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d’Annunzio e Dante

di Gianluigi Chiaserotti

Cadono quest’anno, ed esattamente il 12 marzo, i centosessanta anni dalla nascita de “il Vate” abruzzese: Gabriele d’Annunzio, Principe di Monte Nevoso (1863-1938).

Ed ho pensato di ricordarlo con il suo amore e la sua particolare conoscenza di Dante Alighieri, di cui, sempre nel mese di marzo, cade, il 25, l’annuale “DanteDì” istituito nel 2020.

Gabriele d’Annunzio fu lettore appassionato e attento della Commedia ma soprattutto chiosatore dell’opera poetica monumentale di Dante.

La prova incontestabile di tale attività dannunziana si evidenzia dall’esame di una copia della stessa opera dantesca, ed in particolare dell’edizione di Giovanni Andrea Scartazzini (1837-1901), celeberrimo commentatore del Sommo Poeta, che, piena di sottolineature e annotazioni di pugno del d’Annunzio medesimo, si custodisce nella biblioteca del Vittoriale.

Inoltre , ad ulteriore conferma del grande interesse del d’Annunzio per il Sommo Poeta si possono notare le varie citazioni a margine dei tre volumi delle sue Prose di ricerca e quelle, altrettanto impegnative, che si ritrovano nei “Taccuini” oltre che in diversi suoi romanzi.

Gabriele d’Annunzio vuole misurarsi con i personaggi della Divina Commedia, nell’intento di stabilire un contatto che porti al confronto tra i due poeti.

Un esempio, fra tanti, si puo’ cogliere nella “Francesca da Rimini”, tragedia ispirata a un episodio del Quinto Canto dell’Inferno di Dante Alighieri. Il personaggio dantesco di Francesca da un lato, e l’omonima tragedia dannunziana dall’altro, suscitarono un intenso dibattito filologico-letterario sui problemi posti dal canto infernale. Scrivono al riguardo:

«La scelta di un soggetto dantesco si inquadra, per d’Annunzio, in un globale ritorno alla letteratura delle Origini, colta, folcloristica e popolare, per nulla superficiale ma amalgamata a fini drammaturgici ed espressivi. La forma di una “tragedia in versi” affermava o, per meglio dire, rivelava un rapporto di emulazione e quasi competizione con la massima autorità letteraria . Tema anche questo tipico del ‘800, in cui, pur nella diversità, non si rinuncia ad un paragone tra i due personaggi. E così possiamo vedere come il sentimento di orgoglio del d’Annunzio e la sua tendenza ad assimilarsi a Dante – o quanto meno di confondersi e legarsi con lui in quell’aureola di grandezza, come se volesse immortalarsi insieme a Dante per il giudizio dei posteri, lo si deduce dalle sue stesse affermazioni».

Disse appunto l’Abruzzese di lui: «Io sono il supremo degli Umanisti»; e, più esplicitamente: «Io posso consentire di riconoscermi l’eguale di Dante e di Gianni delle Bande Nere; ma dico che dell’Uno o dell’altro mi affranco per andar oltre: il tutto sovrastato da un Ego smisurato, che è il sigillo inconfondibile della sua granitica personalità, quasi il supporto della sua agognata grandezza».

La stessa varietà delle ricerche, delle note e delle citazioni, la maggior parte delle quali riconducibili allo stesso uomo Dante, rappresentano il canale naturale per introdurci nella tradizione romantica ottocentesca, che rinviene e capta nell’Alighieri le travagliate condizioni della povertà, della fierezza, dell’esilio (ed il riferimento con il Foscolo, studioso anch’esso del Fiorentino, è d’obbligo).

Un insieme di assoluto e di immortale che nella coerenza, nella forza del carattere, nei lineamenti asciutti, quasi smunti del volto ci mostrano un ritratto vivo più che mai di Dante, “a quel modo che il sudario le fascia ai sepolti, perché tutta la figura abbia un che del resuscitato Lazzaro, un che dell’uomo sollevato dal miracolo sopra l’ombra della morte” (“Dante, gli stampatori e il bestiaio”, in “Prose di ricerca”, II, Milano 1962, pag. 612).

Ed è, anzi, questa immagine di uomo a sovrastare persino il poeta, a farne motivo di comparazione, tanto che la presenza di Dante è in lui, più che semplice attenzione, concentrazione analitica e stimolo.

La più evidente e certa testimonianza di questi suoi umori e del suo modo di avvicinare Dante , ci viene confermata dalla prefazione dettata sempre dal d’Annunzio per la Divina Commedia commentata da Giuseppe Lando Passerini (1858-1932), bibliotecario e dantista, edita da Olschki nel 1911 (cfr. “Prose di ricerca”, cit., pp. 600 ss.) e soprattutto dalle chiose e sottolineature apposte al testo dell’opera.

Questa prefazione rappresenta per noi un elemento assai utile e prezioso, perché non solo ci rivela il rapporto tra Dante e d’Annunzio, ma ci spinge a comprendere il mito immortale del Sommo Poeta, consentendoci di enucleare un d’Annunzio che ricerca sé stesso e che si confessa. Egli esprime il suo punto di vista, che tuttavia sempre e comunque, fornisce una descrizione autobiografica di rilievo ed evidenzia i suoi sentimenti, le sue predilezioni, in sostanza i suoi interessi di uomo e di poeta. Così che, per sollecitazioni sentimentali, d’Annunzio intravede nell’Alighieri le virtù della stirpe e tutte le raccoglie e le custodisce in sé in un’interpretazione avida, funzionale a bisogni e sensazioni personali. Altri importanti riferimenti al genio, agli ideali ed alla concezione di vita del Sommo Poeta si ritrovano altresì in altre grandi opere de “il Vate”, come “Il Fuoco”, “Le Laudi” e la raccolta di liriche “Alcyone” con rimandi impliciti, espliciti o presunti alla Commedia dantesca.

In ogni caso l’ammirazione de “il Vate” per la grandezza e il genio del Sommo Poeta risulta del tutto pacifica, anche solo e semplicemente ricordando una frase da lui pronunciata nel 1900 a Firenze durante un suo discorso ad elogio dell’Alighieri, secondo cui “è più facile abbattere la più ardua rupe che mutare un verso dell’Inferno”.

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