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De Luca e l’insulto della disperazione, dell’uomo e del Sud

di Salvatore Sfrecola

“Guascone”, “buzzurro istituzionale”, “cafone” e, naturalmente, “Masaniello”, considerata l’origine partenopea, Vincenzo De Luca di epiteti ne ha collezionati molti, da quando, impegnato a Roma a manifestare il suo dissenso rispetto al disegno governativo sull’autonomia differenziata, ha insultato la Presidente del consiglio, Giorgia Meloni, che lo aveva invitato a lavorare invece di protestare.

Nel dibattito politico, ha ricordato Federico Geremicca su La Stampa, “alle volgarità… eravamo già abituati, ma in questo caso – oltre che diverso – lo scontro è più grave coinvolgendo due figure istituzionali in carica: la Presidente del consiglio e il Presidente della più grande regione del Sud del Paese”. L’offesa mi ha molto disturbato perché rivolta prima di tutto ad una donna alla quale si dovrebbe, secondo i canoni dell’educazione che mi è stata impartita, prima di tutto rispetto e per l’epiteto, “stronza” che non ho mai usato, neppure al maschile, ovviamente, anche se lo sento ripetere spesso.

Quella di De Luca, dunque, è una volgarità più che ingiustificabile, come ho letto, assolutamente inammissibile per quanto ho appena detto e per il contesto politico nel quale l’insulto è stato usato. Tuttavia, al di là delle preoccupazioni giustamente manifestate intorno al degrado del linguaggio e, quindi, della politica, occorre, per essere concreti, approfondire l’occasione e il contesto nel quale lo scambio di battute c’è stato fra il Presidente del consiglio e il Presidente della Regione Campania. 

Una riflessione, infatti, è necessaria per comprendere se i “dialoganti” hanno sbroccato o se ci sono effettivi problemi. Insomma, credo si debba evitare che domani non si parli più né dell’insulto, magari perché nel frattempo De Luca ha chiesto scusa, né dei problemi che lo scontro sottende. Un rischio concreto a leggere i giornali che hanno soprattutto scritto delle regole dell’etichetta personale e istituzionale perché, come scrive Francesco Maria Del Vigo su Il Giornale “insultare un presidente del Consiglio non è fare politica e non è nemmeno fare ridere”. Divagando, senza ulteriormente approfondire, dei soldi che “non bastano mai”, come ammette Antonio Polito sul Corriere della Sera.

De Luca, esponente importante del Partito Democratico, per certi versi isolato nell’ambito della gestione di Elly Schlein, impossibilitato a candidarsi per la terza volta a Presidente della regione Campania, siede su una polveriera, quella del Sud che chiede di essere accompagnato nell’attualità del contesto delle regioni del Paese più sviluppate, dove l’economia assicura posti di lavoro e i servizi alla persona, ad iniziare dalla sanità, sono dignitosi.

Da “uomo del Risorgimento”, come mi considerano affettuosamente molti miei amici, fermamente convinto della necessità storica dell’unificazione nazionale nel 1861 e del fatto che il Regno delle due Sicilie non fosse quel paradiso che raccontano i patetici “neoborbonici”, che pullulano sui social, in particolare su Tik Tok, non c’è dubbio che il Sud abbia motivi di protesta seri nei confronti del potere centrale e non da oggi. È vero, l’unificazione nazionale è stata difficile. Per il contesto sociale delle regioni meridionali dove i liberali che chiedevano la costituzione, se evitavano il carcere o il cappio, dovevano emigrare a Torino, regioni dove il brigantaggio, endemico, ha trovato modo di riciclarsi inventando una guerra “patriottica” contro i piemontesi per riportare a Napoli ‘o re!. 

Chi ha studiato un po’ sa che Camillo Benso di Cavour fin da giovanissimo, quando ancora non era in politica, guardando all’Italia nel suo complesso, ammirava e apprezzava l’economia meridionale, in particolare l’agricoltura e sosteneva che le ferrovie che, nella sua ottica, avrebbero unificato l’Italia, sarebbero state funzionali allo sviluppo del Sud le cui merci avrebbero rapidamente raggiunto il Nord e l’Europa, mentre i grandi porti di Napoli e Palermo avrebbero consentito all’Italia di essere la porta del Continente sul Mediterraneo per portare le merci in Medio ed Estremo Oriente. Così non è stato. Il Conte, che aveva capito quali e quanti problemi la nuova Italia avrebbe dovuto affrontare e risolvere, è morto troppo presto ed i suoi successori non sono stati all’altezza delle sue intuizioni e speranze. Per cui se “Cristo si è fermato ad Eboli”, come Carlo Levi ha titolato il suo bel libro, più o meno lì si sono fermati lo sviluppo della rete ferroviaria e autostradale, infrastrutture fondamentali per lo sviluppo di un’economia.

Ugualmente il modello economico che si è a lungo immaginato per il Sud non può essere lo stesso che si attua nelle regioni del Nord, dove tradizionalmente prevale l’industria metalmeccanica di varie dimensioni. Le regioni del Sud, senza trascurare la possibilità che accolgano insediamenti industriali importanti, sono caratterizzate da un clima straordinario, che lo stesso Cavour riconosceva essere una delle ragioni dello sviluppo della sua agricoltura e del turismo che offre luoghi storici e d’arte unici al mondo, testimonianza dell’evoluzione della civiltà, della quale siamo orgogliosi, dalla Grecia a Roma. Quindi le regioni meridionali avrebbero dovuto puntare molto sull’agricoltura che è fiorente e sulla trasformazione dei suoi prodotti. Puntando, altresì, su un turismo di qualità e di massa, a seconda delle zone, capace di attivare un cospicuo numero di posti di lavoro praticamente lungo l’intero anno come ci dicono le cronache.

Siamo molto indietro su questi temi. La stessa Presidente del Consiglio, in Calabria per visitare gli impianti del porto di Gioia Tauro, mentre De Luca protestava a Roma, ha evocato l’esigenza di sviluppare le infrastrutture viarie e ferroviarie necessarie anche al trasferimento delle merci che giungono in porto perché, come in altre parti d’Italia, l’appetibilità degli scali marittimi per i vettori sta nella velocità con la quale le merci sbarcate vengono portate a destinazione.

Ora il Sud, pur avendo avuto nel tempo importanti uomini politici, sia al tempo del Regno d’Italia che della Repubblica, nella quale ha avuto anche Capi dello Stato e Presidenti del consiglio, è stato amministrato spesso male e lo Stato nazionale non ha avuto la capacità di sostituirsi agli amministratori locali, incapaci o disonesti, per rispondere alle esigenze reali delle popolazioni. Se si pensa alla Sicilia, che è una regione dotata di “speciale” autonomia, il cui statuto è stato emanato con il regio decreto-legge 15 maggio 1946, n. 455, promulgato dal Re Umberto II, prima della costituzione della Repubblica, se consideriamo la bellezza e la ricchezza dell’isola, non possiamo non considerare che le infrastrutture viarie e ferroviarie sono una vergogna, non per la Sicilia ma per l’Italia. Per andare da Trapani a Catania ci vuole più che andare da Roma a New York. Non è ammissibile. Ugualmente non è ammissibile che la Sardegna, altra perla del nostro Paese, non abbia un’autostrada.

Nonostante, dunque, tutte le mancanze che la classe politica meridionale al governo delle regioni ha dimostrato nel corso degli anni, spesso condizionata da ambienti opachi, non è dubbio che queste abbiano da rivendicare nei confronti dello Stato nazionale. E non è certo il caso di farlo sventolando la bandiera del Regno delle due Sicilie, un anacronismo che riconosce anche il Principe Carlo di Borbone delle Due Sicilie che in un’intervista ha detto che l’unità d’Italia non è in discussione, mentre si leggono sui social, su tik tok, in particolare, spinte secessioniste fomentate da loschi figuri, le stesse ambizioni localistiche che si sentono in alcune aree del Nord.

Non è ovviamente responsabilità di Giorgia Meloni, del suo partito e degli altri che formano la coalizione di governo, la condizione di sofferenza delle regioni meridionali ma va compreso quel grave disagio che esplode in modo volgare nell’epiteto usato da Vincenzo De Luca che unisce ai problemi del Sud e di gestione della sua regione problemi personali e del suo partito.

Forse De Luca è effettivamente un “guappo ‘e cartone”, come qualcuno lo ha definito riprendendo il titolo di una famosa commedia di Raffaele Viviani del 1932, spavaldo e arrogante ma che non mette paura.

Ma il problema Sud c’è e non va sottovalutato.

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