giovedì, Maggio 9, 2024
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A Pioltello si chiude la scuola nell’ultimo giorno del Ramadan, a Siena l’Università per stranieri chiuderà anche per il Kippur. Forse suona la sveglia per i cristiani

di Salvatore Sfrecola

Dopo che il “dirigente scolastico”, quello che chiamavamo Preside, della scuola di Pioltello ha deciso di chiudere l’istituto il prossimo 10 aprile, giornata conclusiva del Ramadam, Tommaso Montanari, Rettore dell’Università per Stranieri dei Siena, ha deciso di chiudere anche per il Kippur, ad ottobre, festa religiosa ebraica anch’essa caratterizzata dal digiuno.

“Siamo una società multiculturale”, ha tuonato il Rettore senese, storico dell’arte, un simpatico affabulatore che spalleggia le sinistre. E così, passando da Giotto a Guttuso, con linguaggio colto dall’accento toscaneggiante, il Professor Montanari ha scalato l’Olimpo dei testimonial delle sinistre, chiamato in TV a parlare di tutto, dalla riforma costituzionale di Matteo Renzi a quella di Giorgia Meloni. Per dirci adesso che l’italiana è una società multiculturale, come se fosse una novità, mentre dalla Roma repubblicana e imperiale abbiamo appreso che l’accoglienza degli stranieri era la regola, come ha ricordato il Ministro dell’istruzione, Giuseppe Valditara, romanista, in un documentato libretto intitolato “L’immigrazione ai tempi dell’antica Roma”. Accoglienti sì, nei confronti di tutte le etnie e fedi religiose, purché gli immigrati rispettassero non solamente le leggi dell’Urbe ma si sentissero partecipi della sua missione storica.

Per cui il Prof. Montanari, che da storico dell’arte sa bene quale apporto ha dato la religione cattolica alle arti, da quelle figurative alla musica alla poesia, basti richiamare la Commedia di Dante, sa anche che multiculturalismo si può parlare solo se si è consapevoli che le radici spirituali del nostro popolo sono permeate dell’insegnamento della Chiesa di Roma. Che ha anche educato alla tolleranza, una virtù civile che spesso viene considerata espressione di debolezza, come la buona educazione. Per cui qualcuno ha escluso l’allestimento del Presepe per non disturbare i fedeli di altre religioni o impedito che nelle mense scolastiche fossero dispensate delle salsicce, sempre per rispettare altri ai quali quel piatto è proibito o anche che si potesse pranzare quando altri digiunano. Questo non è rispetto per le altrui usanze ma negazione delle proprie, essendo evidentemente possibile una convivenza tra le diverse consuetudini qualunque ne sia l’origine.

A questo punto va detta la verità. Non è rispetto per le usanze altrui ma mancanza di consapevolezza delle proprie, abbandono delle radici spirituali, incapacità di coltivarle. Ciò che non attiene solamente all’aspetto religioso. Anche i valori civili, che nel corso dei secoli hanno accompagnato l’evoluzione del pensiero di chi guardava con speranza all’Italia unita, si sono dispersi negli ultimi decenni, come dimostra la trascuratezza per l’eredità risorgimentale, ”unico tradizionale mastice” dell’unità d’Italia, come ha scritto Indro Montanelli. Eppure, non era solo esaltazione patriottica degli eventi che dal 1848 al 1860 hanno portato alla formazione dello stato nazionale, ma affermazione delle libertà civiche, dei diritti delle persone, del credo religioso dell’assoluta maggioranza degli italiani pur nel rispetto delle altre fedi.

Com’è potuto avvenire questo arretramento sui valori civili e religiosi? Da un lato per effetto di una classe dirigente mediamente lontana dal credo liberale che da Cavour a Giolitti ad Einaudi aveva fatto convivere le varie libertà con il buongoverno, dall’altro per il progressivo inaridimento dell’impegno delle istituzioni religiose, dalle parrocchie alle scuole, in un territorio immerso anche visivamente, tra cattedrali, monasteri e certose, nella cristianità. Come, del resto, l’Europa intera che, infatti, il Santo Papa Giovanni Paolo II invitava, purtroppo invano, a riaffermare le proprie radici spirituali giudaico-cristiane.

È sterile, dunque, la critica al Preside di Pioltello o al Rettore di Siena se i cattolici non si fanno sentire, se accettano che non si festeggino Natale e Pasqua, il giorno del papà e della mamma e quello dei nonni. Se non pretendono il diritto di figli e nipoti di poter mangiare una gustosa salsiccia che, ovviamente, non va imposta ai fedeli di diversa religione. Vuol dire che ognuno avrà a mensa i piatti che preferisce e festeggerà le ricorrenze della propria cultura.

Non condivido, dunque, l’iniziativa di quanti si lamentano della chiusura dell’istituto nella giornata conclusiva del Ramadan, convinto che farebbero bene ad esprimere un diverso impegno, magari frequentando con maggiore assiduità le chiese e le cerimonie della religione della quale si dicono seguaci. Se le parrocchie non sono da tempo luogo di aggregazione dei giovani, se gli oratori sono dismessi e perfino i campetti di calcio non sono più frequentati come un tempo, se non si vedono più neppure quei volonterosi boy scout sui quali tante volte abbiamo scherzato, la presenza dei cristiani nella vita sociale e nella realtà d’Italia non possiamo garantirla mettendo dei paletti alle espressioni culturali delle altre religioni, soprattutto all’islamica i cui seguaci apertamente manifestano la loro fede.

I cristiani, purtroppo, da tempo trascurano i luoghi di culto e le funzioni religiose, anche se in occasione delle feste “comandate” sembra risvegliarsi un qualche interesse. Chi, all’occasione, si manifesta convintamente cristiano, quanti benedicono la mensa? Un gesto semplice, che può essere anche silenzioso, ma che ha il senso della consapevolezza. Certo nella trascuratezza dei fedeli ha un ruolo non indifferente una riduzione del senso del sacro che si nota spesso nelle cerimonie religiose, definite assemblee, nel corso delle quali le omelie spesso sono plateale dimostrazione della incapacità di trasmettere il senso attuale delle letture in termini efficaci, come insegnano le regole della comunicazione, che indicano semplicità e concisione in termini tali da lasciare un’idea che può accompagnare i fedeli al di là delle mura della chiesa. 

E così le varie catechesi sono trascurate, anche per l’obiettiva difficoltà, soprattutto nelle grandi città, di frequentare il “salone parrocchiale” sempre in orari nei quali la stanchezza dal lavoro o dallo studio è una buona “scusa” per disertare l’impegno. Un tempo nelle parrocchie giovani e meno giovani erano richiamati dalla possibilità di incontrare amici, di ascoltare della musica, imparare a suonare l’organo o la chitarra, di tirare la pallina del ping pong o le bocce. Un tempo qualche prete volonteroso dava lezioni di latino e greco o aiutava i giovani a ripassare storia e geografia.

È una realtà sotto gli occhi di tutti. L’importante è non scoraggiarsi. Ma per questo serve fede non solo nella religione ma anche nei religiosi. Se manca questo impegno personale o di gruppo i cristiani sono destinati ad essere marginali nella società

Se tutto questo che abbiamo richiamato manca non possiamo pensare che il senso della cristianità sia preservato da regole escludenti gli altri. E se non condivido, per quanto appena detto, l’opinione di Magdi Allam preoccupato, come ha detto intervistato su Pioltello da Giuseppe China per Il Tempo, perché “corriamo il rischio di rendere questo caso una consuetudine per tutte quelle realtà simili a una scuola, come un‘azienda”, sono d’accordo con lui quando afferma che “la maggior parte del musulmani non è interessata ad integrarsi”.

Lo chiedono tutti ma è un equivoco. Come per quanti parlano di ius soli e del cosiddettoius culturae. Infatti, l’automatismo che pretende di fare del figlio di stranieri un italiano solo perché nato qui o perché in una nostra scuola ha studiato qualche anno cozza contro una realtà evidente. Quei ragazzi sono permeati della cultura delle loro famiglie, della storia dei paesi d’origine dei quali, nella maggior parte dei casi, hanno una struggente nostalgia. Perché sradicarli dalla loro storia? Vivono in Italia. È giusto che abbiano gli stessi diritti dei nostri figli e nipoti, quanto all’istruzione, alla possibilità di svolgere attività sportive, all’assistenza sanitaria, escluso il diritto di voto che è espressione di un’appartenenza per la quale, ad esempio, la difesa della Patria è un dovere “sacro”. È normale che in Italia ci siano cittadini, residenti temporanei, ospiti. Del resto, quanti italiani lavorano per anni all’estero, spesso senza chiedere la cittadinanza di quel paese e comunque continuando a sentirsi italiani?

È un equivoco che ha avuto gravi conseguenze in paesi a noi vicini, in Francia e in Belgio, dove i “cittadini” di seconda o di terza generazione si sono rivelati i più pericolosi agenti del fondamentalismo musulmano perché, legati alle tradizioni familiari, guardano ai costumi incontaminati dei paesi d’origine.

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