di Salvatore Sfrecola
È crisi di governo perché Matteo Renzi si è sfilato dalla maggioranza. Ma, in realtà, a ben vedere, è crisi di sistema, del sistema parlamentare in ragione del prevalere degli interessi politici dell’attuale maggioranza in vista dell’elezione del nuovo Presidente della Repubblica. E così dal 4 marzo 2018, quando i partiti dissero subito che le Camere uscite dalla consultazione elettorale avrebbero scelto il successore di Sergio Mattarella eletto il 31 gennaio 2015. Questo riferimento temporale ovvio è diventato un dato politico che condiziona da allora le decisioni dei partiti e la stessa vita delle istituzioni repubblicane da oltre tre anni. Tanto da determinare quello che può essere definito lo stallo della democrazia.
Accade, infatti, che i partiti i quali hanno dato vita al governo Conte 2, in particolare il Movimento 5 Stelle e il Partito Democratico, sono stati pesantemente ridimensionati dai risultati elettorali che, nelle regioni e in molti importanti comuni, hanno visto crescere Lega e Fratelli d’Italia. Mentre Italia Viva lo è solo per aver determinato la crisi del Governo Conte considerato che, nei sondaggi, raccoglie poco più del 2 per cento delle intenzioni di voto.
Il Centrodestra ha chiesto, dunque, al Capo dello Stato che ne prendesse atto e sciogliesse le Camere in ragione di questo mutato clima elettorale. È stato facile ribattere che le maggioranze governative si formano tra Camera e Senato e lì la maggioranza è ancora quella del 2018, nonostante taluni cambi di casacca. O, forse, “era”, come attesta la disperata ricerca del voto di transfughi da vari partiti, eufemisticamente definiti “costruttori”, nel tentativo estremo di raccattare, come si direbbe a Roma, i voti necessari per evitare lo scioglimento delle Camere. Considerato che il timore di elezioni anticipate è drammatico per i più, a causa del “combinato disposto” del calo dei consensi e della riduzione del numero di deputati e senatori.
È indubbiamente una situazione di grave disagio politico perché, in vista delle elezioni presidenziali del 2022, tutto è condizionato dalle maggioranze possibili intorno ad un nome, che potrebbe anche essere anche quello di Sergio Mattarella, anche se il Presidente, secondo una diffusa interpretazione del discorso di fine anno, avrebbe manifestato l’intento di non accettare la rielezione. Un desiderio, quello della rielezione, comunque comprensibile ed umano, anche se, alla data dello scrutinio, avrà superato gli 81 anni. Tutti i presidenti hanno sperato di essere rieletti, anche Luigi Einaudi, il primo, il più estraneo ai partiti, economista illustre, già Governatore della Banca d’Italia e Ministro del bilancio (il Ministero che fu creato apposta per lui). Anche Francesco Cossiga, il più giovane, sperava di essere confermato al Quirinale. Si dice che in ragione di questa aspettativa sia stato silenzioso per oltre tre anni per poi “esternare” a tutto tondo, picconando uomini e istituzioni quando si è reso conto che i partiti non lo avrebbero proposto per un nuovo settennato.
Giorgio Napolitano è stato l’unico presidente confermato, sia pure per un breve periodo, al solo scopo di rinviare la resa dei conti tra i partiti in difficoltà dopo la sonora bocciatura della riforma costituzionale proposta da Matteo Renzi. E fu Mattarella, una persona perbene, un giurista raffinato, attento esegeta della Costituzione e dei poteri che gli riconosce. Naturalmente non tutti concordano con lui, ad esempio quanto alla mancata presa d’atto che nel Paese è cambiato il consenso nei confronti dei partiti che sostengono il Governo Conte giallo-rosso, un Esecutivo che si regge soprattutto sul timore indotto dall’epidemia di Covid-19, per cui si sente ripetere da taluni con sdegno che in tempi di emergenza non si fanno crisi di governo. Il che, naturalmente, è una sciocchezza per chi ritiene che il governo si sia dimostrato inadeguato proprio nell’emergenza. Nella quale si intravedono luci ed ombre. Di queste ha timore soprattutto la maggioranza giallo-rossa che spera di recuperare consensi attraverso le promesse che ruotano intorno all’impiego delle ingenti risorse che verranno dall’Unione Europea, considerato che i bonus fin qui elargiti non hanno portato i consensi che i partiti di governo si attendevano. E, pertanto, hanno respinto le ipotesi di un governo di unità nazionale proposto da Salvini e Meloni che, in ogni caso, i “quirinalisti” dicono all’unanimità non essere negli scenari possibili di Mattarella. Che comunque naviga in acque difficili perché se le mosse dei partiti possono essere condizionate dalle possibili maggioranze per le elezioni del Capo dello Stato è evidente che anche le iniziative del Presidente rischiano di essere lette come finalizzate a consolidare il ruolo dei partiti che lo portarono al Quirinale nel 2015. Per lui stesso e, comunque, per la sua “parte politica”. E qui c’è chi ci zuppa il pane, come si dice, o meglio i “savoiardi”, a sentire i monarchici che, per bocca del loro Presidente nazionale, l’Avv. Alessandro Sacchi, ricordano che il ricorso alle urne, “che in ogni democrazia parlamentare consegue all’accertata mancanza di una maggioranza di governo omogenea, è impedita in Italia dall’imminente scadenza del mandato del Presidente della Repubblica e quindi dal timore che possa cambiare, come prevedono i sondaggi, la maggioranza che ha eletto l’attuale Presidente e che vuole eleggere il suo successore. La nostra, osservano i monarchici, è, dunque, una democrazia bloccata che ancora una volta dimostra la superiorità democratica dell’istituzione monarchica che sottrae il Capo dello Stato al condizionamento dei partiti”.
Il “fattore Quirinale”, dunque, condiziona la vita politica e parlamentare. Ed è inevitabilmente un limite di questa Repubblica.