venerdì, Aprile 26, 2024
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Riflettendo con Guareschi sul latino

“Il latino è una lingua precisa, essenziale. Verrà abbandonata non perché inadeguata alle nuove esigenze del progresso ma perché gli uomini nuovi non sapranno più adeguarsi ad essa. Quando inizierà l’era dei demagoghi, dei ciarlatani, una lingua come quella latina non potrà più servire e qualsiasi cafone potrà impunemente tenere un discorso pubblico e parlare in modo tale da non essere cacciato a calci giù dalla tribuna. E il segreto consisterà nel fatto che egli, sfruttando un frasario approssimativo, elusivo e di gradevole effetto ‘sonoro’ potrà parlare per un’ora senza dire niente .Cosa impossibile col latino”, Giovannino Guareschi

di Emanuela Andreoni Fontecedro

Il fiume delle parole, la corrente continua in cui ci rispecchiamo: è solo risalendola e tornando alla Casa dei padri (immagine del linguista russo Illič Svytič) che comprendiamo (cfr. latino: comprehendere, cioè afferriamo) l’essenza che ci tramandiamo. Le parole sono detriti di miti (non diversamente Wittgenstein), del mito umano che così risuona il mondo. Vorrei conoscere molte lingue e avrei il ricordo, la fantasia, la creatività stessa in mano. Studiare il latino per un Europeo, un occidentale significa questo: la lingua antica ci porta ‘alle rive della luce’: espressione che Lucrezio rapiva per la sua filosofia degli atomi al poeta Ennio, che l’aveva tributata al dio Quirino, ovvero Romolo, il fondatore di Roma. Ci porta a conoscere i millenni che si frantumano nei suoni, si organizzano, dicono per comunicare, superato il gesto, le reazioni del pensiero, delle emozioni: recupero, con la storia dei significati, del tempo stesso. Immergersi nell’italiano con l’aiuto del latino, una lingua di cultura, ferma sulla pagina, insegna l’organizzazione del dire nel suo registro più attento, che sempre chiarisce, nel cotesto serrato, i livelli di comunicazione: frase principale, frase reggente e l’intreccio delle dipendenti sbrogliato dallo strumento della consecutio temporum e dell’attrazione modale, favorito dai parallelismi, vivificato dal gusto breve della variatio. Tradurre il testo latino a livello di ‘comprensione’ o decodifica insegna non solo l’arte del dire, e della parola scritta, ma eccita la logica a ritrovarsi sulla pagina ad essa ispirata, ‘traghettare’ il testo in italiano, o ‘ricodifica’ suscita e potenzia il respiro e la possibilità di cercare in noi, nel nostro pensare in lingua, un’equivalenza del valore significativo, dei suoni, della gamma allusiva che ogni parola e ogni nucleo di significanze collegate producono. Questa è l’organizzazione di scrittura del latino che indicava Guareschi, che insieme compiangeva individui e popolo italiano, nel caso in cui ne rimangano esclusi e a cui rimanga soltanto il sonoro delle espressioni. La scrittura, il discorso, la parola: logos in greco assimila insieme parola e ragione, razionalità, ovvero la logica. Questa fusione di lingua e pensiero è quanto riconosce Guareschi al latino.

Tanto più ardua, formativa è la ricerca nel tradurre dal latino all’italiano , di far collimare il mondo lontano con il nostro presente: diversi i riferimenti, le allusioni, un mondo di guerra e di pace, in altre parole gli accumuli di storia che si sono formati, ma nel sostrato permane e in superficie si esprime uguale il mondo delle emozioni, il senso comune che si manifesta negli stessi adagi e proverbi, e conia con volti antichi il nome dei giorni e dei mesi, racconta di favole trascorse nel pensiero dei millenni, raccoglie il tempo, il suo istante e fluire.

Se l’eredità letteraria e filosofica riluce nelle biblioteche degli autori moderni, da Dante a Shakespeare da Calderon de la Barca a Montaigne, Pascal, Thomas Stearns Eliot, se il ramo d’oro con cui Enea può discendere all’Ade altro non è che il vischio in cui si racchiude lo spirito arboreo del dio norvegese Balder, se Giulietta e Romeo sono i nomi moderni di Piramo e Tisbe, – che poi in Oriente sono Layla e Maynun -, se il cadere delle foglie si eguaglia, per tutti, nei secoli alla vita che muore (Omero, Semonide, Mimnermo, Seneca, Arnault, Leopardi, Giacosa, Tjutcev, Ungaretti), l’emozione che ci accomuna nelle briciole del tempo che ci appartiene trascorre incessante con la parole.

Colloquiare con i millenni, controllare sulla mappa orizzontale dove sono fluiti i rivi dell’indoeuropeo madre comune ipotizzata: il latino si propone come filo nel labirinto e, mentre noi lo possediamo, si crea per noi il valore della humanitas senza confini. Non significa rendersi conto del tratto breve del tempo, che solo ci appartiene. La stessa parola ‘tempo’ (time, tiempo, temps, der Zeit) nel suo radicale dice sì ‘ritaglio’ (cfr. greco temno) ma permette anche di farsi sentire come ‘durata’ (greco teíno, lat. tendo). Il breve ‘tratto’ che spetta all’individuo, si moltiplica di vite vissute, se accoglie la ‘conoscenza’: linguistica, filosofica, letteraria, storica. La certezza del passato, l’unica che ci appartiene mentre sappiamo, con memoria agostiniana, che il futuro non lo conosciamo e che il presente ci sfugge tra le dita, è la sola in grado ad ancorare il fluttuare dei nostri pensieri. E le parole, che secondo Abécassis sono ‘valigie’ trasmettono già di per se stesse, anche libere dai testi più splendidi che per noi ricreano interni e pianure, giorni che scivolano nelle stagioni, ombre e luminosità di parvenze divine, creano e sono esse stesse memoria. Proiettarci nella sorgente della nostra lingua antica è celebrare la vita e rendere ad essa omaggio.

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