giovedì, Ottobre 10, 2024
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La politica sempre più invasiva della dirigenza statale

di Salvatore Sfrecola

Come quelle dell’Inferno anche le strade della Pubblica Amministrazione sono lastricate di buone intenzioni, quelle dei politici che, tra Governo e Parlamento, fanno le leggi. E certamente ispirata a buone intenzioni era inizialmente l’art. 19, comma 6, del decreto legislativo n. 165 del 2001 il quale, nella formulazione originaria, prevedeva che le Pubbliche amministrazioni potessero conferire incarichi di funzioni dirigenziali, entro il limite del 10 per cento della dotazione organica dei dirigenti appartenenti alla prima fascia e dell’8 per cento della dotazione organica di quelli appartenenti alla seconda fascia, a tempo determinato (tre o cinque anni), “a persone di particolare e comprovata qualificazione professionale, non rinvenibile nei ruoli dell’Amministrazione”.

Detta così la norma è parsa espressione di saggezza, riguardando una ipotesi residuale, cioè quella che nei ruoli di un’Amministrazione non sia disponibile la specifica professionalità occorrente. Ipotesi assolutamente residuale perché, in realtà, le amministrazioni pubbliche nel loro complesso dispongono di tutte le professionalità, a qualunque branca scientifica e professionale riferibili. Ed è sempre avvenuto che quando un’amministrazione non disponeva, ad esempio, di un ingegnere, di un fisico, di un geologo e via dicendo, comprese talune specializzazioni in settori del diritto e dell’economia, ne faceva richiesta all’amministrazione che ne aveva nei ruoli. In questi casi si ricorreva al comando o al distacco. E l’esigenza veniva soddisfatta. In astratto, dunque, il comma 6 dell’art. 19 non doveva essere utilizzato che in rarissimi casi.

Non è stato così. La politica la quale da sempre ritiene che l’Amministrazione dello Stato sia “cosa sua” era in agguato ed ha subito compreso che quella norma poteva costituire una falla che si prestava per sistemare amici e collaboratori. Con la conseguenza che le amministrazioni hanno acquisito, in posizioni sovente di elevata, responsabilità personaggi con scarsa esperienza e spesso inadeguata professionalità. Alcuni provenienti dal privato, molti dalla stessa amministrazione, così contravvenendo platealmente le finalità della norma. Ed aggirando la regola secondo la quale “agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso” (art. 97 comma 4). Di più, molti sono stati reclutati tra coloro che non avevano superato i concorsi a dirigente.

L’effetto sulla pubblica amministrazione è stato deleterio. In primo luogo, perché ha mortificato i funzionari di carriera ai quali non è stato consentito di partecipare a concorsi dirigenziali, sempre più rarefatti, e che si sono visti sorpassati, con funzioni dirigenziali, da soggetti spesso con scarsa preparazione, sempre con molta arroganza, derivante dall’essere “nella manica” del potere politico. Così si spiega anche quel “timore della firma” che è stato enfatizzato a giustificazione della eliminazione, sia pure “a tempo”, della responsabilità per danno erariale nei casi di colpa grave. Insomma questi dirigenti creati dalla politica possono impunemente far danno all’erario senza pagare.

Nel tempo, interventi, soprattutto della Corte dei conti, ma anche dei Tribunali Amministrativi Regionali, hanno cercato di mantenere nei termini di legge il conferimento delle funzioni dirigenziali, con la conseguenza che la politica ha subito aggirato l’ostacolo frapposto dai cerberi custodi della legalità integrando la norma quanto ai requisiti richiesti per i nominandi. E così si è previsto che i candidati alla nomina “abbiano svolto attività in organismi ed enti pubblici o privati ovvero aziende pubbliche o private con esperienza acquisita per almeno un quinquennio in funzioni dirigenziali, o che abbiano conseguito una particolare specializzazione professionale, culturale e scientifica desumibile dalla formazione universitaria e postuniversitaria, da pubblicazioni scientifiche e da concrete esperienze di lavoro maturate per almeno un quinquennio, anche presso amministrazioni statali, ivi comprese quelle che conferiscono gli incarichi, in posizioni funzionali previste per l’accesso alla dirigenza, o che provengano dai settori della ricerca, della docenza universitaria, delle magistrature e dei ruoli degli avvocati e procuratori dello Stato”. Così gettando fumo negli occhi, perché non si vede come possano aspirare a quelle nomine, a tempo, magistrati ed avvocati dello Stato, che sono a tempo indeterminato, tanto per fare un esempio. Mentre le altre esperienze professionali, scientifiche e culturali appaiono roboanti quanto generiche, titoli spesso acquisiti da chi nelle rispettive funzioni poco ha lavorato per dedicarsi alla raccolta di titoli, come dimostra il profluvio di pubblicazioni spesso collettanee e raccogliticce. E comunque si trascura sempre che alla base della norma deve esserci l’esigenza di disporre di una professionalità “non rinvenibile nei ruoli dell’Amministrazione”.

Altra considerazione importante. Si tratta di dirigenti “a tempo”, la cui sorte è soggetta alla volontà del politico di turno che li nomina e che dovrà, al termine del periodo, confermare la scelta. Quindi il dirigente che, come tutti i pubblici impiegati, dovrebbe essere “al servizio esclusivo della Nazione”, come si esprime l’art. 98, comma 1, della Costituzione è in realtà, al servizio di chi lo ha nominato e che non lo confermerà se non sarà pedissequamente a suo servizio.

Non funziona un’amministrazione così. Negli ordinamenti dei grandi stati, quelli che hanno una lunga tradizione amministrativa per aver governato strutture civili e militari di grande spessore e governato estese realtà territoriali, anche coloniali, dalla Francia al Regno Unito, dalla Spagna alla Germania, i dirigenti godono di una indipendenza simile a quella dei magistrati. Il potere politico governativo dà le direttive e loro le eseguono ma non sono proni al potere. Possono dire NO al politico se questo intende forzare la norma. Un tempo era così anche in Italia e la politica rispettava la professionalità dei dirigenti delle amministrazioni. Poi i dirigenti hanno ricercato la raccomandazione per conseguire un particolare incarico di funzione. Nel frattempo quegli uffici sono stati moltiplicati per soddisfare in coincidente interesse dei funzionari a fare carriera e della politica di controllare meglio l’amministrazione attraverso una parcellizzazione degli uffici, alcuni dei quali con pochi addetti, a dimostrazione della loro inutilità. E via via siamo giunti alla norma che consente indiscriminatamente nomine fiduciarie.

Si dice che lo spoil system lo abbiamo importato dagli Stati Uniti ma è una colossale balla. Lì vengono scelti dal governo i responsabili politici, come gli ambasciatori ma sappiamo dalle cronache che i direttori delle agenzie federali indagano perfino sul Presidente.

E, in ogni caso, le scelte politiche vanno ponderate.

Ma non bastava ai politici, sempre alla ricerca di spazi da occupare e di amici da sistemare, e così nel decreto legge 9 giugno 2021, n. 80, recante “Misure urgenti per il rafforzamento della capacità amministrativa delle pubbliche amministrazioni funzionale al Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) e per l’efficienza della giustizia” è stato previsto all’art. 1, comma 15, che “le amministrazioni…  impegnate nell’attuazione del PNRR possono derogare, fino a raddoppiarle, alle percentuali di cui all’art. 19, comma 6, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, ai fini della copertura delle posizioni dirigenziali vacanti relative a compiti strettamente e direttamente funzionali all’attuazione degli interventi del Piano. Gli incarichi di cui al presente comma sono conferiti a valere sulle risorse finanziarie disponibili e nei limiti delle facoltà assunzionali previste a legislazione vigente per ciascuna amministrazione interessata. In alternativa a quanto previsto al primo periodo, le stesse amministrazioni possono conferire, in deroga ai limiti percentuali previsti dall’art. 19, comma 6, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, gli incarichi dirigenziali di cui all’art. 8, comma 1, del decreto-legge 31 maggio 2021, n. 77. Gli incarichi di cui al presente comma sono conferiti per la durata espressamente prevista per ciascun incarico, e comunque non eccedente il 31 dicembre 2026. Le amministrazioni possono riservare una quota degli incarichi ai laureati in discipline scientifiche, tecnologiche, ingegneristiche e matematiche”.

E ancora, al comma 15-bis è previsto che “al fine di garantire all’Agenzia per la coesione territoriale la piena operatività organizzativa e funzionale in relazione ai compiti connessi con l’attuazione degli interventi del programma Next Generation EU e della programmazione cofinanziata dai fondi strutturali per il ciclo di programmazione 2021-2027, fino al 2027 gli incarichi di funzione dirigenziale di livello generale previsti nella dotazione organica dell’Agenzia possono essere conferiti a dirigenti di seconda fascia appartenenti ai ruoli della medesima Agenzia in deroga al limite percentuale di cui all’art. 19, comma 4, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165”.

Ancora una volta, dunque, i funzionari di carriera, quelli selezionati con i concorsi che al Ministro Brunetta non piacciono, con più prove scritte di otto ore e colloquio su una serie di materia professionali, stanno a guardare. Il merito rimane nei manuali come oggetto di studio teorico. La realtà è altra cosa, purtroppo. Ma nessuno si chiede perché l’amministrazione pubblica italiana sia così degradata che non riesce a trovare spazi di riforma che non siano imposti dall’esterno da politici che degli uffici pubblici hanno una conoscenza superficiale, esterna e mai si sono messi a fianco di un  funzionario o di un dirigente per accertare come opera o, meglio, come è costretto ad operare con le leggi ed i regolamenti che scrivono i politici o i tecnici di partito.

Era da attendersi di più da un Presidente del Consiglio che aveva esordito nel discorso programmatico citando Camillo Benso di Cavour, il grande riformatore del Regno di Sardegna che nel 1852 aveva messo mano alla revisione delle strutture amministrative e delle procedure. Il Conte, infatti, aveva compreso che le procedure sono spesso aggravate dalla parcellizzazione delle attribuzioni e delle competenze (oggi, come detto, della moltiplicazione degli uffici difgrigenziali). Il Presidente Draghi deve averlo compreso. Ma poi ha incaricato delle riforme il Ministro Brunetta, un altro che la P.A. la conosce dall’esterno, anche se a Palazzo Vidoni aveva già soggiornato. Con risultati scarsi. Famoso soprattutto per la “legge Brunetta” il decreto, entrato in vigore il 25 giugno 2008, il quale prevede che i periodi di assenza per malattia di qualunque durata, nei primi dieci giorni di assenza è corrisposto il trattamento economico fondamentale con esclusione di ogni indennità o emolumento, comunque denominati, aventi carattere fisso e continuativo, nonché di ogni altro trattamento accessorio. L’idea era quella, certamente encomiabile, di colpire gli abusi. La conseguenza è stata quella che gli impiegati, specialmente nei mesi freddi, vanno in ufficio anche se raffreddati e influenzati per evitare di perdere diverse decine di euro al giorno. E contagiano i colleghi. Quanto la teoria non tiene conto della realtà.

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