante in Valle d’Aosta, 45 in Sardegna.
“Il costo totale è ovviamente influenzato anche dalla grandezza della regione”
Quanto alla spesa totale per abitante, per ogni regione, spiega Perotti, “chiaramente vi sono economie di scala: nella regione più popolosa, la Lombardia, mantenere il consiglio regionale costa 7 euro all’anno per abitante (inclusi anziani e bambini); nella meno popolosa, la Valle d’Aosta, costa 112 euro per abitante. Ma anche qui c’è una notevole variabilità. Calabria, Sardegna e Liguria hanno una popolazione simile, ma nelle prime due il consiglio regionale costa il triplo che in Liguria per ogni abitante. Il Piemonte ha una popolazione identica all’Emilia, ma un costo per abitante doppio”.
Fin qui lo studio del Prof. Perotti, ricco di dati che si offrono all’attenzione del lettore per una molteplicità di considerazioni. E di domande. La prima, certamente non politically correct, è se le regioni sono una istituzione necessaria in un ordinamento moderno in uno stato di modeste proporzioni territoriali certo con molteplici competenze ma con bilanci che per gran parte, intorno all’80 per cento, impegnano spese per la sanità. Resta un 15-20 per cento che, dedotte le spese di funzionamento, dice che questi enti “di spesa” hanno a disposizione risorse che non consentono di fare una politica significativa nell’interesse delle rispettive comunità
In conclusione quel che dobbiamo chiederci oggi è se l’ente regione ha ancora una ragione di esistere. Sento molti dubbi in proposito.
25 novembre 2013
Scissioni e ricomposizioni
di Senator

Ce ne siamo andati. Era nell’aria da tempo. Dopo il risultato elettorale deludente che ha consegnato l’Italia alla ingovernabilità l’ala più oltranzista, la Santanché, Bondi, Capezzone, tutta gente che non ha voti, eletta solo grazie al porcellum gestito da Berlusconi è entrata in fibrillazione immaginando la sconfitta definitiva e l’uscita di scena. Così si sono posti alla destra del Cavaliere demonizzando quanti, che pure avevano seguito la prima indicazione del leader all’indomani delle elezioni di febbraio, hanno dato vita al governo delle larghe intese. E li hanno dipinti come opportunisti, “governativi”, attaccati alla sedia. Altri hanno usato accuse più esplicite ed hanno bollato come “traditori” Alfano, Quagliariello, Lupi, De Girolamo, Lorenzin.
Berlusconi non ha usato questo tono. Anzi, è parso conciliante, rinviando a future collaborazioni, tanto che si è detto di “FarsaItalia”, cioè di una scissione pilotata per marciare separati e colpire uniti, alle elezioni, a cominciare da quelle europee.
È certo uno degli scenari possibili. “Nuovo centro destra” rimane nell’area della destra italiana e si prepara a recuperare i voti perduti dal Popolo della libertà offrendo una varietà di riferimenti, come Fratelli d’Italia.
Una scissione, dunque, per una futura ricomposizione, magari solamente tattica.
È uno scenario che non si immagina esclusivamente a destra. Perché anche il Partito Democratico vive il dramma della contrapposizione tra la base ancora legata all’esperienza del Partito Comunista, guidata da un uomo, D’Alema, personalità eminente di un conservatorismo inossidabile che teme la vittoria di Renzi e si prepara a contrastarla in ogni modo, anche con una scissione.
Si verrebbe a determinare una situazione quasi speculare con quella che si registra a destra, che potrebbe favorire una ricomposizione al centro con la formazione di un partito liberal conservatore, di ispirazione cattolica, capace di tenere a bada gli opposti estremismi.
Fantapolitica? Difficile dirlo. Ma è chiaro che va messo in conto uno scenario nuovo, che riannodi i fili di una antica cultura democratica articolata in correnti  che strizzano l’occhio a destra ed a sinistra a seconda delle convenienze.
Anche se gli italiani sembrano aver assorbito una sorta di dimensione bipolare della politica, non c’è dubbio che il quadro politico si è scomposto per la insufficienza di una politica lontana dalla gente, come dimostra l’irrompere di Grillo, espressione di un malcontento diffuso che le vicende di questi giorni a destra e, presumibilmente a sinistra a breve, potrebbe assicurare nuovi e maggiori consenti al Movimento 5 Stelle.
Insomma, può accadere di tutto in un Paese perennemente alla ricerca dell’Uomo della Provvidenza. Come nelle barzellette la Provvidenza fa sapere di non voler essere coinvolta. Ma l’immaturità politica di questo antico popolo di santi, eroi, artisti e navigatori sembra allontanare la strada giusta per guardare con fiducia al futuro delle prossime generazioni.
18 novembre 2013
Cancellieri, onesta ma sprovveduta
di Senator

Non ho dubbi che il Ministro della giustizia abbia tenuto nel caso di Giulia Maria Ligresti un comportamento analogo a quello seguito in occasione della segnalazione di disagio di detenuti da parte di parenti o amici. Anna Maria Cancellieri è funzionario dello Stato di lunga esperienza, di riconosciuta professionalità e grande equilibrio. Per questo stupisce che in un caso, del quale era logico prevedere che la stampa si sarebbe impadronita con inevitabili spunti polemici, il Ministro abbia trascurato le cautele che normalmente un politico adotta. Ad esempio incaricando il Capo di Gabinetto di un cauto sondaggio sulla situazione sanitaria della detenuta nella formula tradizionale: “mi dicono che la signora…si troverebbe in gravi condizioni di salute. Risulta all’autorità, ecc. ecc.?”
Invece il Ministro, che ha lunga esperienza di gestione dei rapporti con le amministrazioni e gli enti su sollecitazione di provenienza politica, come imparano i prefettizi fin dall’ingresso in carriera, sia scivolata su un intervento per il quale, considerato il nome dell’interessata, era logico immaginare che qualcuno avrebbe usato la lente d’ingrandimento.
Non ha influito sulle decisioni dei giudici, come ha testimoniato il Procuratore di Torino, Caselli, uno che non la manda a dire, ma è stata imprudente. E la politica per la quale Anna Maria Cancellieri è un corpo estraneo si appresta a fargliela pagare. Per dar fastidio al premier Letta in una fase difficile, all’inizio del dibattito parlamentare sulla legge di stabilità e mentre si sviluppa il confronto tra i candidati alla segreteria del Partito Democratico, e per un certo gusto per la guerriglia parlamentare che riesce facile a partiti che sono obbligati a collaborare. Ma non dimenticano di essere concorrenti in vista delle prossime elezioni, quantomeno di quelle europee, considerato che la politica economica e finanziaria risente molto delle scelte fatte a Bruxelles.
Inoltre non è azzardato immaginare che il Popolo della libertà/Forza Italia, che pure appoggia il ministro, lo faccia strumentalmente, per attizzare il fuoco. Magari perché spera che, in un eventuale rimpasto, possa mettere in campo uno dei suoi alla guida del Ministero di via Arenula. Infatti già si fanno i nomi di Nitto Palma e Gelmini, tra i più sgraditi a sinistra. Tanto per mantenere Enrico Letta sulla graticola.
Non abbiamo la sfera di cristallo e non azzardiamo previsioni, ma è certo che Anna Maria Cancellieri potrebbe essere indotta a fare un passo indietro per disinnescare la bomba, nonostante la sua innocenza, che potremmo ritenere provata  proprio dalla sua incredibile sprovvedutezza.
4 novembre 2013

 Ben prima del “che fai? Mi cacci?”
Berlusconi non voleva per Fini la “Cabina di regia”
di Salvatore Sfrecola

            Nel suo libro “il ventennio, io, Berlusconi e la destra tradita” (Rizzoli), distribuito nei giorni nelle librerie, Gianfranco Fini parla dello scontro con Tremonti (così si intitola il capitolo a pagina 145). Ricorda il buco di bilancio, stimato tra i 45 mila e i 60 mila miliardi di lire da Banca d’Italia e Corte dei conti e sempre negato dal Ministro dell’economia e da Berlusconi.
            In questo contesto nel quale si aggravavano le difficoltà finanziarie in assenza di adeguate terapie per riequilibrare i conti, Alleanza Nazionale aveva chiesto l’istituzione di una cabina di regia “per garantire collegialità nella politica economica”, scrive Fini, che all’inizio del 2004 portò ad un vertice di maggioranza che stabilì, tra l’altro, il potenziamento del Dipartimento per gli affari economici della Presidenza del Consiglio che doveva essere presieduto dal Vice Presidente che avrebbe avuto anche la responsabilità del Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica (C.I.P.E.), il cosiddetto Gabinetto economico, composto dalla maggior parte dei ministri. Un organismo che normalmente si riunisce prima del Consiglio dei Ministri.
Nel suoi libro, a pagina 146, Fini ricorda quell’episodio sintomatico dei rapporti con Berlusconi. Lo fa attraverso le parole del mio libro “Un’occasione mancata” (editore Nuove Idee, Roma, 2006).
In particolare Fini riporta quella parte del capitolo “Sarebbe bastata la “cabina di regia” nel quale si racconta la vicenda della preparazione dei due provvedimenti necessari per dare attuazione all’iniziativa: il decreto legge che avrebbe dovuto attribuire la Presidenza del C.I.P.E. a Fini Vice Presidente del Consiglio e il decreto di riordinamento del Dipartimento per gli affari economici, il braccio operativo del ruolo di Fini.
Me ne occupai io come Capo di Gabinetto, ma la cosa, come è noto, non è andata. Il balletto della Cabina di regia è durato a lungo, da un venerdì, giorno della riunione del Consiglio dei ministri, al successivo e così via per molti mesi.
Ecco cosa avevo scritto: “Nel corso della settimana c’incontriamo nel mio studio con Baldassarri e Gianfranco Polillo, Capo del D.A.E., per mettere a punto tre testi: il decreto-legge che deve attribuire la presidenza del C.I.P.E a Fini, il decreto del Presidente del Consiglio di riordinamento del D.A.E., la norma che assegna allo stesso Dipartimento le funzioni di valutazione, sotto il profilo economico e finanziario, della normativa proposta dai singoli ministeri per verificarne gli effetti. Una valutazione dell’impatto della regolazione che ricorda, in qualche misura, i poteri che Luigi Einaudi aveva chiesto a De Gasperi nel 1947 per accettare di entrare nel governo all’indomani della guerra. Fu allora il Ministero del bilancio, uno strumento agile che, senza impegnare il ministro in attività di gestione, gli consentiva di tenere sotto controllo la legislazione di spesa.
Ebbene, redatte le norme necessarie ad attuare la cabina di regia le porto al Vicepresidente la mattina del venerdì, prima della riunione del Consiglio dei ministri, perché le dia a Berlusconi. Al termine chiedo a Fini: “cos’ha detto Berlusconi?”. E lui: “ha detto che se le studia nel week end”. Poi il lunedì mi chiama Antonio Catricalà: “Salvatore, va tutto bene, ma Giulio suggerisce qualche modifica. Niente d’importante, sai. Una virgola qui, un aggettivo là”. Ne discutiamo. Il più delle volte gli faccio notare che si tratta di piccole cose, che hanno piuttosto il senso di speciose puntualizzazioni per perdere tempo. “Ma Giulio non vuole che ci siano dubbi sui rispettivi poteri”, mi dice Catricalà. E così concordiamo quelle piccole modifiche. Una virgola qui, un aggettivo là. In vista del prossimo venerdì, quando consegno il nuovo testo a Fini perché lo dia a Berlusconi. E al termine, ancora la solita promessa del Presidente del Consiglio di leggersi le carte nel fine settimana. Cosa che effettivamente doveva avvenire (o forse le carte le leggeva Tremonti), perché inevitabilmente il lunedì successivo Antonio Catricalà mi mette a parte dei nuovi dubbi del Ministro, su qualche virgola e qualche aggettivo (diversi dai precedenti, ovviamente), da cambiare. E così riprendono le consultazioni Con Baldassarri, Polillo e Zerman per rivedere il testo. In questo periodo, avendo saputo che mi occupo della vicenda, Giovanni Quadri, ordinario di Diritto costituzionale nell’Università Parthenope di Napoli, un solido giurista ed un amabile gentiluomo, un’amicizia nata molti anni prima al Ministero della marina mercantile dove eravamo entrambi consiglieri giuridici del ministro, mi invia due suoi scritti sul C.I.P.E. gabinetto economico (Gabinetto economico (C.I.P.E.) e indirizzo politico economico, in Annali della Facoltà giuridica dell’Università degli Studi di Camerino, II, vol. XXXV (1969), 249 e ss; Id., Gabinetto economico (C.I.P.E.) e indirizzo politico economico, Giuffrè, Milano, 1970). Lo ringrazio di cuore per la squisita attenzione e traggo dalla lettura dei due testi qualche ulteriore elemento di valutazione sul lavoro in corso.
Intanto non cambiano le cose. Da un venerdì all’altro la solita pantomima nella quale s’inserisce un certo nervosismo di Fini che sui giornali fa qualche, neppure velata, minaccia di dimissioni. Che poi non sono presentate, per il senso di responsabilità politica del Vicepremier.
Niente cabina di regia, niente Consiglio di gabinetto. Ancora una volta sei mesi perduti”.
Riprendo ancora dal mio libro.”La cosa non è andata. Berlusconi, a sentire Vespa, avrebbe riversato la colpa su Tremonti. Ma in realtà è stato Berlusconi ad ostacolare la realizzazione delle decisioni del vertice, nonostante l’incarico previsto per Fini non avrebbe potuto modificare l’equilibrio dei poteri. Infatti, alla guida del D.A.E., con tanto di staff di economisti (Baldassarri immaginava di arruolare anche qualche premio Nobel), con acquisizione autonoma dei dati finanziari dalla Ragioneria generale dello Stato e dalla Banca d’Italia, Fini non sarebbe stato in condizione di scalfire più di tanto i poteri di Tremonti. Sarebbe come, l’ho ripetuto più volte, pensare che una zanzara possa fare il solletico ad un elefante. I poteri del Ministro dell’economia sono tanti e tali che, con quella riforma, Palazzo Chigi poteva diventare solo un interlocutore documentato del Ministro. Ciò non è poco, certamente, ma neppure questo poco è concesso a Fini”.
Completo i ricordo di quei giorni con un aneddoto significativo.
Quando la vicenda della “cabina di regia” si trascinava ancora stancamente da un venerdì all’altro, in occasione della Messa di pasqua, che si teneva nella “sala verde” al terzo piano di Palazzo Chigi, approfittando della presenza di Gianni Letta che, come me presente con qualche anticipo, gli sussurrai “Direttore, intervenga su Tremonti. Il ruolo di Fini non potrà comunque limitare il potere del Ministro dell’economia”. Letta si girò verso di me e con tono perentorio, a lui non consueto, mi disse “Consigliere, ma non ha ancora capito che è Berlusconi che non vuole”.
In sostanza come avrebbe scritto di lì a qualche mese, nel suo consueto volume di fine anno, Bruno Vespa.
1 novembre 2013

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