sabato, Luglio 27, 2024
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La Diarchia fu governo di due?

del Prof. Michele D’Elia, Direttore di “Nuove Sintesi”

Pubblico di buon grado il contributo del Preside Prof. Michele D’Elia su un tema di permanente attualità, quello dell’avvento del Fascismo al potere e della gestione dello stesso nel corso degli anni fino alla data del 25 luglio 1943. Si è scritto molto soprattutto sul ruolo del Re Vittorio Emanuele III che, come sono stato sempre convinto, esce dallo scritto di D’Elia con onore per il difficile esercizio del suo ruolo di Capo dello Stato, essendo stato abbandonato dai partiti politici fin dal 1922, quando tentò invano di favorire la formazione di un governo democratico con il concorso di liberali (Giolitti), popolari (Sturzo) e socialisti (Turati). Fuggirono, tutti preoccupati per la difficoltà di affrontare i gravi problemi posti dalla crisi economica, a seguito soprattutto della riconversione dell’industria bellica. Fuggiti di fronte alle loro responsabilità quei partiti si sono dileguati anche successivamente sicché par loro utile, ancora oggi, far ricadere tutti malanni del Regime, dalle leggi razziali all’entrata in una guerra, che non avevamo interesse a combattere, sul Re che, invece, ha salvato l’Italia riprendendo i poteri statutari e stipulando un armistizio certo doloroso ma che solo Lui avrebbe potuto firmare con i vincitori che chiedevano, ed ottennero, la resa incondizionata. La storia restituirà l’onore al Re liberale, al Re di Peschiera e di Vittorio Veneto, al Re costituzionale che aveva esordito nel 1900 favorendo il rinnovamento della politica nel senso di una significativa apertura ai diritti sociali.

Salvatore Sfrecola

Antefatto

Notte tra il 27 e il 28 ottobre 1922. Il Re riceve Diaz a Villa Savoia per chiedere l’intervento dell’esercito. Diaz risponde: “L’esercito farà il suo dovere, ma è meglio non metterlo alla prova”.

(Giovanni Artieri, Cronaca del Regno, Ed A. Mondadori, Milano marzo 1978, p. 272; cfr. anche Salvatorelli-Mira, Storia d’Italia nel periodo fascista, vol. I, Ed. Einaudi, Torino 1964/ Oscar Mondadori, Milano 1972, p. 593 e Nota n. 240)

28 ottobre. Ore 5,00. Facta convoca i ministri, alla riunione partecipano Taddei, Soleri e il gen. Pugliese. Intanto il ministro Rossi e l’on. Bevione preparano la bozza del proclama di stato d’assedio da sottoporre al Re. (Giorgio Candeloro, “Storia dell’Italia moderna, Ed. Feltrinelli, Milano 2016, p. 412).

Ore 5,30. Inizia la riunione del Consiglio dei Ministri. Rossini e l’on. Bevione predispongono la bozza del proclama di “stato d’assedio”

Ore 6,00. Il Consiglio dei Ministri delibera lo stato d’assedio. (il verbale è in Soleri e Repaci, v. nota n.74 in G. Candeloro, p. 412)

Ore 7,50. Prefetti e Comandi militari sono preinformati.

Ore 8,00. Facta lascia il Consiglio e va dal Re per fargli firmare il decreto. Il Re rifiuta di firmare. (Salvatorelli-Mira, op cit. a p. 238 presenta un’oscillazione di 30 minuti)

Ore 8,30. Comincia l’affissione del decreto, a Roma, firmato solo dai Ministri. E il Re?

Ore 9,00. Facta presenta al Re il decreto; questi rifiuta di firmarlo. (G. Candeloro, p. 413)

29 ottobre. La C. G. d. L. non proclama lo sciopero.

30 ottobre, ore 10,30. Benito Mussolini arriva a Roma. Al Quirinale così saluta il Re: “Chiedo perdono a Vostra Maestà se sono costretto a presentarmi ancora in camicia nera, reduce dalla battaglia, fortunatamente incruenta, che si è dovuta impegnare. Porto a Vostra Maestà l’Italia di Vittorio Veneto, e sono il fedele servo di Vostra Maestà”. Mentiva. (Luigi Salvatorelli-Giovanni Mira, “Storia dell’Italia nel periodo fascista, 2 vol. Ed. A. Mondadori, Milano p. 241)

Ma il re poi assicurava che non gli aveva detto nulla del genere”. (F. Cognasso, I Savoia, Ed. Dall’Oglio, Milano 1971, p. 937).

30 ottobre. Ore 12,00. Il Re incarica Mussolini di formare il Governo.

31 ottobre. Mattina. Il Ministero Mussolini è formalmente costituito.

Salvemini: “Se Mussolini riuscirà a spazzar via queste vecchie mummie e canaglie, avrà fatto opera utile al Paese. …” (G. Salvemini, Scritti sul fascismo, a cura di R. Vivarelli, II, Milano 1961, pp. 66, in D. De Napoli, La monarchia dalla crisi del liberalismo all’8 settembre, in La resistenza monarchica in Italia, Ed. Guida, Napoli 1985, n. 62, p. 32)

L’interrogativo

Domenico De Napoli richiamando lo storico Mario Viana, si chiede:

«Sul piano formale fu corretto affidare l’incarico a Mussolini? É vero che si trattò di una crisi extraparlamentare, ma si consideri, senza andare troppo in là con il tempo, che gli ultimi ministeri (Giolitti, Bonomi e il primo governo Facta) erano caduti senza un voto di sfiducia espresso dal Parlamento. Sarebbe stato strano pretendere il rispetto di una prassi costituzionale più corretta, in un momento così drammatico, quando lo Statuto non veniva pienamente osservato neppure da coloro che lo avrebbero dovuto difendere. Aggiunge Mario Viana che, trattandosi di una crisi extraparlamentare determinata dal partito fascista, era coerente affidare a Mussolini la responsabilità di trovare la soluzione politica; senza contare che il Parlamento, dove la presenza fascista era largamente minoritaria, avrebbe potuto poi negare la sua fiducia».(De Napoli, op cit. p. 31).

lI Parlamento eletto il 6 aprile 1924, nel quale i ministeriali contavano 374 deputati su 535, non avrebbe potuto svolgere le sue funzioni statutarie dopo il delitto Matteotti, il 9 giugno 1924 e il quasi immediato Aventino.

Il Re per sua naturale funzione, si confermava unico difensore dei diritti della Nazione e del popolo. Con Lui Mussolini doveva fare i conti.

Mussolini monarchico fraudolento

É tesi di comodo, che con il discorso tenuto a Udine il 20 settembre del 1922, Benito Mussolini

abbia impresso una svolta monarchica o almeno agnostica al movimento fascista: Quella famosa tendenzialità repubblicana doveva essere una specie di tentativo di riparazione di molti elementi che erano venuti a noi soltanto perché avevamo vinto. Questi elementi non ci piacciono. Questa gente che segue sempre il carro del trionfatore e che è disposta a mutare bandiera se muta la fortuna … É possibile – ecco il quesito – una profonda trasformazione del nostro regime politico senza toccare l’Istituto monarchico? E’ possibile, cioè, di rinnovare l’Italia non mettendo in giuoco la monarchia? Il nostro atteggiamento di fronte alle istituzioni politiche non è impegnativo in nessun senso. …Noi, dunque, lasceremo in disparte,… l’Istituto monarchico,anche perché pensiamo che gran parte dell’Italia vedrebbe con sospetto una trasformazione del regime che andasse fino a quel punto. Avremmo forse del separatismo regionale … In fondo io penso che la monarchia non ha alcun interesse ad osteggiare quella che ormai bisogna chiamare la rivoluzione fascista. Non è nel suo interesse, perché se lo facesse diverrebbe subito bersaglio e se diventasse bersaglio, è certo che noi non potremo risparmiarla perché sarebbe per noi una questione di vita o di morte … Bisogna avere il coraggio di essere monarchici. Perché noi siamo repubblicani? In certo senso perché vediamo un monarca non sufficientemente monarca. La monarchia rappresenterebbe, dunque, la continuità storica della Nazione. Un compito bellissimo, un compito di una importanza storica incalcolabile.

D’altra parte bisogna evitare che la Rivoluzione fascista metta tutto in gioco. Qualche punto fermo bisogna lasciarlo, perché non si dia la impressione al popolo che tutto crolla,che tutto deve ricominciare …[1] Il Re capiva che la Corona e la sua stessa persona venivano strumentalizzate, ma non aveva scelta se voleva evitare la guerra civile.

Re Vittorio era popolare perché impersonava la funzione di Rex iustus pater: la guerra che Egli aveva combattuto per quattro anni al fronte, interrotti solo dai normali turni di licenza, come qualunque altro soldato, ne aveva rafforzato il carisma.

Nota Mario Missiroli nel 1922: «… la Monarchia in Italia non può semplicemente durare: deve vivere e deve vivere assecondando e interpretando le profonde esigenze popolari … Sul popolo la Monarchia [può] fare sicura fidanza …».[2]

La Diarchia viene da lontano

Pietro Silva: “Vale la pena di esaminare questo discorso [Discorso di Udine, 20 settembre 1922] perché esso torna attuale quando Mussolini fonda dopo 21 anni, con l’aiuto dell’odiato tedesco, la repubblica sociale italiana. Si vede che il romagnolo compie un grande sacrificio perché, probabilmente, dopo avere sperato di diventare il capo dello Stato, si accorge che avrebbe incontrato l’ostacolo dell’Esercito e del Mezzogiorno. Decide allora di cominciare a ricattare la Monarchia. O il Re darà il potere al fascismo o diventerà bersaglio del fascismo. Noi fascisti siamo e rimaniamo repubblicani, ma non bisogna mettere tutto in giuoco in un solo istante. Lasciamo per ora fuori dal giuoco la Monarchia.

Ecco la chiara anticipazione di quella funesta diarchìa che il romagnolo confesserà di aver attuato per ben ventuno anni nel suo libro: Storia di un anno”[3].

La Diarchia secondo Mussolini

Il primo a parlare e scrivere di diarchia è lo stesso Duce, il quale fa risalire concettualmente questo suo espediente, perché tale resta, al 1923. «La monarchia rimase [dopo la Marcia su Roma n.d.r.] ma il Fascismo sentì quasi immediatamente il bisogno di crearsi istituti suoi proprî come il Gran Consiglio e la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale. Nella riunione tenutasi al Grande Albergo di Roma nel gennaio del 1923 non soltanto nacquero il Gran Consiglio e la Milizia,ma ebbe inizio un sistema politico che può chiamarsi <diarchia>, il governo di due, il <doppio comando>. Mussolini. che talvolta è un terribile umorista, senza saperlo,disse che il sistema era quello della stanza matrimoniale con letti separati, pessima situazione secondo quanto affermava

nella sua Fisiologia del matrimonio Onorato Balzac. A poco a poco la diarchia prese una carattere sempre più definito, anche se non sempre fissato in leggi speciali … La pressione dell’Aventino sul re e sui circoli vicini e nell’estate del 1924 fu assai forte … Oramai gli avversari del Fascismo si erano imbottigliati in una questione morale senza vie di uscita e anche, esiliandosi, avevano liberato il terreno sul quale al momento prescelto si sarebbe sferrato il contrattacco del Regime. Il che accadde col discorso del 3 gennaio 1925 e con le misure prese nelle 48 ore successive … Fu quello il primo <scontro> della diarchia. Il re sentì che da quel giorno la monarchia cessava di essere costituzionale nel senso parlamentare della parola.» [4]

Idola Tribus: Diarchia o Diarchie?

Vocabolario Zingarelli: la diarchia è: «Sistema di governo caratterizzato dalla divisione del potere tra due persone od organismi politici».[5]Se questa è la definizione, e per noi lo è, assumiamo qui che il binomio Vittorio Emanuele – Mussolini non fu una diarchia, a dispetto della magniloquenza del Duce, dei decreti, di una serie di provvedimenti di vario ordine e infine della vulgata tesa a denigrare la Monarchia. Lo strano fenomeno politico fu, invece, una pasticciata sovrapposizione di nomi, norme, funzioni e simboli, che non scalfirono né l’assetto dello Stato né la fedeltà e la lealtà dei cittadini verso la Corona. Gli stessi fascisti il 25 luglio scelsero il Re.

Il monstrum costituito da un corpo – lo Stato – e due teste: il Re e il Duce, ha i suoi prodromi tecnici nelle cosiddette ‘Leggi fascistissime’, tra la fine del 1925 e i primi mesi del 1926. Queste, nelle intenzioni di Mussolini e dei suoi collaboratori, in primis l’avvocato Alfredo Rocco, avrebbero dovuto ridisegnare lo Stato. Il terreno di manovra risultava preparato da una classe politica liberale decadente, costituita per lo più di notabili «mummie». Mussolini, che disponeva solo di 35 deputati, formò il suo primo governo, che fu di coalizione, imbarcando uomini politici come Giovanni Gronchi, i quali dopo il 25 luglio, si scopriranno antifascisti di ferro.

La diarchia o le diarchie non esistono nella realtà psicologica delle masse, ma sono idola tribus, sono una finzione scenica da recitare sul palcoscenico nazionale ed internazionale; esercizio politico.

 “La rivoluzione fascista si fermò davanti a un trono”

Nel 1944 Mussolini riconoscerà: “La rivoluzione fascista si fermò davanti a un trono. Parve allora inevitabile. Gli eventi hanno voluto che la Corona espiasse con la sua caduta il colpo mancino tirato al Regime e il delitto imperdonabile commesso contro la Patria. Questa non può risorgere e vivere che sotto le insegne della Repubblica”.[6]

Prove di una repubblica fascista

La monarchia parlamentare ha significato e funzione solo quando il Parlamento … parla …

Nel Regno d’Italia il Parlamento era costituito dalla Camera dei Deputati, eletti, e dal Senato di nomina regia, secondo i criteri stabiliti dall’art. 33 dello Statuto Albertino.

Il Senato dimostrò indipendenza dal fascismo e lealtà verso la Nazione e la Corona, agendo come contraltare della Camera dei Fasci.[7]

Mussolini volle porsi allo stesso livello del Re per essere riconosciuto non solo Capo del Governo, ma anche futuro capo dello Stato. Costituito il Gran Consiglio, comincia la seconda decisiva fase verso il totalitarismo; scopo: svuotare la monarchia dei suoi intrinseci significati, valori e simboli, partendo dall’interno delle strutture statuali.

“Il Monarcato come regime di rivoluzione permanente”

In seno all’originario movimento fascista erano attive numerose correnti, delle quali una monarchica.

Vincenzo Fani Ciotti, che scriveva con lo pseudonimo Volt, dopo la svolta autoritaria del 3 gennaio 1925, stilò una mappa delle tendenze interne al fascismo: l’estrema sinistra, rappresentata da Kurt Suckert più noto come Curzio Malaparte, ed i repubblicani nazionali; il centrosinistra deii sindacalisti rivoluzionari: Rossoni, Grandi, Panunzio ed Olivetti; il centrodestra dei nazionalisti e dei bottaiani; l’estrema destra raccolta intorno al periodico “L’Impero”. Secondo Volt, tali correnti di pensiero, neutralizzandosi tra loro, bloccavano l’attività legislativa del Regime.[8] (Si veda Francesco Perfetti, Fascismo monarchico, Premessa, p.7, Ed. Bonacci, Roma 1988).

L’ultimo gruppo, che si autodefiniva dei “monarchici integralisti o assolutisti”, aveva per capifila Giuseppe Brunati, Giuseppe Attilio Fanelli e Gaetano Nino Serventi. Il gruppo propugnava un “fascismo monarchico”, ma anteponeva il Re al Duce, ragion per cui furono espulsi dal Partito o relegati in posizioni insignificanti. I loro periodici furono soppressi uno dopo l’altro.

Il giornalista Giuseppe Attilio Fanelli considerato l’intellettuale fascista monarchico di maggiore spicco, nella difesa del Re. Egli intendeva «Il Monarcato come regime di rivoluzione permanente».[9], ovvero, «governo di tutti». (Perfetti, nota 20, p. 322)

Dal Diario di Fanelli: stralci dei colloqui del3 agosto 1943 con Luigi Federzoni, monarchico e nazionalista, Presidente del Senato; e, il 17 agosto, con Vittorio Emanuele III.

Dopo la conversazione con il Re, il 19 agosto 1943, Fanelli argomenta:«… Ora, che ha fatto questo popolo durante il regime fascista?

Ha celebrato il Re. Il Re era accolto e acclamato con dimostrazioni frenetiche, ovunque si presentasse. Benché la personalità di Mussolini avesse invaso tutto lo spazio riservato all’autorità,

il Re assumeva nell’immaginazione delle masse una enorme statura. Vi sono tre versioni di questo comportamento popolare col Re. L’una vuole che le dimostrazioni rientrassero nella prassi della piazza organizzata per celebrare il dittatore; l’altra vuole che nascessero dall’animo delle folle per reazione, volendo il popolo alzare al dittatore un contraltare per rimpicciolirlo; una terza versione pretende che l’entusiasmo muovesse da un impulso generoso del quale il popolo gratificasse il Re, ripagandolo della mortificazione di essere divenuto il numero due». [10]

Nel vissuto popolare esisteva solo una figura di riferimento: il Re; mentre quella del Duce era artificiosamente costruita.

Tuttavia, il Re era solo; come nel 1922, anche vent’anni dopo, le Autorità politiche e statali, che avrebbero dovuto impartire le necessarie direttive ai responsabili militari e civili dei diversi livelli, si nascondevano dietro il Sovrano.

Il Re non sostiene alcun partito politico, se così facesse cancellerebbe, d’un colpo, l’evoluzione politica e istituzionale, sviluppatosi prima, durante e dopo il Risorgimento e l’evoluzione della Monarchia da assoluta a costituzionale, ed infine, parlamentare.

Il Maresciallo d’Italia Enrico Caviglia, nel suo Diario, sotto la data del 27 ottobre 1925, afferma: «La Monarchia non ha partito o non dovrebbe averne, e deve garantire ugualmente il libero sviluppo di tutte le attività nei limiti della legge senza di che cessa la sua principale ragione di esistere».[11]

 Mussolini: “Premesso che una rivoluzione si ha quando si cambia con la forza non il sistema di governo, ma l’istituzione dello Stato, bisogna riconoscere che da questo punto di vista il Fascismo non fece nell’ottobre del 1922 una rivoluzione. C’era una monarchia prima, e una monarchia rimase dopo. “[12]

De Napoli: “La «marcia su Roma» non fu né una rivoluzione né una parata coreografica, bensì una battaglia psicologica”. (De Napoli, op cit. p. 29) Le camicie nere entrarono in Roma solo quando ne furono autorizzate. ( De Napoli, cit. p. 30)

Il Gran Consiglio

L’incarico di Presidente del Consiglio a Mussolini impone la modifica strutturale del Partito Nazionale Fascista, nonché lo studio di un più adeguato approccio ai problemi italiani; ma, il neo Capo del Governo era ancora Capo del P.N.F. In tale veste, nella notte tra il 15 e 16 dicembre 1922, egli convoca i suoi più importanti collaboratori presso il Grande Albergodi Roma, ai quali illustra il progetto di un organo di autogoverno, che denomina Gran Consiglio del Fascismo e collega con la necessità di costituire una polizia interna al movimento fascista, che sostituisse le Camicie Nere, ormai sfuggite al suo controllo.Questo organismo sarà la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale.

Il 12 gennaio 1923 è istituito il Gran Consiglio del Fascismo, con funzioni consultive e, comunque, con responsabilità originariamente solo interne al Partito, presidente Mussolini.

Scopi immediati del G.C.: rassicurare la borghesia, il popolo e la Corona, circa la volontà dei fascisti di abbandonare ogni violenza e fungere da “stanza di compensazione” per quei maggiorenti del partito, ancora privi di incarichi istituzionali o pubblici. Una mancia. Come oggi.

In prospettiva il G.C. avrebbe dovuto svolgere funzioni di collegamento con la Camera dei Deputati; ma Mussolini lo concepiva soprattutto come un suo proprio strumento che condizionasse la Corona e limitare i poteri del Re.

La domanda si impone. Ancora: il Capo del fascismo pensava ad una futuribile repubblica fascista? Il Consiglio resterà organo consultivo interno al partito sino alla L. n° 2693 del 9 dicembre 1928, modificata dalla L. n° 3099 del 14 dicembre 1929, che lo elevò ad organo costituzionale dello Stato, con il compito di esprimere “pareri e proposte”.

Al momento della votazione, il Senato, dimostrò ancora una volta la sua opposizione al regime, fece registrare il 30,6% di astenuti, cioè contrari, sul totale dei votanti.

 Nel tempo il Duce concepirà il G.C. sempre più come una Camera di deputati parallela a quella dei Fasci e delle Corporazioni, da lui stesso voluta. Esplode qui quella storpiatura del sistema istituzionale, chiamata “diarchia”, effetto di leggi strumentali. I poteri che la legge conferiva al G.C. erano molti e rilevanti. Esso esprimeva poteri sul funzionamento e la composizione della Camera.

“Vittorio Savoia”

 «La legge che determinò il primo grave urto tra monarchia e Fascismo fu la legge che legalizzò il Gran Consiglio … [che] rivendicava a sé il diritto di intervenire nella successione al trono . Lo scandalo negli ambienti dinastici fu veramente grande. Ciò voleva dire un colpo mortale allo Statuto, che regolava automaticamente questo problema. Taluni arrivarono ad insinuare che quell’articolo fosse di ispirazione repubblicana e che si volesse, in ogni caso, ostacolare l’assunzione al trono del Principe Umberto e proporre l’allora Duca delle Puglie Da quel giorno Vittorio Savoia cominciò a detestare Mussolini e a covare un odio tremendo contro il Fascismo» «Il Regime – disse un giorno il re – non deve entrare in queste materie che una legge fondamentale ha già regolato. Se un partito in regime monarchico vuole decidere circa la successione al trono, la monarchia non è più tale. Il grido della successione non può essere che il tradizionale: Il re è morto! Viva il re!».

Un’altra prerogativa reale, sancita dall’art. 65 dello Statuto Albertino, che né il Fascismo né il Gran Consiglio riuscirono ad intaccare, è quella di nominare il Capo del Governo. É la seconda volta che il fascismo e Mussolini si fermano davanti al trono.

Il sistema monarchico-parlamentare del Regno era fondato sulla pluralità dei partiti. Il Fascismo lo attaccò in successione: la riforma elettorale del 1928, istituzione della Camera dei Fasci e delle Corporazioni, preminenza del Capo del Governo sui suoi ministri: tentativi di scardinare il sistema. Gli italiani non caddero nell’inganno.

La flessibilità dello Statuto, facilitava questa deriva architettata dal fascismo, poiché per modificare la Carta Albertina non erano previste speciali procedure, mentre nella attuale Repubblica la libertà del popolo italiano è palesemente limitata dai complicati passaggi prescritti dall’art. 138 della Costituzione e dal divieto di revisione costituzionale dalla forma repubblicana dello Stato, secondo l’art 139.

Mussolini: un Presidente del Consiglio-Capopartito

Il Gran Consiglio è, per il Duce, il grimaldello con il quale scardinare l’assetto dello Stato ed infiacchire la Monarchia. Il Presidente del Consiglio continua a pensare da capopartito.

Luigi Federzoni sintetizza l’accanimento antimonarchico del Duce Presidente del Senato: «Fin dai primi atti di governo di Mussolini fu manifestato l’intento di demolire sistematicamente il prestigio della Corona: nella sostanza, col far comprendere in tutti i modi e in tutte le occasioni che chi comandava e decideva in qualsiasi campo e per qualsiasi questione, era il Duce, e soltanto il Duce; nella forma sopprimendo con ogni sorta di scuse e pretesti le consuetudini che offrivano al Sovrano l’opportunità di un diretto contatto col mondo, anche all’infuori del limite e del controllo del Governo. […] Proposito costante di Mussolini era di ridurre al minimo la partecipazione visibile del Re alle manifestazioni salienti della vita nazionale. Il graduale assorbimento, da parte del Regime, di attività di ogni specie che sarebbe dovuta spettare, semplicemente, allo Stato, serviva a far passare a poco a poco al Duce anche la suprema funzione di rappresentanza[13]

Forma e sostanza

Il Sovrano, in una situazione di progressiva asfissia della Corona, al di là delle sottigliezze giuridiche, restava il vertice costituzionale dello Stato. Il popolo italiano lo riconosceva. Vittorio Emanuele III, silenzioso e schivo, si prendeva gli spazi che gli competevano e che ne facevano il supremo difensore e rappresentante dello Stato. Valgano, a titolo esemplificativo, il rifiuto di sovrapporre i Fasci Littori alla Bandiera nazionale[14] e l’atteggiamento durante la visita di Hitler a Roma, nel maggio del 1938. Tutti notarono il Re a fianco dell’Ospite e il Duce sempre in seconda fila, con i fascisti.

 Chi voleva capire capiva. Il primo a capire è Mussolini, che sbotta: «Alla grande sfilata militare in via dei Trionfi il seguito del Führer notò che la regina e le sue dame, mentre si curvavano in grandi inchini al passaggio delle bandiere dell’Esercito, fingevano di non vedere i gagliardetti della Milizia …Nelle cerimonie in cui il Re e il Duce erano insieme presenti, il Duce stava indietro per lasciare al proscenio le livree del seguito. La cosa fu notata specialmente alla festa in costume di P.zza di Siena, una delle più grandiose e pittoresche manifestazioni degli ultimi tempi in Roma.

Il Führer [sempre durante la manifestazione di Piazza di Siena, n.d.r.] invitò il Duce a venire sulla prima fila accanto a lui. Finalmente il soggiorno romano ebbe termine».[15]

 La Diarchia, anche nel periodo di maggior solidità, nazionale e internazionale del Regime, continuava ad essere la corsa del Secondo per superare il Primo. Gara persa.

 La Milizia: scimmiottare il Re

Per fascistizzare lo Stato liberale Mussolini ne inventa un’altra: la Milizia.Il 28 dicembre 1922 il Consiglio dei Ministri approva uno schema di decreto, poi decreto n.° 31 del 14 gennaio 1923, Gazzetta Ufficiale del 20 dello stesso mese. Esso entra in vigore l’1 febbraio 1923, istituendo la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale.

Secondo l’art. 2 del suo regolamento interno, la Milizia «in concorso coi corpi armati per la pubblica sicurezza e con il regio esercito» mantiene l’ordine pubblico; l’art. 9 stabilisce che essa sostituisca «tutte le formazioni a carattere o inquadramento militare di qualsiasi tipo». L’art. 10 è un

nuovo tentativo di corrodere lo Stato: stabilisce che la Milizia è posta «al servizio di Dio e della Patria» e non giura fedeltà al Re.[16]

Il Capo del Governo, nella sua imitazione della figura del Re, non è ancora soddisfatto: se il Capo dello Stato ha i Corazzieri, il Capo del Governo, Duce del fascismo, deve avere una sua Guardia di sicurezza personale. L’11 febbraio 1923 viene organizzato un reparto speciale della Milizia, denominato: «Moschettieri del Duce», per garantirne la sicurezza personale. Questa guardia speciale, a dispetto delle attese del Duce, svolgerà una funzione solo decorativa, tanto che né il 25 luglio 1943 né dopo muoverà un dito, per il suo Capo, come del resto i fascisti. Nonostante la magniloquenza del suo regolamento e delle dichiarazioni di Mussolini, la Milizia, ai primi del 1924 è ancora una specie di polizia privata che rappresenta solo se stessa.

La svolta arriva il 24 maggio 1924, quando si apre la XXVII legislatura. Nel Discorso della Corona, senza apparente motivo o necessità formale, il Sovrano riconosce la Milizia come una delle Forze Armate, poiché «completa le forze militari della Nazione».[17]

Il Re mette le stellette alla Milizia. Ne verranno espulsi i facinorosi e potranno accedere ai vari livelli di comando solo gli ufficiali in congedo dell’Esercito. Il R.D.L. n° 1292 del 4 agosto 1924 sancisce questo risultato.

L’Aventino

La decisione, pur nobile, dei deputati liberali e dei moderati di abbandonare la Camera, fu disastrosa politicamente, sia nell’immediato, perché in un sol colpo tolse a Mussolini l’ingombro dei partiti ed il fastidio di affrontare l’opposizione; sia in prospettiva, perché l’Aventino avrebbe condotto il Fascismo al potere assoluto ed avrebbe paralizzato la Monarchia.

Il liberale Giovanni Amendola, massimo fautore della scelta aventiniana, sostenne e difese la Corona e la persona del Re, anche quando ne fu aspro critico come nell’articolo “Monarchia e Costituzione”, apparso sul Il Mondo, l’1 aprile 1925.

 “Ieri il nostro giornale è stato sequestrato perché, riproducendo – per elementare dovere di cronaca – il discorso pronunciato dall’onorevole Fera al Congresso della Democrazia sociale, riproduceva altresì il seguente periodo che di quel discorso fa parte: «Questo è il pensiero di Agostino Bertani: Giuriamo il patto plebiscitario e tutti dobbiamo osservarlo. Lo rispettano le popolazioni come espressione della coscienza pubblica italiana, lo rispetti il Re come espressione della comunità nazionale».[18]

Il suicidio dei partiti consentì a Mussolini di dichiarare decaduti gli aventiniani, improbabili secessionisti. Osservano Luigi Salvatorelli e Giovanni Mira: «Il regime costituzionale parlamentare dello Statuto Albertino si era venuto evolvendo nel senso di dar sempre maggior prevalenza al parlamento: finché Camera e Senato non toglievano la loro fiducia al governo con un voto di maggioranza, o non v’erano, anche in assenza di questo, le dimissioni del ministro, il Re non vedeva motivo di intervenire».[19]

L’accusa di inerzia mossa al Re, circa la mancata difesa delle libertà parlamentari, ha la stessa subdola origine di quella per la mancata proclamazione dello stato d’assedio.

Il Primo Maresciallo dell’Impero

30 marzo 1938. Costanzo Ciano, Presidente della Camera e Achille Starace, Segretario del P.N.F., dopo il discorso del Duce sullo stato delle Forze Armate, convocano in via straordinaria ed informale i deputati;:nello stesso tempo sollecitano Luigi Federzoni, a convocare i senatori. Frettolosi, Ciano e Storace propongono di istituire tramite un’apposita “leggina”, un nuovo grado della gerarchia militare:“Primo Maresciallo dell’Impero”.[20]

Il Duce vuole accedere al comando supremo delle Forze Armate: titolo, funzione e prerogativa che l’art. 5 dello Statuto, riconosce esclusivamente al Re.

Federzoni viene costretto a convocare il Senato per formalizzare la proposta di legge. La seduta è tumultuosa, il Senato recalcitra, molti senatori sono assenti e si teme che alla conta si constati la mancanza del numero legale; ma, la seduta prosegue, né si verifica il numero legale: la legge è approvata per acclamazione. Il che dice tutto.

Mussolini si illude di aver risolto il problema del comando unico delle Forze Armate; il Re è fortemente irritato ma si limita a chiedere a Federzoni se tutto sia stato fatto regolarmente. Risposta: «Per quanto è possibile».[21] Subito dopo l’approvazione, Mussolini presentò al Re la nuova legge per la firma di promulgazione.

Il colloquio con il Sovrano, riportato dal Duce, fu molto acceso: «No. Le Camere non possono prendere iniziative del genere. Il re era pallido di collera. Il mento gli tremava … Io straccerei questa doppia greca».[22]

Il Capo Supremo delle Forze Armate rimane il Re.

Mussolini stesso nella sua relazione illustrante i bilanci dei ministeri della guerra, della marina e dell’aeronautica, afferma: «Nell’Italia fascista il problema del comando unico – che tormenta altri paesi – è risolto. Le direttive politico strategiche della guerra vengono stabilite … agli ordini del Re da uno solo, da chi vi parla».[23]

E’ competenza del Re impartire gli ordini al Capo del Governo e neo Primo Maresciallo. Le truppe continueranno a giurare fedeltà al Re. La Monarchia contrattaccava e Mussolini restava solo Capo del Governo.

Il Capo del Governo non è il Capo dello Stato

12 settembre del 1936. Il Consiglio dei ministri delibera stanziamenti straordinari per le Forze Armate. Mussolini, Ministro della Guerra, chiede al Sottosegretario dello stesso Dicastero, Generale

Federico Baistrocchi, il parere circa il ritiro di materiale bellico dall’Africa Orientale. Il 18 settembre il generale così rispose: «Duce! … nella guerra mondiale che voi prevedete, che troverà il mondo schierato in due campi opposti, trionferà chi avrà saputo meglio prepararsi … caso contrario, Duce, l’Impero che voi avete creato, lo perderete[24]

Il Duce, «abbagliato condottiero»[25] di una guerra rapidissima e vittoriosa, non ascoltò. L’illusione durò per tutta la guerra. La crisi militare sarebbe stata il detonatore di quella politica del 25 luglio.

10 luglio 1943. Gli Alleati invadono la Sicilia con forze inferiori solo a quelle del D Day. Lo stesso giorno Hitler volle incontrare Mussolini a Feltre, Belluno e Lo rimproverò come uno scolaretto. «Mussolini non rispose né disse al Führer che lo stato maggiore generale di cui era capo il generale Vittorio Ambrosio, presente al convegno, voleva deporlo ed avviare trattative con gli Alleati per far uscire l’Italia dal conflitto. Quanto alla sua defenestrazione, era già in corso un altro complotto massonico tra il ministro Grandi e il Re.»[26]

Un complotto risolve sempre tutto. In ogni epoca, se poi l’ordisce un re …

Mussolini e Hitler alleati in malafede

Non entreremo nel merito dei giudizi interessati e in malafede di Hitler sul soldato italiano né tanto meno nella pretesa congiura monarchica; ci interessa solo dare un’idea del clima di veleni interni al Regime ed ai rapporti tra due alleati in malafede. Il Gran Consiglio non si riuniva dal 1939, tre giorni prima dei colloqui di Feltre, De Bono, De Vecchi, Farinacci e Bottai avevano chiesto a Mussolini di convocarlo. Questi fissò la riunione per il 24 luglio alle ore 17,15.

Nodi: l’ordine del giorno presentato da Dino Grandi, la discussione sul documento e la conseguente votazione, che metterà in minoranza Mussolini, imponendogli le dimissioni. Dell’ordine del giorno riportiamo la parte conclusiva: «Il Gran Consiglio … dichiara che … è necessario l’immediato ripristino di tutte le funzioni statali, attribuendo alla Corona, al Gran Consiglio, al Governo, al Parlamento, alle Corporazioni i compiti e le responsabilità stabilite dalle nostre leggi statutarie e costituzionali; invita il Capo del Governo a pregare la Maestà del Re, verso la quale si rivolge fedele e fiducioso il cuore di tutta la Nazione, affinché Egli voglia per l’onore e per la salvezza della Patria assumere con l’effettivo comando delle forze Armate di terra, di mare e dell’aria, secondo l’articolo 5 dello Statuto del Regno, quella suprema iniziativa di decisione che le nostre istituzioni a Lui attribuiscono e che sono sempre state in tutta la nostra storia nazionale il retaggio glorioso della nostra Augusta Dinastia di Savoia»»[27]

Valutazione

«Il Regime, più mussoliniano che fascista, arrivò alla senescenza dopo tre anni di guerra combattuta nelle condizioni materiali e di spirito peggiori, senza un barlume di speranza di vittoria effettiva, mentre il Paese si avvitava sempre più su se stesso, resistendo alla fame, ai bombardamenti e infine allo stesso suo ex Alleato. Si potrebbe pensare che sole ventiquattr’ore, dalle 17,15 del 24 luglio, quando iniziò l’ultima seduta del Gran Consiglio del Fascismo, non più convocato dal 1939, alle 17,20 del 25 luglio, momento in cui Mussolini venne arrestato dai carabinieri, abbiano deciso le sorti del Regime e dell’Italia. Invece gli eventi maturavano dapprima dell’entrata in guerra e quel giorno ne fu solo l’epilogo storicamente necessario. La crisi non era fuori ma nel fascismo, che finalmente la manifestò. L’ordine del giorno Grandi ne è la sintesi».[28]

Fantasie e artifizi retorici

Politici e retori ancora si chiedono: Mussolini cadde per complotto massonico o congiura di palazzo? La verità è lineare: il Re costituzionale prende atto del voto del Gran Consiglio, che ha messo in minoranza il suo stesso Presidente e nomina un altro presidente ed un altro governo. Chiaro Gianfranco Bianchi: “… In ogni caso il Capo del Governo era Ministro del Re, nelle cui mani aveva giurato: e la Corona pertanto – anche dopo le sovrapposizioni delle innovazioni «fascistissime» – mantenne nei suoi confronti il potere di esprimere la propria volontà di indirizzo politico. Insomma, la funzione governativa del potere esecutivo, in regime fascista, rimaneva pur sempre al Re, organo costituzionale unico di quel potere. Erano dunque i Ministri – col loro Capo – a dover godere la fiducia del Re (e non viceversa); spettava alla Corona il controllo politico sull’attività del Capo del Governo in rapporto alle esigenze del Paese (e non viceversa); non poteva il Capo del Governo restare in carica, ove si dissociasse il proprio indirizzo politico da quello della Corona. Per l’art. 2 della legge del 1925, era quindi la fiducia della Corona a condizionare la persistenza in carica del Capo del Governo …”.[29]

Pietro Badoglio

Tarso pomeriggio del 25 luglio. Il Re convoca Badoglio. Questi così ricorda l’incontro:

 «Il Sovrano era il piedi, in mezzo alla stanza. “Ho fatto arrestare Mussolini! – gli disse subito. – Stamani mi ha fatto chiedere un’udienza che io ho fissato qui, alla villa, per le sedici. É venuto puntuale e mi ha comunicato che aveva avuto luogo la seduta del Gran Consiglio nella quale era stato votato un ordine del giorno a lui contrario, ma che egli riteneva non fosse valido …» La voce del Re, piatta e senza lumi, del tutto priva di retorica, descriveva con rara efficacia, richiamando la scena in quarta dimensione dinanzi al Maresciallo. «Perché, – aveva obiettato Vittorio Emanuele a Mussolini – ritiene questo voto non valido? Il Gran Consiglio è un organo da lei creato e approvato per legge dal Senato e dalla Camera dei deputati. Funziona quindi in piena legalità». «Ma in tal caso io dovrei dare le dimissioni …» «… che io accetto!» Mussolini era parso afflosciarsi. «Allora il mio crollo è completo!» … «Sembrava che avesse ricevuto un colpo da 305 in pieno petto!» commentò il Re.» … «Adesso bisognerà sostituire Mussolini … – rispose il Re – lo sostituirà lei!» … Il Sovrano aveva pronta la lista dei nuovi ministri».[30]

Luigi Einaudi

Luigi Einaudi sulla decisione del Re: «Fu il solo che agì.»[31]

Vittorio Emanuele III accetta le dimissioni del Capo del Governo e nomina un nuovo Governo secondo l’art. 65 dello Statuto:

“Il Re nomina e revoca i suoi ministri”.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

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* Romano Bracalini, Il Re vittorioso, Ed. Feltrinelli, Milano marzo 1980. Consultato


[1] Benito Mussolini, Il discorso di Udine, in “Scritti e Discorsi”, Ed Hoepli, Milano 1943-XII, vol. II. pp. 317- 320 Compilazione e revisione del Dottor Valentino Piccoli, Redattore del Popolo d’Italia.

[2] Mario Missiroli, La Monarchia, in Una battaglia perduta, Edizioni Corbaccio, Milano 1924, pp. 305 e 308 – L’articolo era stato pubblicato da «Il Secolo», 24 agosto 1922.

[3] Pietro Silva, Io difendo la Monarchia, II Edizione – XII Migliaio, De Fonseca Editore in Roma, gennaio 1946, p. 56

[4] Benito Mussolini, op. cit. pagg. 171-175

[5] Nicola Zingarelli, Vocabolario della lingua italiana – Ed. Zanichelli, Bologna, 2002.

[6] Benito Mussolini, Storia di un anno – Il tempo del bastone e della carota, Ed. Mondadori, Milano ristampa febbraio 1945-XXIII, p. 183

[7] Aldo Pezzana documenta l’attività di contrasto del Senato nel suo volume Gli uomini del Re, Ed. Bastogi, Foggia, Novembre 2001.

[8] Vincenzo Fani Ciotti (Volt), Le cinque anime del fascismo, in Critica fascista, 15 febbraio 1925.

[9] Giuseppe Attilio Fanelli, in F. Perfetti, cit.; si veda anche, Saggi sul Monarcato occidentale, bozze di stampa, Roma, luglio 1943, nota 61, p. 380.

[10] Ibi, pp. 441-442.

[11] Enrico Caviglia, I dittatori, le guerre e il piccolo Re, Diario 1925-1945, a cura di Pier Paolo Cervone, Ed. Mursia, Milano 2009, pag. 40.

[12] Benito Mussolini, Storia di un anno. Il tempo del bastone e della carota, Ed Mondadori, 3ª edizione, febbraio 1945-XXIII, pp. 167-168

[13] Luigi Federzoni, L’Italia di ieri per la storia di domani, Ed. Mondadori, Milano, 1967, pagg. 230-231.

[14] Cfr. Francesco Perfetti, Quando il Re non volle il Fascio sulla Bandiera, Nuova Storia Contemporanea, n.° 4, 2002.

[15] B. Mussolini, op. cit. pp. 178-179

[16] Paolo Colombo, La Monarchia fascista, Ed. Il Mulino, Bologna, settembre 2010, cap. I, § 3, La Milizia, pagg. 41- 53.

[17] Senato del Regno – Atti parlamentari

[18] Giovanni Amendola, Monarchia e Costituzione, ‘Il Mondo’, 1 aprile 1925

[19] Luigi Salvatorelli e Giovanni Mira, Storia dell’Italia nel periodo fascista, Ed. Einaudi,Torino 1964 a pag. 341.

[20] Luigi Federzoni nell’op.cit. pag. 167, a proposito del nuovo grado di Primo Maresciallo dell’Impero, riporta quello che il Maresciallo d’Italia De Bono, avrebbe detto al Duce:”Fatti nominare Maresciallo d’Italia. Con una leggina si accomoda tutto”.

[21] Luigi Federzoni, nelle pagg. 168-177 dell’op. cit. descrive lo svolgimento della riunione e definisce “arrogante e plebeo”il comportamento dei senatori fascisti.

[22] Benito Mussolini, op. cit. pag. 180.

[23] Atti parlamentari.

[24] Gianfranco Bianchi, Perché e come cadde il Fascismo, Ed. Mursia, Milano 1963, pagg. 21-22.

[25] Generale Eno Von Rintelen, Addetto militare a Roma, Mussolini l’alleato, Ed. Corso, Roma, 1953, pag. 82.

[26] Peter Tompkins, “Dalle carte segrete del Duce – Momenti e protagonisti dell’Italia fascista, Nei National Archives di Washington”, Ed. Marco Tropea, Milano, 2001, pag. 298.

[27] Bianchi, Perché e come … cit. pp. 481-497

[28] Michele D’Elia, I drammatici 45 giorni -25 luglio/8 settembre 1943, Conferenza tenuta al Circolo REX, Roma 14 novembre 2004, p. 8

[29] Gianfranco Bianchi, op cit. pp. 458-459

[30] Vanna Vailati, Badoglio racconta, Ed. I.L.T.E., Torino, 10 dicembre 1955, pagg. 365-367.

[31] Luigi Einaudi, Diario dell’esilio 1943-1944, Ed. Einaudi, Torino, 1997 Prefazione pag. 37.

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