sabato, Luglio 27, 2024
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Miracolo a Roma: Ernani come autore comanda

di Dora Liguori

Ernani di Verdi ritorna a Roma (mancava dal 2013) per la regia di Hugo de Ana e corredato da scene appropriate e bellissimi costumi. Come dire….finalmente una gioia per gli occhi! Un poco meno, come racconterò in seguito, per le orecchie.

Parlare di Ernani mi è comunque caro perché riguarda la mia infanzia e il mio innamoramento per il bel canto. Pertanto, avendola molto amata, vorrei iniziare con una piccolissima disquisizione su quest’opera e su come essa segni un momento fondamentale nell’evoluzione del genio Verdiano; un momento nel quale, mi scuso per il bisticcio apparente di parole, Verdi diventa Verdi.

Per chiarire il concetto occorre ricordare che il genio di Giuseppe Verdi, prima di esplodere, ebbe una lunga gestazione e che, ad esempio, quella che per lui rappresentò una fortuna, debuttare direttamente alla Scala, fu anche un periodo di grande travaglio e di ricerca delle proprie capacità musicali, costellato anche da lutti oltre che da sconfitte. Comunque, iniziare la carriera di compositore alla grande, ovvero iniziare dove altri arrivano, dicasi il Teatro alla Scala, di certo fu per lui una strana e grande fortuna che, però, ebbe a riservargli anche non poche amarezze e una lunga serie di pettegolezzi… non tutti gratuiti. Infatti, nel 1836, al momento dell’incarico, offertogli dall’impresario Merelli, di scrivere un’opera nuova da rappresentarsi nel gran teatro milanese, Verdi era un semplice maestro di musica del comune di Busseto; dicasi un quasi sconosciuto al quale veniva, cosa davvero desueta, proposto di debuttare nientedimeno che alla Scala… mica male!

Di questa straordinaria, chiamiamola fortuna verdiana, un altro grande compositore di fine ottocento – Amilcare Ponchielli – dava, a beneficio dei suoi allievi di composizione, una particolare chiave di lettura: ricordate che per giungere alla Scala bisogna salire prima tanti altri gradini, fatta eccezione per Verdi che vi fu portato a “spalla” dai “fratelli” massonici.

Il giudizio, seppure alquanto acido, non fa una grinza poiché nel 1836, anno alquanto turbolento per i fervori nazionalistici dei giovani milanesi, è quanto mai plausibile che il giovane Verdi, pieno di orgoglio ferito e passionalità repressa, si fosse andato ad iscrivere ad una delle tante logge figlie della carboneria e dei “Filadelfi” del Buonarroti. Di seguito, e proprio grazie all’iscrizione, sollecitato dai “fratelli”, Bartolomeo Merelli impresario della Scala (di stretta osservanza massonica), avrebbe deciso di scritturare il musicista. Identica cosa molti anni prima era avvenuta per un altro gigante della musica: Ludwig von Beethoven, il quale, iscrittosi, tramite il suo protettore Ferdinand von Waldstein, alla massoneria tedesca dei “Cavalieri teutonici”, con un Mozart in declino (anche lui aderente alla setta massonica dei “Fratelli illuminati”) ma con una Vienna piena di celebrati musicisti, appena diciottenne e sconosciuto, si vide affidare niente di meno che la commissione di scrivere una cantata commemorativa per Giuseppe II imperatore d’Austria, gran protettore della massoneria tedesca.

Una cosa va comunque detta: se Verdi e Beethoven non fossero stati anche dei geni, con o senza fratelli sarebbero rimasti oscuri musicisti.

Tornando a Verdi, il suo debutto con l’opera “Oberto conte di san Bonifacio” non fu certo un insuccesso ma neppure un grande successo e peggio avvenne con la seconda opera, rappresentata sempre alla Scala “Un giorno di regno”.

Cosa non andava in Verdi?

Semplici e contestualmente complesse le motivazioni che possono compendiarsi in un solo assunto: Verdi ancora non componeva alla Verdi.

Insomma, era sì un buon musicista ma, piuttosto che essere se stesso, si destreggiava, sia pure con innegabili capacità, a comporre opere dal sapore donizettiano o addirittura cercava d’avvicinarsi all’inimitabile Bellini (c’è una pagina dell’Oberto di stampo belliniano, imbarazzante per la similitudine con la Sonnambula). Insomma, non esprimeva spiccata personalità.

Il problema, dopo Oberto, anche per vicissitudini personali, tornò a ripresentarsi quando, sempre per la Scala, fu chiamato a comporre “Un giorno di regno”. Un sempre più demotivato Verdi che, questa volta, tentò di porsi sulla scia, essendo un’opera buffa, di Rossini, senza ovviamente essere Rossini… un insuccesso, quindi, prevedibile e annunciato.

Insomma, nonostante le generose spinte del Merelli, o di chi per lui, il musicista assommava una serie di esperimenti più o meno fallimentari, causate, come sopra accennato da una sua probabile insicurezza.

A questo proposito, certezze non ve ne possono essere, ma è possibile dire che Verdi era, e sempre resterà, un insicuro (vedere su lui l’effetto Wagner), un musicista, dunque, che soprattutto agli esordi, sia pure preparato, non era ancora in grado di comprendere e apprezzare le sue qualità musicali che, per l’appunto, non potevano essere né belliniane o tanto meno rossiniane. Esse, quelle che gli premevano sulla penna erano, invece, un insieme di melodie, forse ruvide ma potenti e, soprattutto, capaci di arrivare al cuore. Ma, il giovanissimo Verdi, non consapevole ancora di ciò, ritiene che la sua musica, tagliata con l’accetta, vada, invece, affinata e rifinita, avvicinandola (con ciò errando) magari alla grandezza belliniana.

Solo la realtà amara dei suoi insuccessi lo indurranno a riflettere, facendogli capire come lui debba essere semplicemente Verdi. Pertanto, liberatosi da una serie di soggezioni, il musicista inizia a dare sfogo, con Nabucco, alla sua linea musicale: magari “rozza” ma grandiosa, con una vena malinconica che non è, però, mai rassegnazione. Il popolo ebreo piange ma intende combattere!

Insomma Verdi, con Nabucco, finalmente propone se stesso così com’è: prendere o lasciare. E il pubblico prende, poiché è proprio con quest’opera che nasce anche quella che poi verrà definita, come sopra detto, la impareggiabile “malinconia” della musica verdiana”.

“Va pensiero”, canta il popolo ebreo. E questa volta la melodia non ha il lirismo irraggiungibile di un Bellini ma il dolore struggente di un Verdi.

E il pubblico milanese, prima ancora del famoso coro, va a cogliere nel famoso terzetto del primo atto dell’opera, qualcosa di nuovo: un’apertura melodica, forse non raffinata ma capace di elevarsi fino ad aprire il cuore alla speranza, non solo dei tre protagonisti ma dei giovani italiani.

A proposito di Nabucco, vorrei sfatare un evento che in alcuni film o sceneggiati viene attribuito alla prima di quest’opera. I patrioti milanesi, o meglio gli aderenti alla “Giovine Italia”, non fecero mai piovere bigliettini e quant’altro durante il “Va pensiero”, poiché essendo una prima non potevano ancora conoscere il famoso coro; il pandemonio, ben programmato, era invece avvenuto durante una delle repliche di Norma, nel 1831, alla Scala. A scatenare la gioventù ci aveva pensato il barbaro e mai più raggiunto, per forza orchestrale e bellezza timbrica, coro del “Guerra, Guerra” composto appunto da Bellini per Norma. E’ noto che il povero musicista, presente in sala, non essendo né patriota né guerrafondaio, a momenti moriva d’infarto… la polizia austriaca non scherzava!

Dopo Nabucco, Verdi, divenuto alquanto sicuro di sé, senza più infingimenti o sudditanze, inizia, si direbbe poeticamente, a seguire soltanto la sua musa che lo porterà, dopo “I Lombardi alla prima crociata”, al primo e più importante suo punto di arrivo: Ernani, l’opera più verdiana del primo Verdi.

Infatti, è proprio con Ernani che la musica di Verdi esplode nella sua quintessenza di forza, bellezza, ardore, passione e, perché no, omaggio alla fratellanza. Canta il coro nel “Si ridesti il leon di Castiglia…. siamo tutti una sola “famiglia” etc.

Occorre altro? Verdi non dimentica i suoi benefattori!

Quello che, invece, si dovrebbe dimenticare di Ernani, è il guazzabuglio del libretto che tratto da un dramma teatrale di Victor Hugo (già di suo problematico) venne così tanto stravolto dal librettista Francesco Maria Piave, e perché no dallo stesso Verdi, da suscitare le ire di Hugo. Non è un caso che il libretto, a posteriori, finirà col divenire uno degli emblemi dei “nonsense” dell’opera lirica. Infatti, sarebbe alquanto difficile giustificare il fatto di una pudibonda Elvira che, disinvoltamente, accoglie o si ritrova nella sua camera da letto, prima don Carlo il re, poi il bandito Ernani e, di seguito, con l’arrivo del direi incestuoso zio (aspirante anche lui a sposarla), persino servitù ed armati. Ebbene, nel bel mezzo della baraonda, cosa fa dire il librettista a questo poco simpatico zio:

Che mai vegg’io! Nel penetral piu sacro di mia magione, presso a lei che sposa esser dovrà d’un Silva, due seduttori io scorgo.

E meno male che era il luogo più sacro e impenetrabile della magione…pensa cosa sarebbe avvenuto se fosse stata una piazza!

Eppure… eppure nessuno, alla prima di Ernani, si accorge dell’assurdità delle situazioni, essendo tutti vinti dalla musica trascinante e bellissima di Verdi, musica che, molto meglio delle parole di Hugo, è capace di dipingere il romanticissimo bandito Ernani.

A Venezia, con quest’opera, l’Italia (non esiste ancora una vera nazione ma da Petrarca in poi chi nasce nella penisola è un italiano) può affermare di avere trovato un nuovo genio musicale… e che genio!

Dette queste poche righe sulla genesi di Ernani occorre passare alla compagnia, e qui sia apre quella che può essere definita, sia pure in parte, una nota dolente.

Premessa la grande bravura del direttore d’orchestra Marco Armiliato e del tenore Francesco Meli nonché dell’ottimo baritono Ludovic Terzier, purtroppo è impossibile tacere sulla prestazione del basso Evgeni Stavinsky, assolutamente insoddisfacente e, ancor peggio, su quella del soprano americano Angela Meade.

Il soprano, dovendo rappresentare la giovin pulzella Elvira, tutto poteva essere fuorché in parte… infatti, pur essendo il teatro finzione, pensare ad un’ Elvira, da tutti concupita, con la stazza di un quintale e mezzo è davvero difficile. Ed altrettanto difficile sarebbe immaginare come potrebbero abbracciarla i suoi tre spasimanti: Ernani, il re e lo zio. A dir poco, volendo o dovendolo fare, i tre, per riuscire nell’impresa, come minimo, avrebbero dovuto costituire un collettivo.

Comunque, vada anche per il peso, ma come sorvolare sulle sue poche qualità canore, senza parlare di quelle interpretative?

Purtroppo per lei, la Meade possiede una voce enorme, e questa potrebbe rappresentare anche una qualità, ma il suo timbro è poco gradevole e, unito ad una sua incapacità di controllo sull’emissione vocale, ha fatto sì che, in maniera imbarazzante, stonasse per tutto il primo atto. Inoltre, consapevole di non poter reggere le agilità insite nella grande aria e cavatina (la cosiddetta grande entrata di Elvira), ha cercato di addomesticare, adattandola alla sua voce, le note del compositore, al punto che se Verdi l’avesse sentita avrebbe stentato a riconoscere la sua opera.

La domanda è semplice: ma perché canta Ernani?

Conoscendo le difficoltà insite nel canto mi dispiace sempre parlare in maniera negativa di alcuni cantanti che, massimamente stranieri, ormai imperversano nei nostri teatri. Personalmente non sono una nazionalista tout court ma, a fronte di una bravissima Netrebko, o di un Florez o di alcuni altri pregevoli artisti (ben vengano) mi chiedo: perché in Italia ci dobbiamo sorbire una valanga di mediocri se non pessimi artisti?

Perché, nonostante le proteste del pubblico in sala, alcune agenzie continuano ad imporre ai nostri compiacenti teatri e a discapito degli artisti italiani, certi soggetti impresentabili? A qualche magistrato sorgerebbe un qualsivoglia dubbio?

Questo, ahimè, è diventato ormai un fenomeno tutto italiano (in Germania o peggio in Francia e in Inghilterra costoro non ci mettono piede), un fenomeno che ci ha fatto divenire, seguendo il detto di una volta: la patria del buon convento. O meglio, e qui interviene il danno, la patria di tutti tranne che dei nostri bravissimi artisti costretti a espatriare se vogliono esercitare la loro professione.

Altro che fuga di cervelli, in Italia, ad essere eclatante è la fuga delle ugole!

Infine, sarebbe vera colpa il tacere su questo fenomeno, poiché, se è vero che esistono tante cose più importanti del canto e dei cantanti, ignorare il dramma lavorativo vissuto dai nostri giovani artisti è anch’essa cosa poco accettabile per la coscienza di tutti.

Detta in soldoni: a cantare, meglio della Maude ci vuole poco… è a fare peggio che risulterebbe difficile!

Che dire: la felicità non esiste e per una volta che abbiamo una regia come autore comanda, essendo cosa troppo bella, ci siamo dovuti sorbire…una Maude.

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