martedì, Marzo 19, 2024
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“Se questa è una repubblica, Viva il Re”, parola di Marcello Veneziani:

di Salvatore Sfrecola

“Se questa è una repubblica, Viva il Re”. Non è diventato monarchico Marcello Veneziani. Quella frase, che chiude l’articolo che oggi, su La Verità, dedica alla celebrazione del 74° anniversario della Repubblica vuol significare semplicemente tutta la sua delusione per come vanno le cose dal 1946. Giornalista, scrittore, storico, filosofo e politologo, autore di saggi che hanno alimentato in modo determinante la cultura di destra, tra i quali La rivoluzione conservatrice in Italia, Processo all’Occidente, Di Padre in figlio, Elogio della Tradizione, La cultura della destra, Dio, Patria e Famiglia, per non citare che i più noti, Veneziani ci presenta le sue idee sulla Repubblica alla vigilia del 2 giugno. Per la quale il tempo, dal 1946, sarebbe passato invano. Nel senso che “la formula politica su cui regge la nostra repubblica è rimasta la stessa, siamo ancora una repubblica parlamentare e non siamo mai passati a una repubblica presidenziale, federale o altro. Tradita, degenerata ma parlamentare. Vani tentativi, piccoli aborti, leggi elettorali a raffica e su misura per chi governa ma nessun sostanziale passaggio da una forma repubblicana a un’altra. Fallì pure il tentativo renziano di “abolire” il Senato e il bicameralismo perfetto. Siamo dove eravamo, solo più sfasciati”.

Per Veneziani, “nessuno ha avuto il coraggio e i numeri per modificare la Costituzione, riscrivere i suoi passi alla luce delle esigenze mutate e dei cambiamenti d’epoca”. Abbiamo la “partitocrazia come recinto e orizzonte della democrazia”, per cui siamo “ancora nella fase dissolutiva della prima repubblica”. Osserva che “l’unica grande novità degli ultimi decenni è che sono scomparsi i partiti storici che l’avevano costituita, le loro ideologie e la loro presenza territoriale. La DC, il PCI, il PSI, il MSI, il PSDI, il PRI, il PLI.”. Denuncia “l’inconsistenza del populismo; lasciato a sè stesso, è un vago umore, un sentimento di rivolta e di opposizione. Ma poi, per governare, si deve unire ad altro che le dia sostanza, qualità, strategia e destinazione: per esempio una linea di sovranità o di subordinazione ai poteri internazionali. Il populismo vale come sfogo, disagio, voglia di mutamento; ma non ha poi le classi dirigenti, le capacità e le competenze per potersi trasformare da pura protesta in governo in guida del Paese. Il populismo è la fase puerile della politica, quando è ancora confusa con l’antipolitica e non distingue tra slogan e progetti, tra desideri e realtà”.

La citazione è necessariamente ampia perché l’occasione di riflettere sulle nostre istituzioni è importante, cominciando dalla natura parlamentare dello Stato che evidentemente non piace a Veneziani il quale vorrebbe una Repubblica presidenziale, magari federale. È la ricorrente richiesta di una parte della destra italiana che nella Repubblica presidenziale immagina una maggiore governabilità, in quanto affidata ad un presidente eletto dal popolo e alla guida dell’esecutivo, alla Macron, per intenderci. È il desiderio dell’“uomo forte” al comando, opzione pericolosa perché potrebbe anche dar luogo a un premierato difficilmente contrastabile laddove la democrazia si basa sull’alternanza al potere, che non sia teorica ma possibile. Certamente in una democrazia parlamentare, come nella tradizione italiana, come si atteggiò immediatamente il Regno di Sardegna in applicazione dello Statuto Albertino che delineava una forma di governo di tipo monarchico-costituzionale “puro” nel quale la Corona occupa un ruolo centrale e attivo: “il Re nomina e revoca i suoi Ministri” (art. 65). Ma subito se ne dà una interpretazione parlamentare attuando, “maggiormente forte e pervasivo il collegamento del consiglio con il parlamento, alla ricerca di una sempre più indispensabile fiducia dei deputati verso il governo” (Paolo Colombo, Con lealtà di Re e con affetto di Padre, Il Mulino, Bologna 2003,110).

È una debolezza? La democrazia notoriamente è la forma più difficile di gestione del potere pubblico. Secondo Winston Churchill “è stato detto che la democrazia e la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora”. Infatti, in Parlamento si decidono le scelte di fondo. In Parlamento, e sulla base della indicazione dei partiti i quali sono il luogo politico nel quale si attua l’elaborazione delle idee e si forma il consenso popolare. Veneziani ricorda la “partitocrazia” con la quale il suo inventore Giuseppe Maranini indicava il potere dei partiti, più esattamente lo strapotere dei partiti. Se questo sistema ha delle pecche queste sono dovute essenzialmente alla circostanza che nei partiti, dei quali non sono state definite con legge le regole di funzionamento, prevale la volontà dei leader sicché anche le liste elettorali che daranno luogo alla formazione del Senato e della Camera dei deputati sono definite da una ristretta oligarchia. Questo male si potrebbe aggravare in una Repubblica presidenziale nel senso che, con ogni probabilità, a portare alla presidenza un esponente di spicco della politica sarà un partito o una coalizione ben definita di partiti con l’effetto di aumentare il difetto che Marcello Veneziani identifica nella partitocrazia. Nel senso che avremmo probabilmente un partito unico, il che fa pensare che persista in una parte della destra politica una cultura che si riaggancia all’esperienza del partito unico, sia pur riveduto e corretto.

È chiaro che questa prospettazione di una riforma della Costituzione, per cui Veneziani sembra anche aver sofferto della mancata abolizione del bicameralismo perfetto che sappiamo bene essere un falso problema perché ha costantemente favorito l’approfondimento dei testi normativi in fase di elaborazione parlamentare senza ostacolare i tempi della legislazione che sono dipesi sempre dal consenso, questa idea di democrazia guidata è molto diversa da quella liberale nella quale noi crediamo.

C’è una differenza quasi antropologica tra chi crede nella democrazia parlamentare, nel pluralismo delle idee e chi ritiene che gli italiani siano immaturi evidentemente per questa forma di democrazia. Che potrei chiamare all’inglese, laddove Charles-Louis de Secondat, barone di La Brède e di Montesquieu, osservando a Londra i rapporti fra Governo, Parlamento e Sovrano ha definito la teoria della “divisione dei poteri” come espressione necessaria di uno stato liberale.

Se le cose non vanno in Italia non è colpa della natura parlamentare dello Stato ma dei partiti e, in fin dei conti, degli italiani che non partecipano alla vita politica e delegano ad altri, spesso senza esprimere un voto, le decisioni sul governo del Paese.

Le semplificazioni dei sistemi costituzionali sono sempre pericolose anche perché l’uomo solo al comando, che piace tanto in certi ambienti, viene sempre immaginato come uno della propria parte politica giacché se, invece, fosse tratto da altri schieramenti penso che la sofferenza sarebbe lunga e insopportabile. Ora noi vogliamo una democrazia nella quale sia facile mandare a casa chi ha governato male, chi non ha soddisfatto le esigenze dei cittadini. E questo può accadere solo in uno stato parlamentare. Pertanto, noi siamo fermamente convinti che la strada della democrazia, difficile e irta di ostacoli, disseminati di recente da un populismo becero e incolto, senza esperienza alcuna, sia la valorizzazione del Parlamento in rapporto alle scelte del popolo. E per questo occorre una legge elettorale che assicuri espressione compiuta alle scelte popolari, con regole che non vengano cambiate ad ogni legislatura, come osserva esattamente Veneziani ad uso e consumo presunto, come l’esperienza insegna, della maggioranza che la vota e che ritiene così di perpetuare il potere. Guardo con simpatia al sistema elettorale inglese, a collegi che consentono un rapporto diretto tra l’elettore e l’eletto e che rendono i gruppi parlamentari espressione autentica della volontà popolare limitando in questo modo lo strapotere dei partiti perché un parlamentare eletto sulla base della conoscenza diretta e del consenso dell’elettorato non sarà mai succubo delle scelte dei partiti. Abbiamo visto nel Regno Unito un esempio straordinario di democrazia. Il 12 dicembre 2019 gli elettori hanno scelto in maggioranza i parlamentari del partito conservatore, il giorno successivo la Regina ha incaricato il leader di quel partito di formare un governo e questo ha assicurato immediatamente governabilità e sicurezza in un momento difficile di quel grande Stato che usciva dall’Unione Europea.

È la legge elettorale che dà senso al funzionamento delle istituzioni costituzionali. Per cui è necessario che sia costituzionalizzata e non rimessa ai contingenti interessi di occasionali maggioranze.

1 commento

  1. Non comprendo l’affermazione di Veneziani sulla Repubblica. Il problema della partitocrazia è reale, ma non si risolve solo con lo strapotere delle forze politiche che hanno occupato il potere, fra l’altro lasciando fra l’altro campo libero alle forze economiche che hanno occupato uno spazio abnorme nello sviluppo socioeconomico del Paese, con gli effetti di creare enormi diseguaglianze territoriali di sviluppo industriale nelle varie aree dell’Italia. Per quanto riguarda il populismo, presente in vari paesi europei, questo si è il risultato di una crescente inadeguatezza della capacità di rispondere alle necessità delle aspettative del popolo da parte del mondo politico ed alla scomparsa delle ideologie con il dissolvimento dell’ Urss e della globalizzazione dell’economia. Concordo che le normative elettorali dovrebbero avere rilievo costituzionale per evitare la continua modifica delle stesse per interessi politici delle varie compagini governative. Buon articolo, ma il problema non risiede nell’assetto istituzionale del Paese.

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