venerdì, Maggio 3, 2024
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Ha deluso Salomè al teatro dell’Opera di Roma

di Dora Liguori

Dal 2007, l’affascinante capolavoro di Richard Strauss mancava dal teatro della capitale, pertanto, grande era l’aspettativa e, per questo, ancor più grande è stata la delusione al cospetto di uno spettacolo che tutto avrebbe potuto essere fuorché spettacolo; o meglio tutto fuorché la Salomè di Strauss. 

Per essere più espliciti, è ormai noto i “mala tempora” che corrono per i teatri del mondo ove dei potenti sovrintendenti, qualsivoglia sia il pensiero o i desideri del pubblico, probabilmente (è il caso di dire) in concerto tra loro, sempre più hanno deciso di propinarci regie definibili: strampalate, quando va bene, più spesso orride se va male, da parte di registi che in gara cercano di raggiungere la vetta del, come ebbe a dire, Carlo Verdone “o famo strano”. 

Questa volta, però, al teatro dell’Opera, più che farlo strano il regista Barrie Koski, ben “coadiuvato” dalle non scene di Katrin Lea Tag, non l’ha proprio fatto, ossia almeno visivamente tutto lo spettacolo è consistito in una scena mal rappresentata da una scatola nera, con qualche spaccatura laterale per consentire agli artisti di entrare. Insomma, un nulla di scena e dove, fatto il loro ingresso i cantanti, soltanto quelli che interpretano le parti principali (i ruoli secondari sono lasciati a cantare nel buio pesto) si dovevano agitare, illuminati da quello che, per il regista, avrebbe dovuto essere la luce lunare e che, per chi non possiede identica fantasia, semplicemente il cosiddetto “occhio di bue”, tanto caro all’avanspettacolo. 

Orbene, circondati da questo funereo contesto (già l’opera non è allegra) e, come detto, illuminati da un claustrofobico cerchio di luce, i cantanti si sono mossi (a parte Salomé, in imitazione di Gloria Swanson nel film “Viale del tramonto”) infagottati in brutti costumi e senza altro supporto scenico, per esprimere tutto ciò che, prima Oscar Wilde, e poi Strauss e il suo librettista hanno inteso raccontarci sulla sensuale storia di Salomé… roba che persino ad una Eleonora Duse rediviva sarebbe stato possibile fare. 

Fortuna vuole che il dramma di Wilde sia una storia tanto famosa da essere più o meno conosciuta da tutti, altrimenti… altrimenti sfido qualsivoglia persona presente in sala a dirci cosa mai stesse avvenendo in palcoscenico.

Ancora una volta, al povero spettatore è rimasta una sola scelta: chiudere gli occhi e ascoltare la musica di Strauss, tra l’altro ben diretta da Marc Albrecht con le ottime voci soprattutto di Lise Lindstrom nella parte impervia di Salomé, Nicholas Brownleel, Jochanaan (Giovanni) e fuori luce Jole Pietro (Narraboth). Mediocri tutti gli altri e qualcuno, addirittura, in condizione, se avesse voluto, di non superare neppure l’esame di ammissione in un Conservatorio italiano.

E tutto il pubblico infuriato si è chiesto: ma dovevano andare sino a Francoforte per ammannirci un “pacco “del genere, compreso il costoso trasporto della scatola nera, in Italia definito “quadrato” di neri, presente in tutti i teatri. 

Come prevedibile, alla fine di questa povera Salomé, il teatro è quasi caduto giù dai fischi e dalle urla degli spettatori che, come dire, si sono forse sentiti un tantino turlupinati dalla non messa in scena dell’opera di Strauss. Comunque, urla o non urla il vento non cambierà poiché appare evidente che, magari il pubblico non lo sa, ma ci debbano pur essere imperscrutabili motivi a spingere i nostri sovrintendenti a tanta esterofilia, dicasi al 90%. Infatti, volendo scrutare i vali cartelloni, ormai occorrerebbe la “lampada di Aladino” per veder comparire qualche italiano; e ciò nonostante, il riconoscimento UE sul canto italiano.

Comunque, non essendoci mai fine al peggio, per completare il quadro esterofilo, da qualche anno è stata posta in essere, sempre dai sovrintendenti, un’altra bella pensata così riassumibile: perché affidarci sempre ad opere del repertorio italiano sia pure cantate da stranieri e non rivolgerci, per meglio giustificare il vezzo esterofilo, a tutta una serie di opere, russe, tedesche e slave? A questo punto per realizzare queste opere cosa occorre? Diavolo! Scritturare non già dei singoli cantanti ma il pacchetto intero dello spettacolo che, confezionato all’estero, porti in Italia anche registi, scenografi, costumisti, datori di luci e quant’altro. Insomma, un’operazione di giustizia verso tutti, magari fatta, non fischiando, ma infischiandosene di artisti e maestranze italiane e soprattutto, visti i risultati, delle riprovazioni del pubblico. 

Ed io pago! Direbbe il grande Totò.

Se poi qualcuno va ad obiettare come i mediocri cantanti, registi in preda ad elucubrazioni etc siano, quando scritturati, in grado di esibire impressionanti curriculum; a questo punto il gioco di costoro è facile da comprendere: importante esserci! 

Infatti, partecipare a spettacoli in grandi teatri, soprattutto italiani, rende loro utili soddisfazioni, così riassumibili: se mi esibisco in Italia o in altri grandi teatri del mondo, a fronte della stoica sopportazione di immancabili fischi da parte di un pubblico ignorante e anche buzzurro, incapace di comprendere ingegni d’avanguardia, possiamo, dopo, appropriarci del prestigio derivante dalla presenza in questi grandi teatri; presenza che ci consentirà di svolgere, alla grande, “luminose carriere”, sempre contestate (le contestazioni non appaiono nei curriculum) e sempre ampiamente remunerate.

Insomma… l’importante è esserci poiché i fischi passano e le presenze restano! 

Rimane da capire, ahimè, l’operato dei sovrintendenti ad avere un pubblico in piedi che contesta! Mah! 

“La vita è sogno” diceva Calderon de la Barca, e a questo proposito, per amore di tutti gli dei, c’è qualcuno in Italia che si pone qualche domanda e magari riesce, almeno in parte, a farci risvegliare da questi brutti sogni, anzi incubi, che stanno rovinando la lirica?

E la stampa ufficiale? Non volendo o non potendo attaccare i teatri tace! Oppure, come ha fatto qualche critico, si abbandonano per spiegare l’inspiegabile, a dotte introspezioni metafisiche … tra Freud e Kant. Dei fischi… neppure un accenno!

Potenza di… lasciamo perdere!

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