venerdì, Marzo 29, 2024
HomeNEWSL’inquietante silenzio dei custodi della Costituzione.

L’inquietante silenzio dei custodi della Costituzione.

del Prof. Avv. Jacopo Severo Bartolomei

Collaboratore Univ.tà Roma III – Cattedra Dir. Cost.le Prof. Alfonso Celotto.

Nel volgere di appena un paio di mesi, lo scenario-teatrino della politica istituzionale del Bel paese ha assistito al dipanarsi di singolari fenomeni, nel silenzio degli attori costituzionali e dei principali soloni, maitre-a-penser dell’ortodossia costituzionale.

Sia consentito rammentare preliminarmente come nel diritto costituzionale comparato siano oggetto di studio i regimi politici improntati alle forme di governo classiche (modello Westminster in Gran Bretagna, il semipresidenzialismo della V Repubblica francese, il regime presidenziale USA, etc.) e, solo in via ulteriore e residuale, le applicazioni degenerative di detti archetipi in altri contesti socio-economici (ad es. il presidenzialismo latinoamericano).

Orbene sin dall’apertura delle danze per l’ascesa al Quirinale, abbiamo assistito – oltre a scontato riproporsi fuori tempo massimo di protagonisti dagli anni ’90 dell’agone politico (Romano Prodi per il centrosinistra, Silvio Berlusconi per il centrodestra e, persino, l’ondivago Pierferdinando Casini, redivivo candidato in quota centro destra sponsorizzato dal renzismo crepuscolare postrottamazione, etc.) – a singolari ipotesi di candidature tecniche (Marta Cartabia, il Guardasigilli nelle grazie di Mattarella; Giuliano Amato, eterno doctor subtilis; Sabino Cassese . a metà tra scialbo Grand commis de l’Etat e tardivo sferzatore del malcostume pure nell’amministrazione giustizia, etc.).

Infatti, dapprima smentita e poi definitivamente tramontata la soluzione Napolitano bis, per Sergio Mattarella, cioè la permanenza a termine nel secondo mandato nel Colle più alto – sino a quando Draghi abbia finito il lavoro con i fondi europei, da impiegarsi nel PNRR “Piano nazionale di Ripresa e resilienza”, si sono aperti vari scenari sul prossimo inquilino del Quirinale.

Il fatto stesso che siffatta problematica trovi vasta eco non solo nei media, ma anche nel dibattito della classe politica è indicativo di un certo cambiamento di costume politico-istituzionale.

Ricordiamo, infatti, che la preventiva presentazione e vaglio della candidatura è stata criterio selettore scartato, dai padri costituenti in poi, in quanto il dibattito sul profilo personale e sui requisiti si riteneva potesse intaccare il prestigio e l’autorevolezza dell’aspirante candidato a suprema magistratura repubblicana, per cui la cortina di riservatezza tra tutti i possibili “scalatori” durante la prima Repubblica era volta ad evitare che si “bruciassero” candidature papabili a carica presidenziale, prima dell’approdo all’esame del Parlamento in seduta comune e a composizione allargata, con i delegati regionali, in breve lo specifico collegio elettorale a tanto deputato.

Orbene archiviata tale prassi di proverbiale riservatezza “da conclave”, la situazione odierna appare diversa ed assai sfrangiata, ed a parte la candidatura di bandiera avanzata dal centrodestra, a mo’ di cartina di tornasole di propria compattezza, del Cavaliere Berlusconi, l’ipotesi più gettonata presa in considerazione è quella del trasloco del Presidente del Consiglio Eurocrate, Mario Draghi, nelle stanze del Capo dello Stato.

A favore di tale operazione milita non solo la figura di garanzia del Premier (corroborato ora da doppia felice esposizione in veste di Maestro cerimoniere e comunque assoluto protagonista, dapprima nel G20 di Roma e poi nel Cop26 di Glasgow, qui con l’assist guascone al Boris Johnson, icona più che della Brexit della riaffermazione del neocommenwealth) ma la sua indubbia autorevolezza di tecnico di comprovata esperienza, “qualificato” in ambito domestico e di assoluto riconosciuto prodigio internazionale; Mario Draghi è uomo conosciuto e ascoltata in ogni ambiente europeo, per cui a livello continentale costituisce la migliore garanzia dell’affidabilità del Sistema Paese, siccome stabilmente inserito in contesto euroatlantico (seppur agli osservatori di geopolitica non sia sfuggito, dopo il ribadito diniego di permanenza in Afghanistan da parte di Biden, il non celato conato di coinvolgimento, nell’ordine, di Turchia, Russia e Cina, in persona dei rispettivi “cattivi e illiberali” Autocrati).

Tuttavia, in tale contesto l’esplicito endorsement per Draghi Presidente della Repubblica effettuato dal Ministro Giorgetti, numero due della Lega di Salvini, non solo ha svolto la funzione di detonatore nel dibattito sul Quirinale, ma ha posto seri problemi seri sia sull’assetto futuro del governo multilaterale che sulla reale consistenza delle opzioni sovraniste del partito di provenienza (definitivamente attenuata la caratura di partito di lotta antiestalishment, di matrice populista) che si sono pretese definitivamente archiviate da componente di centrodestra all’esecutivo, e sia, soprattutto, sugli assetti istituzionali e le prospettive di riforma costituzionale.

Il Ministro dello Sviluppo Economico, dopo aver inserito nell’intervista rilasciata in occasione dell’ultimo libro panettone dello storico da terza camera RAI (Porta a Porta) Bruno Vespa, una critica feroce al capitano per non aver ancora completato il processo di revisione all’antieuropeismo e alle cattive frequentazioni con Marine Le Pen – così lasciandosi scavalcare dal nuovo leader maximo Giorgia Meloni, auspice il conservatorismo di Raffaele Fitto che ha sdoganato Fratelli d’Italia nell’emiciclo parlamentare di Strasburgo – si è espresso direttamente, senza mezzi termini, proponendo tout-court un piano istituzionale eversivo – cosicché vivo Marco Giacinto Pannella da Teramo, avrebbe a ragione parlato di P1, P2, P3, PScalfari, P5 Giorgetti …..per finire con la P38 dei brigatisti .

Questo piano si sostanzia nell’unificazione nella persona di Super Mario Draghi dei poteri di Presidente della Repubblica e di Premier in via de facto, quasi di costituzione materiale di conio mortatiano, rivisitata al ribasso scevra di rappresentanza, al debutto del quinto lustro del primo secolo del terzo millennio cristiano. Il momento elettivo appare irretrattabilmente dequotato a mero adempimento procedurale ed il corpo elettorale in funzione eligente non più in grado di investire il sovrano o i rappresentanti incaricati della designazione del sovrano a siffatti gravi degenerazioni il Giorgetti sembra voler dire che il popolo dalla II (momento suo approdo parlamentare) alla III repubblica (contrassegnata dal trasformismo qualunquistico del M5S) si sia rassegnato e aspetti solo il gruzzolo di denari per sopravvivere e prosperare. L’unità nazionale di cui il Capo dello Stato è supremo e principale Interprete primaché garante, diventa asservimento ai criteri di parità di bilancio e riforma pensionistica retaggio dell’età montiana, giusto in concomitanza con la improcrastinabile rivisitazione della costruzione europea (dissidio tra Varsavia e Bruxelles su aspetti essenziale e prima ancora dissonanze tra Orban e Europa su politica migratoria, nonostante formale appartenenza leader magiaro al PPE) nel frattempo pervenuta dai sette paesi fondatori agli attuali 27, con il non indifferente contributo di enlargement della presidenza commissione italiana all’epoca di Prodi.

Tale semipresidenzialismo de facto si pretende percorribile senza una rottura dell’ordinamento che l’uso della forza comporterebbe, e senza nemmeno un progetto di modifica costituzionale, secondo lo schema dettato dall’art. 138 Cost.. Il passaggio fattuale auspicato comporterebbe la confluenza in una sola persona – il più bravo ed illustre tra i connazionali, il più amato dagli italiani, al pari di un elettrodomestico di eccellenza – in Mario Draghi, ex autorevole Presidente BCE, di una sommatoria di poteri senza precedenti, cosicché non potrebbe parlarsi di evoluzione della forma di governo parlamentare, ma  di  stravolgimento involutivo, senza alcuna preclusione alla funzionalità del modello semipresidenziale puro o adattato al nostro ordinamento nell’immediato futuro. Peraltro, Giorgetti ha dimostrato di ignorare sinanco che il semipresidenzialismo alla francese conserva pur sempre la dualità dei poteri, cioè la diarchia tra Presidente della Repubblica direttamente eletto dai cittadini e primo ministro, da questi nominato ma pur sempre abbisognevole di fiducia parlamentare, e quindi ha finito con l’abbozzare, grossolanamente, un regime di cesarismo napoleonico o, per usare schemi meno storicamente desueti, di presidenzialismo latinoamericano. 

Un ultimo uomo di stato da prima Repubblica, di matrice socialista, ha scritto perentoriamente: “Questa proposta non è nel calendario di Frate Indovino, ma viene avanzata da un Ministro della Repubblica nel pieno esercizio delle sue funzioni, che ha giurato fedeltà alla Costituzione, e riguarda il futuro di un Presidente il quale a sua volta ha giurato sulla stessa Costituzione. Dopo questo disdicevole annuncio il Ministro balbetta ed il Presidente del Consiglio tace; eppure il Presidente della Repubblica, deputato a garantire il rispetto della Costituzione si guarda bene dal chiedere un chiarimento a ciascuno dei due! (Rino Formica, Il silenzio davanti al piano eversivo di Giorgetti, in Domani,  05.11.21 pag. 8).

C’è davvero da rimanere sconcertati, pur volendo concedere che il ruolo del Capo dello Stato abbia subito una veritable metamorfosi dalla Presidenza di Scalfaro in poi e quindi, già col singolare incarico sotto ricatto di nomina senatoriale al Rettore Monti da parte di Giorgio Napolitano, una sorta “presidenzialismo materiale” si è innestato bastardamente nell’alveo della Costituzione formale, frutto di quella Repubblica dei partiti che il nuovo e più autorevole esecutivo tecnico è destinato a spazzare dall’aia della dialettica democratica, pur confusa e contraddittoria, al pari del ventilabro biblico. Va da sé che tale proposta non abbia allo stato, tranne l’intervento puntuale sobrio di Massimo Villone (Il Manifesto 6.11.21), richiamato la dovuta attenzione dei protagonisti delle istituzioni e dei custodi della Costituzione (vari Cassese, Zagrebelsky, Pasquino etc.). 

A fronte di ciò, l’intellettuale disorganico, pescarese secondo per originalità solo a Gabriele D’Annunzio nell’intero 900, Ennio Flaiano, con sferzante brocardo  soleva dire che: la situazione nel nostro paese è sempre estremamente grave, ma mai dannatamente seria.

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui

Most Popular

Recent Comments

filippo de jorio on Cosa insegna il voto in Abruzzo
Leprotti Arturo on Un po’ di umiltà please…
Michele D'Elia on La Domenica del Direttore
Michele D'Elia on Se Calenda ha un piano B