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11 agosto 1900: Vittorio Emanuele assume le funzioni di Re dinanzi al Senato

Signori Senatori e Signori Deputati! Il mio primo pensiero è per il mio popolo ed è pensiero di amore e di gratitudine. Il popolo che ha pianto sul feretro del suo Re, che affettuoso e fidente si è stretto intorno alla mia persona, ha dimostrato quali solide radici abbia nel Paese la monarchia liberale. Da questo plebiscito di dolore traggo i migliori auspici del mio regno. La nota nobile e pietosa, che sgorgò spontanea dall’anima della Nazione, mi dice che vi ha ancora nel cuore degli italiani la voce del patriottismo, che ispirò in ogni tempo miracoli di valore. Sono ben lieto di poterla accogliere.

Quando un popolo ha scritto nel libro della Storia una pagina come quella del nostro Risorgimento, ha diritto di tenere alta la fronte e di mirare alle più grandi idealità. Ed è a fronte alta e mirando alle più grandi idealità che io mi consacro al Paese con tutta l’effusione ed il vigore di cui mi sento capace, con tutta la forza che mi danno gli esempi e le tradizioni della Casa.

Signori Senatori e Signori Deputati! Impavido e sicuro ascendo il trono, con la coscienza dei miei diritti e doveri di Re. L’Italia abbia fede in me come io ho fede nei destini della Patria e forza umana non varrà a distruggere ciò che i nostri padri hanno, con tanta abnegazione, edificato. Non mancherà mai in me la più serena fiducia nei nostri liberali ordinamenti e non mi mancheranno la forte iniziativa e la energia dell’azione, per difendere vigorosamente le gloriose istituzioni del Paese. Invoco Dio in testimonio della mia promessa, che da oggi in poi il mio cuore, la mia mente, la mia vita offro alla grandezza ed alla prosperità della Patria.

Ed apre alle riforme sociali dell’età giolittiana

“Monarchia liberale”, “liberali ordinamenti”, “diritti e doveri di Re”. Poche parole, ad 11 giorni dalla morte del padre, il Re Umberto I, per mano dell’anarchico Bresci, parole che segnano un cambio radicale nella storia d’Italia. Scritte di proprio pugno, avendo scartato il testo che gli aveva preparato il Presidente del Consiglio Saracco, quel brevissimo discorso apre a quelle riforme che caratterizzeranno la cosiddetta “età Giolittiana”, nel corso della quale l’Italia conoscerà un significativo progresso in campo economico e sociale.

Aveva 31 anni il giovane Re, al quale, sull’onda dell’indignazione per il regicidio, era stata suggerita una stretta contro i movimenti anarchici, socialisti e repubblicani. Percepisce immediatamente le esigenze delle classi più umili che, soprattutto nelle aree più arretrate del Paese, vivevano condizioni di grave disagio. E si affida ad un solido uomo di governo, un  liberale secondo la migliore tradizione avviata da Cavour, come il Conte  profondo conoscitore della macchina pubblica, un’esperienza, maturata come magistrato della Corte dei conti e del Consiglio di Stato, che gli tornerà utile per attuare rapidamente riforme che collocheranno l’Italia in una posizione di avanguardia in Europa.

Re e Primo Ministro all’unisono porteranno l’Italia verso traguardi importanti. La difesa dei conti pubblici, le riforme sociali, la perequazione tributaria ed i miglioramenti economici alle categorie più disagiate, “contengono in nuce le linee direttive della sua futura politica sulla libertà del lavoro e sulla neutralità dello Stato nelle controversie sindacali” (Spadolini). Intervenendo alla Camera il 4 Febbraio 1901 Giolitti aveva detto “il governo quando interviene per tener bassi i salari commette un’ingiustizia, un errore economico e insieme politico. Commette un’ingiustizia perché manca al suo dovere di assoluta imparzialità fra i cittadini prendendo parte alla lotta contro una classe. Commette un errore economico, perché turba il funzionamento della legge economica dell’offerta e della domanda, la quale è la sola legittima regolatrice delle misure dei salari come dei prezzi di qualsiasi merce. Il governo commette infine un errore politico perché rende nemiche dello Stato quelle classi le quali costituiscono la maggioranza del paese”.

Il fine dello statista piemontese, scrive ancora Spadolini, “era uno soltanto: permettere allo Stato italiano di superare la prova definitiva, conciliandosì le masse operaie, richiamando alla legalità e alla libertà quelle forze popolari che si riallacciavano ancora per tanta parte alla tradizione anarchico – reazionaria” Era semplicemente “un liberale moderno, illuminato”.

Sono gli anni nei quali l’Italia cresce, si sviluppa e si trasforma e passa dalle forme oligarchiche e censitarie alla democrazia ed al suffragio universale (1912), senza mai rinunciare alle grandi direttive del liberalismo cavouriano, ai punti fermi della “religione del Risorgimento”. È il periodo nel quale il culto del Parlamento viene praticato ed esaltato da Giolitti secondo l’insegnamento del Conte di Cavour contro tutte le restrizioni alle libertà statutarie, contro tutte le velleità reazionarie ed autoritarie che sul finire del secolo avevano fatto da l’incubatrice del malessere sfociato nel regicidio.

Tuttavia, accanto alla difesa delle garanzie parlamentari Giolitti serbava la coscienza gelosa e quasi religiosa dei valori dell’Esecutivo, del Governo, affermandone costantemente l’autonomia dalla Corona, che pure lo appoggerà sempre. Come sempre lui sarà fedele al Re, “monarchico per la pelle”, come quando nel 1915, fautore della neutralità mentre Inghilterra e Francia scendono in campo contro Germania ed Austria non esita a schiararsi per l’intervento quando comprende che Vittorio Emanuele III si era impegnato a favore delle potenze dell’Intesa con il Patto di Londra.

Salvatore Sfrecola

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