giovedì, Ottobre 10, 2024
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Relazione del Segretario Nazionale Michele Gelardi al Terzo Congresso di “Destra Liberale Italiana”

Cari amici,

Destra Liberale Italiana è un’associazione di cultura politica (non un partito) e tale vuole rimanere. La nostra mission è quella di divulgare i principi fondanti del liberalismo, rispetto ai quali misuriamo la coerenza dei programmi e delle opzioni politiche dei partiti a noi vicini. Come criterio di misura ci atteniamo a quello della non eccessiva distanza, giacché se ci attenessimo a quello della massima vicinanza faremmo meglio a starcene a casa, dal momento che in Italia molti si dicono liberali, ma pochi coltivano i valori autenticamente liberali e ne approfondiscono le implicazioni dottrinali. Perché è bene intendersi: è vero che il liberalismo non è un’ideologia, ma non si può essere liberali senza un corredo sistematico di idee e valori. Non abbiamo la spocchia degli intellettuali che conoscono la società del futuro e ci vogliono traghettare verso il nuovo, sappiamo poche cose e fra queste che il liberalismo non alberga a sinistra. Non si può essere liberali se si rinnegano le radici della nostra civiltà occidentale, giudaico-cristiana-illuministica; non si può essere liberali, se si affida allo Stato il compito di dirigere la dinamica sociale; se si giustifica l’aggressione al diritto di proprietà privata, ritenendolo subordinato alla sua funzione sociale; se in generale si considerano i diritti umani mere concessioni dell’autorità costituita. Con ciò ho sinteticamente enunciato le ragioni, sulle quali tornerò, per le quali ci chiamiamo Destra liberale Italiana.

Vediamo allora quali sono i principi e i valori di riferimento dell’autentico liberalismo.

1) Innanzitutto riteniamo che l’ordine spontaneo, ossia il risultato della libera dinamica sociale guidata dai principi di civiltà pervenuti per traditio dalla vecchia generazione alla nuova, sia superiore e più efficiente rispetto all’ordine pianificato. Ciò è dovuto a un dato di fatto che nessun politico può modificare: l’intelligenza umana è dispersa e non può essere centralizzata. L’ordine pianificato presuppone l’intelligenza centralizzata, ma questa è inevitabilmente fallace, cosicché la pianificazione politica fallisce sempre miseramente. L’agenda ONU 2030 o l’agenda grillina 2050 e tutte le possibili transizioni prefigurate dall’autorità politica e tutti i traguardi che l’umanità dovrebbe raggiungere per coazione politica, costituiscono altrettanti fallimenti annunciati.

Tutte le economie di piano, tutti i socialcomunismi, ossia tutte le pretese di programmare centralisticamente lo sviluppo economico, sono destinati all’insuccesso, perché la conoscenza centralizzata è di gran lunga inferiore alla conoscenza diffusa. I mille particolari del mercato, le mille opportunità di investimento, le mille variabili di un equilibrio economico perennemente mutevole non possono essere cristallizzati nel sapere codificato di un solo soggetto. L’organo centrale “onnisciente” non esiste, mentre la programmazione centralizzata lo presuppone; in questa “presunzione fatale” risiede la radice dell’inevitabile fallimento di tutti i tentativi di programmare l’ordine socio-economico secondo disegni politici precostituiti di ingegneria sociale.

Ne consegue che l’economia di mercato alloca meglio le risorse e raggiunge superiori risultati di produttività, rispetto all’economia pianificata. La prima massimizza il risultato economico, a favore del consumatore, perché solo il feedback del mercato può dirci a posteriori se l’utilizzo delle risorse sia stato economicamente vantaggioso e dalle risposte negative del mercato gli operatori economici traggono le indispensabili indicazioni per allocare al meglio le risorse; la seconda minimizza il risultato economico, perché il programma politico non è flessibile ed, essendo temporalmente predeterminato, non tiene conto del feedback di mercato, ma persegue inesorabilmente i suoi scopi, fino al punto previsto nel “bilancio” dell’ente pubblico.

2) Gli interventi dell’autorità politica, sempre giustificati – è chiaro – per il nostro sommo bene, volendo “tutelare” una parte, inevitabilmente sottraggono risorse a un’altra parte, perciò distorcono la libera dinamica di mercato e producono inefficienza. Sempre e comunque, nel medio-lungo periodo, se ne possono osservare gli effetti negativi; ma vorrei aggiungere che, anche nel breve periodo, gli effetti deprimenti sulla competitività di sistema sono abbastanza visibili e l’esperienza italiana lo dimostra quotidianamente.

I disastri economici dell’interventismo pubblico, ovviamente giustificati in nome dei buoni propositi di “tutelare” i deboli in tutte le possibili guise (ogni riferimento al c.d. reddito di cittadinanza è puramente casuale), si accompagnano purtroppo – come ammoniva Friedrich August von Hayekal progressivo sacrificio della nostra libertà; sono tante lastre sulla “Via della schiavitù”. La ragione risiede in ciò: la società aperta si fonda sul nomos, ossia sulle norme generali e astratte, valide erga omnes, di origine consuetudinaria o anche deliberate dall’autorità politica, in sintonia coi principi vigenti nel tessuto sociale; l’ordine introdotto dall’interventismo dello Stato si fonda, invece, sulla disuguaglianza delle regole, pertanto è un ordine costrittivo, oltre che economicamente inefficiente.

Infatti, tutti i socialismi/collettivismi hanno in comune l’idea che l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge sia poca cosa, trascurabile in quanto pura forma, da sacrificare in nome dell’uguaglianza, più pregnante e significativa, la cui sostanza risiederebbe nella distribuzione della ricchezza secondo le esigenze di ciascuno. Nobile proposito non c’è che dire. Purtroppo di buoni propositi sono lastricate le vie dell’inferno. La strada per raggiungere codesta utopistica uguaglianza sostanziale è quella di rinnegare la norma generale, uguale per tutti, giacché non si possono fare “parti uguali tra diseguali” (famoso slogan socialcomunista). E’ necessario dunque adottare regole diverse per condizioni diverse, avvantaggiare gli uni a discapito degli altri, togliere agli uni per dare agli altri, favorire e sfavorire, incentivare e disincentivare, ingerirsi nelle libere contrattazioni dei privati, programmare lo sviluppo, intervenire nei processi di produzione, promuovendone alcuni e disincentivandone altri.

L’interventismo dello Stato è dunque essenzialmente socialcomunismo, che rincorre l’utopia dell’uguaglianza sostanziale; l’Italia, da questo punto di vista, costituisce l’esempio più emblematico al mondo; con le sue 200.000 leggi, che riguardano gli uni e non gli altri, la categoria Alfa, ma non la Beta, ha raggiunto il primato mondiale di legislazione particolaristica e discriminatoria, alla rincorsa della c.d. uguaglianza sostanziale.

3) Ne consegue che, nella Weltanschauung liberale. l’intervento dello Stato deve obbedire al principio di sussidiarietà; l’intervento della res publica è giustificato solo laddove la res privata non può efficacemente tutelare gli interessi in gioco. Il liberale ama lo Stato minimo, non già lo Stato massimo, impiccione, onnipresente e onnivoro. Inutile aggiungere che l’entità della tassazione è direttamente proporzionale alla capacità invasiva dello Stato; in Italia abbiamo raggiunto il picco massimo; se prendiamo in considerazione non solo le imposte sul reddito, ma anche tutti gli altri tributi, compresa la contribuzione obbligatoria, probabilmente siamo i primi al mondo. L’eccesso di tassazione finanzia l’interventismo statale in campi che non gli sono propri, dunque in ultima analisi finanzia il restringimento della nostra libertà; è la moderna “via della schiavitù”, come ammoniva von Hayek.

4) I liberali amano lo Stato di diritto, che equipara la condizione e le facoltà giuridiche del cittadino a quelle dello Stato; che non subordina a priori le pretese del cittadino a quelle dello Stato; che non erge l’amministrazione pubblica al di sopra dei suoi utenti. L’esatto opposto, per intenderci, rispetto allo Stato italiano che può esigere immediatamente il pagamento dei suoi crediti e pagare in ritardo i suoi debiti, non ammettendone la compensazione; che difende i suoi atti innanzi a un giudice speciale, chiamato TAR, il quale, nei rari casi in cui riconosce le ragioni del ricorrente, non dispone alcun risarcimento del danno da lui subito, ma lo rinvia nuovamente di fronte all’amministrazione che ha emanato l’atto illegittimo, affinché essa emani, col suo comodo s’intende, un atto legittimo; l’esatto opposto dello Stato che può imporre ai cittadini nuovi doveri e nuovi oneri con efficacia retroattiva; e potremmo continuare all’infinito. Insomma la nostra dottrina dello Stato è molto diversa da quella di tutti i socialismi, alla stregua dei quali lo Stato gode di una naturale condizione di sovraordinazione giuridica, in ragione di una presunta superiorità assiologica della “socialità” rispetto all’individualità. Peccato che questa “socialità” sia del tutto priva di affectio personale, fondata sulla redistribuzione economica, effettuata per via politica, e sulla tassazione. Insomma una socialità di carta.

5) Il liberale conosce e rispetta molto bene la distinzione tra l’etica e la politica. La politica deve essere eticamente orientata, ma il liberale non pretende che la sua politica sia il “Bene”, in contrapposto alla politica avversaria considerata il “Male”. Gli assertori del “politicamente corretto” considerano “scorrette”, non meramente diverse e rispettabili, le idee e i programmi avversi, non tollerano il dissenso, giacché lo ritengono contrario al Bene. Assumono le loro idee come eticamente superiori, le sole conformi alla virtù. Insomma fanno entrare le categorie etiche nella politica. Inutile aggiungere che il “politicamente corretto” e la “virtù di Stato”, a un dì presso dallo Stato etico, stanno a sinistra.

6) Il liberale conosce e rispetta altresì la distinzione tra il diritto e la politica. Nella concezione liberale, i diritti non nascono da un atto di concessione dello Stato, ma sono da esso riconosciuti come corredo naturale della persona. Al contrario, in seno alle dottrine politiche “socialstatalistiche”, lo Stato viene rappresentato come fonte costitutiva dei diritti della persona. Nella concezione liberale, i diritti della persona, preesistono al riconoscimento dello Stato e si impongono come limite invalicabile alla politica. In altri termini, la politica liberale non è onnipotente, non è invasiva, per ciò stesso che arretra davanti al diritto. La nostra politica di libertà è in un certo senso anche libertà dalla politica.

7) Da qui una diversa concezione della Costituzione. I liberali hanno sempre visto nella Costituzione, non già l’atto di nascita dei diritti umani, bensì una solenne dichiarazione, diretta a limitare e regolare i poteri dello Stato. Dalla Magna Charta in poi la funzione storica delle Carte costituzionali è stata quella di mettere un freno al potere tendenzialmente illimitato del sovrano; e il primo limite è stato ravvisato dai liberali nel riconoscimento dei diritti della persona umana, preesistenti e precostituiti rispetto a qualsivoglia atto legislativo. Al contrario i fautori dell’interventismo pubblico in ogni ambito della convivenza, avendo la necessità logica di deificare lo Stato e sacralizzarne lo statuto basilare, concepiscono l’ordinamento giuridico come un complesso piramidale di norme positive – intenzionalmente deliberate dall’autorità politica e costituzionalmente vincolate – dalle quali scaturiscono i diritti umani, che pertanto non hanno carattere originario, ma derivato. Entro queste coordinate ideali, il diritto perde il suo carattere originario, la persona soccombe innanzi all’autorità politica, la quale può disporre arbitrariamente dei diritti umani: come concede, così può revocare. In nome del “bene comune”, i diritti di quella infinitesimale minoranza, che si riduce a un solo individuo, possono essere compressi e perfino annullati. Anche il diritto di uscire da casa può essere annullato con un semplice atto amministrativo, chiamato Dpcm, mentre la Costituzione più bella del mondo rimane a guardare.

8) Anche il diritto di proprietà è un diritto fondamentale dell’uomo. La proprietà privata circoscrive una sfera intangibile a protezione della persona, una sfera che non può essere violata dallo Stato, se non per ragioni di pubblica utilità e mediante indennizzo. Nella concezione liberale, la proprietà non va tassata, né ablata. A) Qualche parola sulla TASSAZIONE – Se la tassa è il corrispettivo di un servizio, nessuna tassa può gravare su un diritto, in relazione al quale nulla ha fatto lo Stato. La protezione del diritto è offerta dall’impalcatura generale dello Stato, che preserva l’ordine pubblico. Il cittadino contribuisce alle spese generali con l’imposta sul reddito, non deve ulteriormente contribuire pagando una tassa su un patrimonio che ha acquisito senza alcun servizio dello Stato. B) Qualche parola sull’ABLAZIONE. In tutto il mondo, vengono confiscate le cose provenienti da reato; in nessuna parte del mondo si confisca in via meramente preventiva il patrimonio di chi non ha commesso alcun reato. Questo scempio del diritto è possibile solo in Italia, nel vigore della “Costituzione più bella del mondo”.

9) Se il diritto di proprietà ha la funzione essenziale di proteggere la sfera privata della persona, la libertà di iniziativa economica è parte essenziale della libertà tout court. Non può sussistere autentica libertà politica, senza libertà economica. Milton Friedman osservava che non avrebbe alcun valore la libertà di stampa, se tutte le rotative fossero in mano allo Stato o anche a un monopolista privato. La disponibilità dei mezzi rende possibile la scelta dei fini, cosicché la libera iniziativa economica è essenziale per la ricerca della realizzazione personale. La libertà politica, senza la libertà economica, si ridurrebbe alla facoltà dell’elettore di scegliere il colore e la fattura del cappio che, sempre e comunque, stringerebbe il suo collo. Possiamo dunque dolerci del basso indice di libertà di iniziativa economica vigente in Italia? Possiamo dolerci dei mille nulla osta necessari per avviare un’iniziativa economica?

10) I liberali operano poi un’altra fondamentale distinzione: tra scienza e scientismo. Il sapere scientifico si acquisisce mediante il confronto e il mutuo scambio di osservazioni critiche, per questa ragione è aperto alla pubblicazione dei dati e alle prove di confutazione. Il grande filosofo della scienza Popper ci dice che una teoria scientifica è valida fino a quando viene confutata da una nuova. I tromboni dello scientismo, magari assisi su qualche scranno ministeriale, non hanno mai dubbi, non accettano le osservazioni altrui, sono detentori della verità, per infusione dello Spirito Santo. Se la loro scienza ci dice che non dobbiamo uscire di casa per il nostro bene, mentre tutto il resto del mondo lo fa tranquillamente, dobbiamo ubbidire, perché il resto del mondo non ha capito. Insomma lo scientismo è molto lontano dalla vera scienza, è un velo pietoso dietro il quale si celano l’opinione politica illiberale e l’autoritarismo di Stato.

11) Possiamo portare a sintesi le distinzioni fin qui fatte, prendendo in considerazione la dicotomia basilare nel campo delle dottrine politiche e la semplifichiamo al massimo, ma non in modo banale: da una parte stanno i sedicenti “progressisti”, tra i quali si annoverano anche i liberali senza la “i”, dall’altra i conservatori. I liberali con la “i” appartengono necessariamente all’area dei conservatori, essendo consapevoli che la libertà non fiorisce, laddove mancano i presupposti di fondo. Nelle civiltà dove gli uomini sono suddivisi in caste non comunicanti; in quelle dove le donne, prigioniere dei loro burqa, non hanno pari dignità degli uomini; nelle teocrazie dove non esiste distinzione tra il potere temporale e quello spirituale; nei Paesi in cui vige la religione di Stato; ivi la libertà non fiorisce. Dobbiamo essere consapevoli che abbiamo conquistato la nostra libertà con molta fatica e un lungo processo secolare; le radici storiche greco-latine, giudaico-cristiane e infine illuministe hanno realizzato le condizioni della libera convivenza. I sedicenti progressisti, ignari del portato storico delle nostre radici, pensano che tutte le culture siano equivalenti: propugnano il multiculturalismo, perché pensano che il progresso sia irreversibile e costituisca un esito scontato dello sviluppo scientifico e tecnologico. Qui si annida una grande equivoco: in verità, il progresso, in senso stretto e in senso proprio, si realizza solo nel campo scientifico e tecnologico, che riguarda le condizioni materiali della nostra vita; non ha senso invece parlare di progresso nelle relazioni sociali e nel benessere della convivenza. Mentre il sapere scientifico e tecnologico di oggi si somma e aggiunge a quello di ieri; dunque è superiore a quello di ieri e inferiore a quello di domani; in sintesi, appartiene a un ordine additivo; nel campo delle relazioni sociali e dei valori etico-politici, non si realizza alcuna addizione, per la semplice ragione che l’uomo è dotato di libero arbitrio e può scegliere il bene e il male. Ne discende che il male di ieri non è superato irreversibilmente dal bene di oggi e le nefandezze di un tempo possono rivivere nel presente, magari sotto altre spoglie. I genitori 1 e 2 di oggi non sono eticamente superiori al padre e alla madre di ieri; e le unioni civili di oggi non costituiscono alcun “progresso” rispetto al matrimonio di ieri. D’altronde i moderni sistemi di controllo elettronico e la capillare invasività della burocrazia mettono a repentaglio la libertà di ognuno di noi, in modi un tempo sconosciuti, come insegna la triste vicenda del green pass,. Ne discende la necessità di conservare le istituzioni etico-sociali e i valori della civiltà occidentale, i quali, sia pure in mezzo a mille difficoltà e contraddizioni, hanno reso possibile il fiorire della nostra libertà. La difesa della nostra identità culturale e storica non può essere affidata alle sinistre globaliste, che nel coacervo indistinto del multiculturalismo, intendono rendere liquidi tutti i confini (a cominciare da quelli del sesso), per omologare il pensiero e le coscienze intorno al modello del “politicamente corretto”. Chi difende il libero arbitrio dell’uomo, di fronte a tutte le pretese deterministiche del potere politico, non può trovare spazio a sinistra. Ecco perché i liberali devono difendere i valori dei conservatori e stare nel campo del centro-destra.

12) Il preconcetto, secondo cui conservatorismo e liberalismo non si possono coniugare, è sicuramente erroneo. E’ vero proprio il contrario: che lo spazio di libertà, nel quale l’individuo può trovare la sua realizzazione in armonia con gli interessi collettivi, è più ampio e meglio tutelato nel quadro di rapporti tradizionali (cioè pervenuti al consorzio sociale per traditio, mediante la consegna dalla vecchia alla nuova generazione) consuetudinari (osservati spontaneamente per un lungo periodo) e stabili (sottratti al mutevole umore delle fazioni politiche vincenti). L’unica parola che può racchiudere e sintetizzare questo necessario quadro di riferimento – nel quale si ricomprendono: il complesso delle fondamentali regole di convivenza, i valori condivisi, il sentimento di appartenenza alla comunità sociale e la consapevolezza di un’identità popolare storicamente fondata – è: nazione. Ne deriva che libertà – conservazione – nazione si possono, anzi si devono declinare unitariamente. Cerchiamo di cogliere le ragioni profonde dell’intima connessione conservatorismo-liberalismo, le quali, a mio avviso, si sviluppano lungo tre direttrici.

A – La libertà individuale ha profonde radici storico-culturali, senza le quali non può proliferare; è come una pianta che ha bisogno di un humus particolare. Solo laddove si è realizzata la netta separazione tra il potere temporale e quello spirituale, si sono create le condizioni per un ordinamento di libertà. E ciò è avvenuto solo nell’occidente del pianeta, sotto l’influenza della civiltà giudaico-cristiana. La nostra libertà deve molto alla distinzione evangelica tra “ciò che è di Cesare” e “ciò che è di Dio”; come deve molto alla disputa tra Guelfi e Ghibellini; sicché difendere la nostra storia e le nostre radici culturali equivale a difendere la nostra libertà.

B – Bisogna poi considerare che la norma consuetudinaria è incomparabilmente più “democratica” della norma deliberata dall’autorità costituita e verbalizzata in un atto formale. L’impersonale voluntas sottesa alla consuetudine nasce nel tempo, da tutti e da nessuno; e non è coercitiva, perché fondata sull’accettazione e sul consenso dei destinatari; al contrario, la norma che costituisce jus positum, deliberata dall’istituzione politica, è necessariamente autoritativa e coattiva, giacché la sua vigenza e la sua cogenza dipendono dalla sanzione che colpisce i trasgressori.

C – La costanza delle regole agevola il perseguimento dei fini individuali, dunque compiace la libertà degli uomini; al contrario, la loro precarietà e mutevolezza ostacolano i programmi individuali e dunque interferiscono con la libertà. E’ ben evidente che la certezza dei rapporti sociali ed economici, ossia la “certezza del diritto” (ciò che gli inglesi chiamano rule of law e ritengono il fattore più importante del benessere economico-sociale) , è un presupposto essenziale per “investire”, giacché, solo la prevedibilità del risultato induce all’investimento (parliamo non solo di quello economico, bensì di ogni investimento umano, nel senso di scelta di vita). Quando le regole sono mutevoli, il risultato é difficilmente prevedibile e l’investimento scoraggiato. E dunque la “conservazione” delle regole sperimentate nel tempo funge da essenziale presupposto di libertà.

In definitiva, non solo il conservatorismo non confligge con il liberalismo, ma l’uno è complementare all’altro, perché la libertà dell’individuo si può esercitare pienamente solo in un quadro di rapporti sociali, stabilizzato secondo i principi giunti alla nuova generazione per traditio dalla vecchia. E s’intende che la traditio presuppone una lingua comune, senza la quale non si comunica, una cultura e un “sentire comune” e un’identità di popolo; in breve: una “nazione”. Tutto questo non può essere surrogato dall’ordine “globale”, il quale, proprio perché non fondato sulla traditio, dovrebbe essere fondato unicamente sulla norma coercitiva.

13) Ma codesto conservatore, come vuole conservare l’humus culturale in cui si è formata la sua coscienza civile, così vuole conservare, in primo luogo, l’ambiente in cui vive. E’ ambientalista come e più di chiunque altro. Non è tuttavia un ambientalista-ecologista ideologico e soprattutto non crede alla favola narrataci dalla pargoletta Greta e dai seguaci della sua religione. Il clima non dipende dai desideri di Greta, né dalle decisioni dei politici. L’idea del clima dipendente dal fattore antropico fa il paio con l’assunto che vuole la politica onnipotente, ritenuta perfino capace di incidere sui meccanismi del sistema solare. Basta chiedere al prof. Prodi, non Romano, il fratello, al quale non si attribuiscono simpatie politiche di destra, o al prof. Zichichi, quanto siano diverse le questioni dell’inquinamento determinato dall’uomo e quelle del clima. Abbiamo il dovere di non inquinare e preservare il nostro habitat, ma non possiamo illuderci di determinare il clima del pianeta. E’ folle per esempio mettere al bando le caldaie a gas o le automobili a benzina, o pretendere la ristrutturazione di tutte le case degli italiani, come vuole l’UE, sulla base dell’assunto per nulla scientifico che queste scelte possano incidere sull’andamento del clima e impedire il c.d. global warming, novella fobia mondiale assieme alle “pandemie” vere o presunte.

14) In ultima analisi, i liberali amano l’uomo com’è e lo vogliono libero, perché ritengono che la libera dinamica sociale produca un ordine imperfetto, ma comunque e malgrado tutto il migliore possibile; in altri termini sanno fare i conti con l’imperfezione;al contrario i socialprogressisti di tutte le fattezze amano l’uomo come dovrebbe essere, secondo la loro opinione; e lo amano tanto che lo vogliono perfetto, e costatandone l’imperfezione lo vogliono raddrizzare a loro immagine e indirizzarlo alla virtù, o con la forza persuasiva del modello unico “politicamente corretto” e se non basta, con la vis coattiva della norma giuridica vincolante e magari penalmente sanzionata. E mentre vilipendono l’uomo com’è e temono la sua libertà, presumono che l’autorità politica possa e debba salvare l’umanità. Insomma, esprimono pessimismo-scetticismo verso la società degli uomini liberi e il massimo dell’ottimismo-fideismo verso le istituzioni politiche sovraordinate e autoritarie. Ma infine qual è il presupposto logico di tanto pessimismo verso l’uomo libero e tanto fideismo nei confronti dell’autorità?

15) A ben vedere, tutte le dottrine politiche che giustificano, in un modo o nell’altro, l’autoritarismo dello Stato si fondano su un presupposto, non soltanto inaccettabile sotto il profilo valoriale, ma anche errato sotto il profilo logico. Si ritiene che lo Stato abbia una missione salvifica e debba ergersi al di sopra della comunità degli uomini, giacché solo l’autorità superiore, detentrice monopolistica della forza coercitiva, può mettere pace nella “guerra di tutti contro tutti”. In questa logica, le istituzioni politiche sono necessariamente sovraordinate, non promanano dalla libera volontà dei cittadini, ma si impongono autoritativamente al consorzio sociale per la necessità di pacificarlo. Ebbene la supposta “guerra di tutti contro tutti”, che legittima la funzione pacificatrice e perciò salvifica della politica autoritaria, simboleggiata dal Leviatano di Hobbes, ha un fondamento logico errato: che la ricchezza sia una grandezza a somma zero. La ricchezza è vista erroneamente come un insieme di risorse, chiuso e immodificabile: se taluno si appropria di una risorsa, immancabilmente la sottrae a un altro; al suo incremento patrimoniale corrisponde necessariamente il decremento altrui; da qui la guerra per la divisione della torta, alla quale pone fine solo l’autorità superiore. In verità, la ricchezza dell’uomo non consiste tanto nel fatto di disporre delle risorse naturali, quanto nella capacità di utilizzarle. Con l’ingegno e la tecnologia, l’uomo può migliorare l’utilizzo delle risorse, sicché la ricchezza non è una quantità data una volta per tutte, non è la manna che cade dal cielo e rimane inerte sui campi, in modo che il più vorace la sottrae al meno vorace; è invece la conseguenza dell’operosità e dell’inventiva dell’uomo. Non corrisponde a una grandezza definita e predeterminata, perché l’opera e l’ingegno dell’uomo hanno potenzialità incommensurabili e inconoscibili; non è a somma zero, perché la ricchezza dell’uno non è condizione della povertà dell’altro. La ricchezza di tutti può essere aumentata, senza il necessario impoverimento di alcuno. La divisione del lavoro, lo scambio volontario e il progresso tecnologico, reso possibile dal libero accesso alle conoscenze scientifiche, sono le chiavi di volta della ricchezza umana. Malgrado il presupposto logico della politica autoritaria sia palesemente errato, non possiamo attenderci che i suoi numerosi sostenitori ne prendano atto. La pulsione passionale è più forte dell’intelletto e lo piega all’irrazionale. Ne abbiamo una prova particolarmente significativa sotto i nostri occhi. I “sapienti” riuniti a Davos, per salvare il mondo, in fondo la pensano alla maniera di Hobbes. Si sono dati la missione del moderno Leviatano di pianificare l’ordine economico mondiale, in modo che le risorse della terra siano sufficienti per tutti. Ovviamente conoscono il numero delle persone che il pianeta può “sostenere”, in base alle risorse date, e pensano amorevolmente al loro sostentamento, alimentare e sanitario. Ritenendo che il grano o il riso non sia bastevole per tutti, vogliono indurci a mangiare insetti e scarafaggi; opinando che le naturali difese immunitarie siano inadeguate di fronte alle nuove “pandemie”, di cui essi soli hanno precognizione, vogliono vaccinarci anno per anno o semestre per semestre. Conoscono anche l’impatto dell’uomo sul clima e intendono evitare al mondo la catastrofe annunciata del global warmimg. Magari un giorno il pensoso conclave dei pianificatori scoprirà che il pianeta è sostenibile, solo se abitato dagli appartenenti alla loro ristretta cerchia, perciò è meglio sbarazzarsi di tutti gli altri rompiscatole. Insomma, i moderni “Leviatani” sono aumentati: allo Stato nazionale si è unita una sorta di “Ordine Mondiale Provvidenziale”. Ebbene: qual è il presupposto logico di tanto agitarsi per la “sostenibilità” del pianeta e dei suoi abitanti? Ancora una volta, lo stesso errore di fondo: che la torta sia predeterminata.

16) Noi di Destra Liberale Italiana intendiamo rimanere fedeli ai principi basilari del liberalismo, appena enunciati, consapevoli che in ogni caso il cammino della politica è incerto e aspro; sappiamo tuttavia di possedere una lanterna che può illuminare i nostri passi. Da quei principi discende meccanicamente e automaticamente la scelta politica del quotidiano? No. Non abbiamo la presunzione di poter suggerire la soluzione a ognuna delle questioni che urgono. E comprendiamo anche che la politica è l’arte del possibile e anche del compromesso e ci accontentiamo anche dei “piccoli passi”, purché sia chiara la direzione di fondo. Siamo aperti al dialogo anche con quei liberali, senza la “i”, ai quali facevo riferimento. Tuttavia il dialogo può essere proficuo, solo quando si ha piena consapevolezza dei propri punti fermi e dei propri valori irrinunciabili. Per questa ragione, la nostra scelta di campo è precisa; siamo parte del centrodestra; ne rappresentiamo la componente che esprime la più autentica cultura politica liberale e ci adopereremo, affinché le varie anime del centrodestra siano sempre più consapevoli che l’Italia ha bisogno di una vera rivoluzione liberale; ripeto l’Italia ha bisogno di una vera rivoluzione liberale, che non si può fare se non è guidata da un’autentica cultura liberale.

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