di Salvatore Sfrecola
Si dibatte sempre più spesso della scelta che i medici, a volte, sarebbero chiamati a fare quando si trovano a dover curare due persone in condizioni gravi, un giovane ed un anziano. Il primo che può più facilmente essere curato, il secondo, l’anziano, per il quale più ardua è la possibilità di guarigione. Tradotto in termini semplici, nel caso non si possano curare entrambi con speranza di guarigione, sì dovrebbe scegliere chi ha di fronte a sé presumibilmente un maggior tempo di vita. Una scelta drammatica che si propone solo perché lo Stato, l’autorità pubblica che gestisce il servizio sanitario nazionale non è in condizioni di curare efficacemente entrambi, perché manca un posto letto in rianimazione, perché mancano bombole di ossigeno, tanto per semplificare.
Leggo su La Verità di oggi un articolo di Eugenio Villa, Primario merito di oncologia medica all’Ospedale San Raffaele di Milano, il quale segnala di aver letto che il nuovo piano pandemico prevede “di allocare risorse in modo da fornire trattamenti non necessari preferibilmente a quei pazienti che hanno maggiori probabilità di trarne benefici”. Aggiunge di essere rimasto allibito. Le parole “trattamenti non necessari” sono riportate in una frase tra virgolette. E questo “o è un refuso tipografico o non conoscenza dell’italiano da parte di chi lo ha steso. C’è qualcuno tra questi che può considerarle intubazione in terapia intensiva un trattamento non necessario? Quando mai in Italia un medico ha potuto fornire “trattamenti non necessari” indipendentemente dalla pandemia, dalla crisi economica? Mai. A malapena riusciamo a fornire i trattamenti necessari e di questo dobbiamo esserne fieri come medici italiani e ciò è grazie al nostro servizio sanitario, ma non è così in altri Paesi anche più evoluti del nostro”.
È il fallimento di un principio di civiltà che, Costituzione alla mano, è il diritto alla salute che non prevede la preventiva valutazione del vantaggi che ne può trarre il paziente. Perché è evidente che “non necessari” significa “non utili”, non idonei alla cura in vista della guarigione. Eppure se ne scrive sui giornali e se ne parla nelle trasmissioni televisive con estrema superficialità come se fosse normale lasciar morire il più anziano solo perché ci sono pochi medici e le strutture ospedaliere sono inadeguate. E, poi, chi decide quale dei pazienti gravi debba essere lasciato morire? Senza un consulto, senza sentire l’interessato, senza informare i parenti? Stupisce l’estrema superficialità con la quale si parla di una questione di vita o di morte, di diritti personalissimi e che non si senta l’intrinseca ingiustizia di una scelta che, al fondo, è conseguenza della mancata previsione del prevedibile, di una inadeguata organizzazione dei servizi sanitari che, diciamola tutta, hanno subìto negli anni i danni di una gestione politica localistica dovuta al ruolo determinante delle regioni che, avendo come maggiore posta di bilancio la spesa sanitaria, mediamente sopra l’80 per cento delle disponibilità, hanno gestito più nell’interesse della politica che dei possibili pazienti. Della politica ma anche delle categorie mediche interessate, sicché in taluni casi si è assistito alla moltiplicazione dei primariati per assicurare carriere e stipendi senza preoccuparsi del numero dei letti disponibili, delle specializzazioni occorrenti e delle attrezzature adeguate.
Non è così ovunque, ovviamente, ma gli errori sono accuratamente distribuiti lungo lo stivale. In alcuni casi i primari lo sono per più reparti, con effetti negativi evidenti sulla funzionalità dei servizi, in altri la moltiplicazione dei reparti li ha resi inadeguati all’emergenza che è situazione da considerare sempre nel senso che una buona programmazione delle attività deve prevedere che, all’occorrenza, i servizi possano essere rapidamente riconvertiti in relazione alle sopravvenute necessità.
L’Italia, purtroppo, ha una antica esperienza nella mancata previsione delle emergenze, non solo sanitarie, ma anche ambientali, come delle manutenzioni, attività che non compaiono agli occhi dei più e che non consentono al politico di turno, che opera soprattutto in vista del consenso che ne deriva, di gloriarsi agli occhi dell’elettorato. Eppure le attività di prevenzione muovono ingenti risorse e richiedono rilevanti impegni di spesa e, quindi, di lavoro. Per la politica meglio, molto meglio gestire l’emergenza che si può fare liberi delle regole ordinarie della gestione escludendo controlli e responsabilità. E così nel caso della pandemia da Covid-19 l’“avvocato del popolo” ha previsto che si possa spendere senza che eventuali danni provocati all’Erario debbano essere risarciti, neppure se provocati con “colpa grave”, cioè col massimo della negligenza, imperizia e noncuranza delle regole, cioè senza comprendere, come dicevano i romani, quello che tutti comprendono. Naturalmente comprendono bene quali interessi privati debbono soddisfare.